Giacomo Poretti

Giacomo Poretti, Io faccio sul serio

Con Aldo e Giovanni diverte milioni di persone. Ora, che il trio compie venti anni, Giacomo Poretti si racconta. L' oratorio, la politica, il teatro... Fino all'incontro in cui ha riscoperto «il cuore delle cose» (da Tracce, marzo 2011)
Fabrizio Rossi

«Una grande gara con Dio, per fare di ogni giornata un’opera d’arte». Così è la vita, parola di Giacomo Poretti. Nel trio con Aldo e Giovanni, vestendo i panni di Tafazzi o Mr. Flanagan, di un improbabile arbitro o di un acrobata bulgaro, ha fatto divertire milioni di persone. Ma il comico è capace anche di far sul serio. Eccome. E non perché si avvicini ai 55 anni (gli occhi sono sempre quelli birichini del Bimbo Gigi di Mai dire gol), né perché ormai debba badare anche a un altro “trio” (quello con la moglie Daniela e il figlio Emanuele). Il punto è che, come dice Giacomo, «siamo tutti inquieti: ci affanniamo in miliardi di cose, senza occuparci dell’essenziale». Di quel «qualcosa che dia un senso alla vita», che lui ha sempre cercato fino a quando non ne è stato afferrato. «Per l’incontro con un prete», racconta, «che sapeva andare al cuore delle cose». Ma, in fondo, se il 21 febbraio Aldo, Giovanni e Giacomo hanno potuto festeggiare venti anni insieme, è ancora una volta «colpa di un prete: quello che, quando andavo all’oratorio, mi ha fatto scoprire il teatro».

Andiamo per ordine: tu cosa ci facevi all’oratorio?
Sono cresciuto a Villa Cortese, vicino a Legnano. L’oratorio era un riferimento per quel paesino: tra le partite di pallone e gli scappellotti del parroco, la messa e i giochi nell’erba, è stata un’esperienza fondante. E se oggi faccio l’attore è colpa del sacerdote di questo oratorio, don Giancarlo Colombo.

Perché?
Con gli adulti aveva messo in piedi una compagnia teatrale. Per uno spettacolo cercava tre bambini: uno molto grasso, uno molto alto e uno molto basso. E mi ha preso, indovinate voi per quale dei tre. Ho scoperto così che il teatro è il più bel gioco del mondo. È stato un input.

Poi la tua vita ha preso altre strade, portandoti a lavorare come infermiere...
Sono stato all’ospedale di Legnano per undici anni, di cui cinque in oncologia. Intanto, mi ero iscritto ad una scuola serale di teatro. Fino al grande salto: nel 1985 mi sono licenziato.

Hai rischiato molto, lasciando quel lavoro.
È quello che diceva mia mamma: «Ma come? Te gh’è lì un bel post...». Tutto vero, ma il teatro era qualcosa in più. Solo che, o diventavi famoso, o ti ritrovavi nella miseria. D’estate animavo i villaggi turistici in Sardegna, e lì ho conosciuto Aldo e Giovanni, che allora formavano un duo. Mi hanno subito colpito, tanto che mi sono detto: «Devo lavorare con loro». Nel 1991, un locale vicino a Malpensa ci ha proposto: «Venite la domenica e recitate quello che volete». Così è nato il trio.

In questi venti anni insieme, cos’hai scoperto?
Il valore dell’altro. Sai, un artista pensa: sono io il centro del mondo, ho io le idee migliori. Capita anche a noi, perciò litighiamo spesso. L’altro giorno, per esempio, girando uno spot Aldo si è imbizzarrito su una questione di regia, che non era certo il suo campo. Abbiamo lasciato fare, però, sicuri che sarebbe arrivato qualcosa di positivo. È una chimica complicata e ci abbiamo impiegato tanto, ma senza gli altri non vai da nessuna parte. Sono una ricchezza per te. Questo anche nella vita, perché non puoi separare la persona e il teatrante.

Qual è la soddisfazione più grande, in quel che fai?
Quando in scena si crea un sincronismo perfetto. Con Aldo, Giovanni e chi ci guarda, perché il rapporto con la gente è tutto. Lì è pura gioia. E ognuno di noi è chiamato a questo: a condividere la bellezza, a fare della propria vita un’opera d’arte. Poi noi speriamo sempre che succeda un imprevisto: quella è la sera più bella. Come quella volta che, in un teatro di Milano, s’è inceppato il telo che doveva scendere. Anziché arrabbiarci, abbiamo improvvisato per mezz’ora: facevamo finta di vendere le bibite, prendevamo in giro il tecnico... Il pubblico sente una freschezza e si diverte ancora di più.

Un imprevisto è la sola speranza...
Come nella vita. Ma lì la gente non ama gli imprevisti: uno vorrebbe controllare tutto, la moglie, gli amici... Certo, se riuscissimo ad improvvisare così anche nella vita saremmo dei fenomeni.

In che cosa consiste questa «pura gioia» di cui parli?
È una specie di innocenza, di purezza che vogliamo rappresentare. La comicità per noi ha molto a che fare con l’allegria che si prova dentro al cuore. Nasce da uno sguardo sulle cose come quello dei bambini. Non in senso moralistico. Hai in mente un litigio tra bambini? Come è capitato l’altro giorno tra mio figlio e un compagno d’asilo: dal nulla vola un pugno e giù lacrime, poi un attimo dopo si dicono «Pace, carote e patate», e ridono. Purtroppo, poi, perdiamo questa semplicità. Litighiamo perché siamo tutti fatti a immagine e somiglianza di Dio, ma io penso di essere fatto più a somiglianza Sua di te. E tu pensi lo stesso.

Oggi leggi la Bibbia in giro per l’Italia, tieni incontri alle giovani coppie, curi una rubrica sul mensile cattolico Popoli... In che modo hai scoperto la fede?
La mia è una riscoperta, perché vengo da un humus cattolico. Ho vissuto un lungo esodo: a 16 anni ho conosciuto i movimenti di estrema sinistra e sono entrato in Democrazia proletaria. Ero conquistato da quegli ideali: cambiare il mondo, renderlo migliore... Quando ho visto che i metodi erano sbagliati, soprattutto con il caso Moro, ho abbandonato tutto. Ma, col tempo, ho capito che anche le intenzioni non erano buone: consideravano solo una parte dell’uomo, tagliando via il suo bisogno di sacralità.

Quindi cos’è successo?
Per anni ho cercato qualcosa che riempisse questo desiderio, che desse un valore alla vita. Anche Daniela, che sarebbe diventata mia moglie, cercava la stessa cosa, così ci siamo dati coraggio a vicenda. Poi c’erano le cene dei milanesi inquieti...

Di che si tratta?
Ogni sabato, cenavamo con una decina di amici e parlavamo del senso della vita, cercavamo di dimostrare se Dio esiste... Poi è successo un incontro fondamentale. Per caso, ma alla fine niente è casuale. Sono stato invitato a presentare il film Chiedimi se sono felice al San Fedele, il centro culturale dei gesuiti. Mi ha colpito questo cineforum, in cui nessuno parlava sopra all’altro, e chi lo teneva: un prete di 78 anni che, con semplicità, sapeva andare al cuore delle cose. Allora mi sono fatto avanti: «Vuole venire a cena da noi?».

E i “milanesi inquieti”?
Ho detto loro: «Ragazzi, fermi tutti: ho conosciuto uno che ci può rispondere». Ad un certo punto della cena, questo sacerdote ha chiesto: «Per quale motivo mi avete invitato?». «Per sapere se Dio esiste o no», ho buttato lì. E lui, nella sua semplicità: «Io mi sono fatto prete, più di 50 anni fa, perché ho scoperto che Dio è amore». E ha ripreso a mangiare. Mi sono detto: «O è folle, o sta dicendo una cosa fenomenale». Quindi, con Daniela e qualche amico, abbiamo deciso di iniziare un cammino di fede con lui. Le cose più grandi nascono così, se tu attendi qualcosa.

Come è cambiato il tuo modo di vivere il lavoro?
In realtà le cose che faccio sono le stesse: è cambiato il modo in cui le vivo. Con dentro quell’incontro. E cerco di fare tutto al meglio. Come i miei soci, anche se apparentemente non credono: ognuno ha dentro il senso del bello, sia che faccia il giornalista, il comico o la mamma. È innato, ce l’ha regalato Lui.

Lo ha ricordato il Papa all’incontro con gli artisti, cui hai partecipato...
Ci ha richiamati al valore del bello, in un mondo dove l’arte viene mercificata. È come se oggi non desiderassimo più la bellezza. Su questo mi ha interrogato molto il volantino di Cl sulla situazione del Paese: la modernità ci ha portato il benessere, ma può essere una tomba se continuiamo a concepirci isolati dagli altri. Rischiamo di morire spiritualmente.

Che cosa intendi?
Abbiamo troppo di tutto. Pensa alla musica: la mia generazione aveva i dischi in vinile. Quello di Baglioni era ormai pieno di solchi, lo sapevi tutto a memoria. Oggi ti puoi scaricare 23mila canzoni, ma di quale sei innamorato?

Se guardassi ora a quegli ideali che ti avevano conquistato, come stai cambiando il mondo?
Ci ho pensato molto. Prendi, per esempio, chi fa satira politica come Benigni: è una cosa meritoria, ma in fondo ha un’intenzionalità morale. Noi tre, invece, siamo più figli di Stanlio e Ollio, Charlie Chaplin, Totò. Anziché pensare di cambiare il mondo, ecco l’unico compito che abbiamo: cambiare noi stessi. Fare bene quello che abbiamo tra le mani. Gareggiare con Dio: Lui ha creato, ora tocca a te. Il resto viene di conseguenza.