La luce della realtà

Le pretese di una ragione positivista, la confusione del nostro tempo e quella Presenza che riapre tutto. Dialogo con il filosofo Eugenio Mazzarella a partire dalle parole di Julián Carrón alla Giornata d’inizio di CL (da Tracce, novembre 2011)
Ubaldo Casotto

Il primo tratto che colpisce del professor Eugenio Mazzarella è la disponibilità, unita a una gentilezza partenopea d’altri tempi: «Se posso esservi utile, volentieri. Ho letto il bellissimo testo di don Carrón e sono pronto a rispondere alle vostre domande». Napoletano, ordinario di Filosofia teoretica all’Università Federico II di Napoli e deputato del Partito democratico, è tra i massimi interpreti italiani del pensiero di Martin Heidegger.

Che effetto fa a un professore di Filosofia - dopo secoli di teorizzazione di autonomia della ragione, dopo la constatazione di una “ragione fragile”, incapace di raggiungere la realtà e di dare certezze all’uomo contemporaneo - l’affermazione che «una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità nasce e si realizza nell’avvenimento cristiano»?
Il limite del pensiero moderno - almeno di quello che ha dato il tono alla modernità come insediamento dell’uomo nella sua immanenza a se stesso - è di aver equivocato l’autonomia della ragione, che è poi la libertà, in termini operativi-formali, “riducendola”, cioè, alla sua (pretesa) pura capacità di dare a se stessa le norme del suo agire. Qui stanno anche le ragioni della sua “fragilità”, nel senso delle smentite della realtà e dell’esperienza a questa pretesa. Questa “assolutizzazione” della ragione, che crede di potersi sciogliere da ogni cosa nel decidere di sé, le ha fatto perdere la sua capacità di essere “organo” dell’Assoluto: di “vederlo” nella Legge come il suo effettivo “contenuto”, come ciò che nell’esperienza è effettivamente sciolto da ogni cosa perché ogni cosa concede a se stessa, anche la libertà dell’uomo per il suo incontro con il mondo. Quest’Assoluto è la Presenza, il venire e l’essere già sempre venuta a me - e non da me - della realtà come presenza in ogni cosa presente che mi si fa incontro nell’esperienza: il “vibrare dell’Essere”, che don Giussani chiede alla ragione di avere occhi per vedere e cuore per sentire, come magistralmente rilegge don Carrón. È l’esigenza di una ragione capace di riconoscere il reale in tutta la sua profondità.

Noi non siamo più abituati a guardare «come presenza una foglia presente»...
Esatto! La vediamo come una foglia che possiamo descrivere, calpestare, staccare e magari mettere in un vaso con i suoi fiori, distrattamente per dare bellezza a un ambiente, senza por mente a quanta bellezza riposa nella sua presenza, che magari potevamo anche lasciar vivere su un albero o incontrarla nel dolore del venir meno: «l’incartocciarsi della foglia riarsa» di cui parla una poesia di Montale. Il “senso della presenza”, la “presenzialità”, è qualcosa di sacro nel senso di un “originario” intangibile nel suo darsi, che non è nelle nostre mani, e che pure dà alle nostre mani ogni cosa che possiamo toccare, e ne ricorda il carattere di dono. Questa “presenzialità” della realtà è la “luce” della realtà, lo sfavillio che fa di un raggio di sole un raggio di sole e non il visibile dello spettro elettromagnetico che cade tra il rosso e il violetto. La ragione non deve solo saper vedere le “cose”, ma saper stare in questa “luce”; ed è del tutto possibile che “nella luce del mondo” mi si avanzi Qualcuno che è la Luce della luce del mondo. Se gli credo mentre «lo guardo parlare», ecco lì c’è l’avvenimento cristiano, una “proposta” - mi si pone davanti Qualcuno, ed è quello che aspettavo - che ha la cogenza dell’evidenza di una presenza inesorabile eppure amabile, che mi chiede la coerenza della vita e di ogni momento della vita.

Ha senso, a un uomo che ha visto Auschwitz e la Kolyma, che assiste impassibile ai genocidi africani, che trova lecito tutto ciò che tecnicamente si può fare, compresa la manipolazione dell’uomo stesso, riproporre lo stupore di fronte all’essere come la via di uscita dalla crisi che lo imprigiona e lo incattivisce?
In Se questo è un uomo, Primo Levi ha scritto una frase terribile: «Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza». Eppure è proprio a Levi, alla storia di Lorenzo, l’uomo che nel campo gli consente di sopravvivere, che vorrei ricorrere per rispondere. La storia di Lorenzo, scrive Levi, è «insieme lunga e breve, piana ed enigmatica... Essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso... Io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza... che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva la pena di conservarsi... Lorenzo era un uomo... Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo». Ecco, io risponderei così.

Lei di cosa si stupisce? Quali presenze la meravigliano?
Mi permetta di rispondere con una breve poesia (mattinata, rientro) scritta per mia figlia bambina, alcuni anni fa, per un suo ritorno da scuola: «La bambina, che è mia figlia, / Ed apre una finestra sul sole, / Adesso è a scuola / Io ho tempo / Un attimo, largo / Quasi un pensiero /... / La bambina, che è mia figlia, / Chiama alza la voce».

Don Carrón, accostando il pensiero di Giussani a quello di Benedetto XVI, parla di nuove traduzioni della concezione positivista che sono incapaci di cogliere l’invito all’oltre offerto dall’esperienza del reale e allora, «per togliere il disagio di certe ferite» che comunque la realtà apre, «censurano nella sua umanità l’uomo» che dicono di voler affermare. Ha allora ragione san Paolo: chi non è religioso (non crede in Dio) è inescusabile?
Ciò che è inescusabile nella ragione è la sua mancanza di senso religioso, intendendo con questo l’incapacità della ragione umana che si pretende “ragione”, insieme razionale e ragionevole, di avvertire e “ragionare” i suoi limiti nell’incontro, che è anche confronto, urto e inabissamento con il “mondo”, con “il potere più grande dell’io”, che l’autocelebrazione della soggettività può rimuovere, ma che resta lì, pronto a riemergere dal sale di ogni ferita, da ogni spiraglio che si apre nell’impossibile messa in sicurezza di sé di un’esistenza impaurita, priva dell’affidamento della serenità al suo dato di destino e alle sue domande. Per l’uomo di fede di cui parla Paolo questa serenità ha le sue radici nella speranza dell’uomo cristiano. In questa speranza il cristianesimo invita ogni uomo, anche chi non crede, a porre le sue radici. Qui non c’è niente da scusare, ma solo da lasciare aperta la porta della propria casa.

La causa della confusione della nostra epoca è la sostituzione della ragione con il sentimento e la divisione fra il riconoscimento e l’affettività. È d’accordo? Cosa vuol dire per lei una conoscenza affettiva?
Penso anch’io che la confusione dei nostri tempi è nel diffuso “vivere di pancia” di tante attitudini contemporanee, che persino una politica fondamentalmente disonesta prova a capitalizzare quando si dà la parola d’ordine che bisogna saper parlare “alla pancia della gente”. Più una labilità emozionale che un vero “attaccamento” alla realtà, una ragionata adesione affettiva alle cose. Un sostanziale “lasciarsi andare”, sul piano morale e della volontà di conoscere, il cui prezzo la società paga in termini di speranza. Rispondere a questa emozionalità confusiva della sollecitudine della ragione per il progetto della vita, e della propria vita, richiede quello che don Carrón esplicita come una non divisione tra riconoscimento e affettività nell’esperienza della realtà. Questo è possibile solo se, di quella tonalità affettiva in cui l’esistenza è sempre coinvolta proprio perché “esistenza”, si coltiva e suscita lo stupore “a occhi aperti” per l’esserci per noi della realtà, persone e cose; un pathos della ragione come l’originaria mia attività “del ricevere, del constatare, del riconoscere” il dono della realtà nelle persone e nelle cose, nelle proposte e nei progetti che mi avanzano, di cui parla Giussani.

Per don Giussani la parola più adeguata per esprimere lo stupore e la tenerezza per se stessi è la parola “Tu”: «In questo istante io sono Tu che mi fai». È un’espressione e un’esperienza che la trova in sintonia?
Sì. Qui è in gioco la conoscenza di sé propria all’uomo religioso. «Se un fiotto di sorgente potesse pensare, percepirebbe al fondo del suo fresco fiorire un’origine che non sa cos’è, è altro da sé», scrive don Giussani. Un passaggio bellissimo, che don Carrón commenta così: «Tutto ha la natura del segno, del fiotto. Il fiotto implica la sorgente. Conoscere significa accettare di compiere il percorso che va dal fiotto alla sorgente». Tra gli enti - e ogni ente è un fiotto (del fiume) della realtà; è segno, rimando dell’essere -, l’uomo è quell’ente che può percepire al suo fondo il fresco fiorire dell’origine, e deve anche farlo se vuol rendere, innanzi tutto a sé, pienamente ragione di sé, “conoscersi”. Quando avvertendo questa vibrazione dell’origine l’Io risponde a sé su se stesso, su “chi è”, dovrebbe propriamente dire per don Giussani: «Io sono tu-che-mi-fai». Mentre risponde così, l’uomo religioso, lo metta o no in parola, sta rispondendo a Colui che solo può dire: «Io sono colui che è», «Io sono chi Io sono»; all’Unico che può dire Io da solo, e pure ha voluto un tu a cui dirlo.