SVEGLIATI, EUROPA

I megavertici, il deficit, la crisi... Ma i conti che non tornano fanno venire a galla una domanda: si può tornare a crescere senza un’idea di bene comune? Intervista a Rémi Brague. E ad altre voci autorevoli (da Tracce, febbraio 2012)
Luca Fiore

I megavertici e i tagli di bilancio. Il deficit e la crisi. E poi il rating, i bond, il rischio-default... Ma i conti che non tornano fanno venire a galla una domanda: si può tornare a crescere senza un’idea di bene comune? E dove si può attingere per recuperarla? Lo abbiamo chiesto al filosofo RÉMI BRAGUE. E ad altre voci autorevoli del Vecchio Continente

Parliamoci chiaro: con questo “Primo piano” ci prendiamo un rischio. Perché l’Europa, in fondo, è sempre sembrata un’entità lontana, astratta. E riprendere il tema delle sue radici, di quel progetto comune che l’ha fatta nascere e poi si è smarrito, può dare l’impressione di un déjà vu: lascia il tempo che trova e invita a sfogliare le pagine più in fretta.
Impressione legittima. Ma sbagliata. Per un motivo solo, molto semplice: i fatti. Ovvero, la crisi che sta attraversando il Continente da mesi. E lo smarrimento con cui l’Unione europea la sta affrontando, in una pletora di vertici e controvertici che faticano a trovare un indirizzo vero.
Al momento delle scelte, da Maastricht in poi, si è deciso di percorrere una strada legata solo all’economia: moneta comune e vincoli di numeri. Ha una sua logica. Puoi pensare di mantenere tutto in ordine se i conti sono in ordine. E puoi pensare di ottenerlo con le forbici e il bilancino dei burocrati. Ma ora che quegli stessi numeri languono, spia di una crisi più profonda; ora che la difficoltà di alcuni (dalla Grecia in su) rischia di trascinare a fondo tutti; ora che l’Europa è arrivata fino alle concretezza delle nostre tasche, facendoci capire che dalle scelte fatte a Bruxelles dipende il nostro lavoro; insomma, ora che il problema non è solo la “stabilità”, ma la crescita, non la finanza, ma l’economia reale - non i numeri, ma i fatti, appunto -, torna a galla una domanda: come si fa a crescere senza decidere davvero insieme mosse e strategia? E come si fa a decidere insieme senza avere un progetto comune forte, dei motivi validi per fare sacrifici, per rinunciare a qualcosa dei propri interessi per salvaguardare il bene dell’altro, che è così strettamente legato al mio?
Mentre si inizia - lentamente - a parlare di «crisi di natura esistenziale» (Anthony Giddens, sociologo inglese), ci si accorge che forse quella del bene comune, di radici e ideali da riscoprire, non è la fissazione di nostalgici impegnati in battaglie di retroguardia. O di un Papa che non perde occasione di ricordare all’Europa come sia «sulla base della convinzione sull’esistenza di un Dio creatore che sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana… E queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione» (Benedetto XVI al Bundestag). C’è altro oltre lo spread, insomma. Ma allargare la ragione per tornare a farci i conti, come abbiamo chiesto a cinque osservatori di eccezione di altrettanti Paesi, è l’unico modo per guardare avanti. E affrontare davvero la crisi.


Nell’Unione europea la crisi è strutturale. Dal punto di vista economico, certo. Ma non solo. Ad essere venuto meno è un fondamento culturale comune. Ne è convinto Rémi Brague, uno degli intellettuali europei che più ha riflettuto e scritto su questo tema. Professore di Storia della filosofia medievale alla Sorbona e titolare della cattedra “Romano Guardini” di Scienze religiose a Monaco di Baviera, Brague ha pubblicato già nel 1992 Il futuro dell’Occidente. Un libro decisivo per comprendere da dove nasce la crisi del nostro Continente.

Professor Brague, l’Europa è in crisi. Si tratta solo di una crisi economico-finanziaria o c’è qualcosa di più profondo?
Occorre distinguere almeno due livelli. La crisi finanziaria, quindi economica, è chiaramente visibile, tutti ne parlano. Io non ho nulla da aggiungere per mancanza di competenza. Più in profondità, c’è forse un’altra crisi, di natura intellettuale, morale e spirituale. Essa dura molto più tempo, non fa troppo rumore, ma si manifesta in modo molto concreto. La più plateale è la crisi della famiglia. Sembra che sia sempre più difficile, prima formare una coppia che duri al di là del capriccio del momento, poi voler mettere al mondo dei figli, e infine assicurare loro un ambiente stabile restando uniti. In assenza di questo, come dice Raymond Aron, si ha un «suicidio demografico». E i pochi figli che nascono rischiano di vivere in condizioni psicologiche spaventose, che producono adulti infelici e spesso malati di mente.

Le difficoltà di questi mesi sembrano presentare il conto di una questione che si è deciso di non affrontare: il fondamento culturale su cui poggiava il progetto comune europeo. Non era dunque una questione per soli eruditi...
Un fondamento culturale, esatto. Noi abbiamo conservato dal marxismo la tendenza a relegare ciò che è culturale nella “sovrastruttura”. Si tollera che gli intellettuali ne parlino, è il loro mestiere, ma a condizione che la cosa resti tra di loro. È tempo di sbarazzarsi di questa eredità atavica. Certo, non si tratta di immaginarsi da ingenui che «le idee governano il mondo». Esse si incarnano in gruppi sociali. Ma bisogna prendere sul serio il fatto che gli uomini agiscono perché si rappresentano le cose in un certo modo, perché sanno o credono di sapere come esse siano, perché pensano che certe azioni siano buone e altre cattive, e anche perché pensano che la loro stessa esistenza sia o non sia un bene. Tutto ciò riguarda le idee che passano per essere le più astratte, quella dell’Essere e del Bene. Come sottotitolo del mio ultimo libro ho scelto: «L’infrastruttura metafisica». Nella casa Europa, la cultura sono le fondamenta, non un tetto; ancor meno il fumo che esce dal camino…

Che cosa è venuto meno rispetto ai tempi in cui si riusciva a immaginare un cammino comune anche se la disunità era maggiore, come all’indomani di una guerra mondiale?
Abbiamo perso forse il sentimento del pericolo. I progetti paneuropei sono antichi. Ma dopo due guerre mondiali, la pace in Europa era la necessità più urgente. Bisognava evitare di ricominciare a combattersi. Bisognava inoltre difendersi dal pericolo sovietico. Oggi queste minacce, quella di guerre tra Paesi europei e quella di una presa del potere da parte di un partito leninista, per invasione o per eversione interna, hanno entrambe perso la loro pericolosità. Noi siamo di fronte a pericoli più discreti e sottili, che sono, in ultima analisi, come ho appena accennato, di natura metafisica.

Ciascun Paese sembra ripiegato su se stesso, impegnato a livello internazionale a ribadire i propri interessi. Sembra smarrita la dimensione del bene comune. Che cosa significherebbe oggi questo “bene comune” come reale progetto europeo?
Ripiegati su se stessi sono gli Stati e le nazioni. Le economie rimangono aperte. I beni circolano. Il Bene è un’altra faccenda. I beni sono in quantità limitata e devono essere suddivisi nella maniera più giusta possibile. Il Bene, lui, può essere condiviso senza perdita.

Le istituzioni europee stanno cercando di tornare a un maggior rigore dei conti pubblici. Resta aperto il problema di come rilanciare la crescita. È possibile pensare la crescita senza aver chiaro che cosa sia il “bene comune”?
Secondo certi economisti si potrebbe rilanciare la crescita, rilanciando il consumo. Ma questa crescita ha per scopo ultimo l’aumento del consumo, che diventa dunque, allo stesso tempo, causa ed effetto della crescita. Va molto bene voler nutrire coloro che hanno fame, è un dovere essenziale. Ma se la crescita serve unicamente per creare dei nuovi bisogni artificiali, io mi domando se, davvero, ciò può ancora bastare agli europei.

In Europa esiste anche un problema di fiducia. Nelle istituzioni, ma non solo. Da che cosa dipende la fiducia in un progetto di rilancio della crescita del progetto europeo?
Riscontriamo effettivamente molti esempi d’una crisi di tutto quello per cui il latino usava un solo termine: fides. La fede religiosa, ma anche la fiducia nelle istituzioni, il rispetto della parola data, la fedeltà coniugale... La cosiddetta “secolarizzazione”, il declino della pratica religiosa è solo un aspetto d’una crisi più generale di impegno. Si ha sempre più difficoltà a trovare gente che accetti di impegnarsi, anche se si tratti di un movimento religioso, sindacale, politico...

È stato un errore cercare l’unità dell’Europa partendo dagli aspetti economici? Guardando indietro sembra che la nascita della moneta comune abbia inaugurato la crisi delle ambizioni di unità a più ampio respiro.
Non è un errore, perché le realtà economiche sono tali per cui è più facile mettersi d’accordo: si possono contare. Esse sono anche più facili da gestire: è sufficiente a volte modificare il tasso di sconto, o le tasse sull’importazione, per ottenere degli effetti sensibili. Il resto, ciò che non si lascia ridurre all’economia, è più difficile da influenzare ed è quasi impossibile da misurare. D’altra parte, non si può affatto promuovere un’unione che sia solo un’economia o una politica. Ciò che è culturale è l’ambito della libertà, della creatività. La cultura si può incoraggiare, ma non disciplinare, convogliare. Se lo si fa, si arriva alla propaganda o al kitsch che, nel giro di dieci anni, è fuori moda.

Lei in un’intervista di alcuni anni fa ha detto che «la civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo». Può dirci di più su questo? Che possibilità c’è che si realizzi oggi?
Era già un’idea centrale del mio libro sulla cultura europea, tradotto in italiano sotto il titolo un po’ strano di Il futuro dell’Occidente. Vi avevo riportato come esempio uno dei personaggi-chiave della storia europea, il papa Gregorio Magno, senza il quale il Medioevo non sarebbe stato lo stesso. Egli ha creato cose che durano ancora, come il canto che chiamiamo “gregoriano”, in un momento in cui era convinto che il giorno dopo ci sarebbe stata la fine del mondo e che non sarebbe mai esistita una “civiltà cristiana”. Ho perfino inventato una parola che ha avuto un certo successo in Italia : «cristianista». Designa le persone che non credono in Cristo figlio di Dio, Verbo incarnato, morto per noi e resuscitato, ma che stimano che il cristianesimo abbia avuto dei buoni effetti sulla civiltà e che quindi meriti di essere difeso, anzi incoraggiato. Non critico queste persone, perché quello che dicono mi sembra giusto. Mi piacerebbe semplicemente proporre loro di spingersi più lontano: domandarsi se il cristianesimo, che è stato e resta buono per la civiltà, non sarebbe buono anche per loro, se vi aderissero in maniera personale… E far loro notare che rischiano di prendere per “civiltà cristiana” delle cose che, da un lato, sono di fatto molto recenti e dall’altro non sono sempre ispirate dal cristianesimo. L’atteggiamento autenticamente cristiano, e non semplicemente “cristianista”, è possibile in ogni tempo, e oggi più che mai. È quello che potrebbe non tanto salvare l’uomo (è già stato fatto), ma dare alla civiltà moderna, in Europa e altrove, il fondamento senza il quale si costruirebbe, o si ricostruirebbe, invano.