Monsignor Silvano Tomasi

Questione di ambiguità

Dalla campagna elettorale americana ai dibattiti all’Onu, «i nuovi diritti» sono i punti su cui si divide la politica. E ci si gioca il futuro. Monsignor Silvano Tomasi, osservatore della Santa Sede all'Onu, spiega perché (da Tracce, marzo 2012)
Luca Fiore

«C’è chi sostiene che i diritti dei gay e i diritti umani siano separati e distinti, ma in realtà sono la stessa cosa». Parola di Hillary Clinton. La promozione dei diritti dei gay, in vista delle presidenziali di novembre, è diventata una priorità nell’agenda politica di Barack Obama. Tra le altre cose, la Casa Bianca condizionerà gli aiuti al Terzo mondo al rispetto dei diritti degli omosessuali. Le lobby che contano iniziano a farsi sentire. Come nel caso di Lloyd Blankfein, numero uno di Goldman Sachs, felicemente sposato e padre di tre figli, diventato testimonial di una campagna a favore dei matrimoni gay.
I cosiddetti “temi etici” sono diventati, da alcuni anni, il terreno di aperta battaglia politica. Aborto, eutanasia, matrimoni e adozioni per gli omosessuali. Da Washington a Parigi, da Madrid a Londra, da Roma a Berlino. Abbandonati gli scontri ideologici in salsa economica, oggi la battaglia si combatte sul campo della vita e della famiglia.
La temperatura del dibattito si sta alzando. E travalica i confini degli Stati. E in sede Onu all’ordine del giorno ci sono proprio i diritti dagli omosessuali. A gennaio il Segretario generale Ban Ki-moon, ne ha parlato in un discorso ai Paesi africani. E del tema si occuperà anche il Consiglio dei diritti umani nella sessione di marzo. Tornerà sulla risoluzione intitolata “Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere”. Un documento che ribadisce la preoccupazione per i «numerosi atti di violenza e di discriminazione» verso le persone omosessuali. L’anno scorso, quando fu votata, la risoluzione passò a maggioranza e il Consiglio si spaccò: favorevoli i Paesi europei e americani, contrari quelli arabi e africani. In quell’occasione l’osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, monsignor Silvano Maria Tomasi, sottolineò la necessità di rispettare i diritti di tutti, ma volle mettere in guardia dall’uso di termini giuridici ambigui come “orientamento sessuale” e “identità di genere”. Perché le parole sono importanti. Soprattutto quando si parla di Diritto internazionale.

Monsignor Tomasi, quali sono le perplessità della Santa Sede sul documento votato dal Consiglio dei diritti umani?
Il problema è che non c’è bisogno di nuovi documenti. Per ottenere ciò che si chiede in questa risoluzione è sufficiente che gli Stati rispettino la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. I Governi si attengano a ciò che hanno sottoscritto.

Lei ha affermato che il termine “orientamento sessuale” crea confusione in ambito giuridico. Perché?
Questa espressione non è mai stata definita chiaramente negli strumenti giuridici delle Nazioni Unite. Un provvedimento giuridico diventa difficile da attuare senza una definizione chiara del termine a cui si riferisce.

Dove sta l’ambiguità?
Nell’uso comune per “orientamento” si intendono i sentimenti, le attrazioni che le persone hanno. Tuttavia il Diritto non si occupa dei sentimenti, ma dei comportamenti. Se in un testo giuridico usiamo questo termine rischiamo di confondere i comportamenti, sui quali è giusto poter distinguere, con le inclinazioni, che non devono essere la base per una discriminazione. Il rischio è che confondendo i piani si giustifichi qualunque tipo di azione.

Lo stesso vale per l’espressione “identità di genere”?
La sessualità umana, come ogni attività volontaria, si pone in una dimensione morale. È un’attività che pone la volontà al servizio di una finalità. Non è una “identità”. In altre parole: la sessualità è parte del fare, non dell’essere. Le persone, cioè, possono controllare liberamente i propri comportamenti. Certamente la sessualità ha radici profonde nella personalità. Ma negare la dimensione morale della sessualità porta alla negazione della libertà delle persone in questo ambito. E ciò, ultimamente, mina la dignità delle persone intese come esseri liberi.

Chi propone questa terminologia dice: non sempre l’identità corrisponde alla natura fisica...
Il mio corpo è quello che è. Non è che pensando di essere diverso posso cambiare questo dato. C’è un realismo che è caratteristico della tradizione cristiana: un tavolo è un tavolo, un uomo è un uomo, una donna è una donna. Se questo è chiaro, poi, possiamo discutere e capire il resto per dare una risposta umana e comprensiva.

Ma che conseguenze ha, dal punto di vista giuridico, confondere “orientamento” e “comportamento”?
C’è il rischio che chi si opponga all’equiparazione del matrimonio tradizionale con la convivenza tra partner dello stesso sesso possa essere accusato di discriminare gli omosessuali o violare un diritto dell’uomo. Ad essere minacciata, inoltre, è la sovranità degli Stati.

In che senso?
È necessario fare di tutto affinché gli Stati rispettino la dignità della persona umana, e quindi chiedere che non vi sia violenza e discriminazione. Ma occorre bilanciare questa esigenza con la libertà dei popoli. Bisogna cioè rispettare il principio di sussidiarietà. Gli Stati devono attuare le responsabilità che si sono assunte nei trattati, ma allo stesso tempo non possono essere costretti, da decisioni globali internazionali, ad andare contro quello che credono che sia il bene della persona e il bene della famiglia.

Hillary Clinton ha affermato che diritti dei gay e diritti umani sono la stessa cosa. Condivide questa affermazione?
È un classico esempio di formulazione ambigua che si presta a diverse letture. Se intende che la persona umana ha dei diritti fondamentali che devono essere rispettati indipendentemente dai comportamenti delle persone, allora sono d’accordo: io non posso fare violenza a una persona perché si comporta sessualmente in un modo che io non condivido. Ma dobbiamo tener conto che esistono già gli strumenti del Diritto internazionale ai quali ci si può appellare perché si riferiscono a tutti indistintamente. Questo non vuol dire, però, che noi possiamo creare nuovi diritti basati su emozioni o su sentimenti particolari che proteggano gruppi minoritari.

Qual è la posta in gioco?
Per la Chiesa il matrimonio tra uomo e donna deve essere riconosciuto come contesto naturale, migliore, sia per l’educazione dei figli, sia per il bene della società. C’è una grossa differenza tra il matrimonio e l’unione di due persone dello stesso sesso, proprio dal punto del contributo che il primo dà alla società. Sono due realtà qualitativamente differenti.

Perché negli ultimi anni la temperatura del dibattito si è alzata?
Da una parte le violenze e le discriminazioni degli omosessuali ci sono e sono inaccettabili. Dall’altra c’è chi vuole promuovere una cultura differente. Che si fonda su presupposti antropologici diversi da quelli proposti dalla Chiesa. Oggi si pensa che l’individuo si realizzi quando ha preso cura delle sue esigenze fisiche, emotive o intellettuali. Si concepisce, cioè, un individuo che è ripiegato su se stesso. Mentre il concetto cristiano di persona è il contrario. Io raggiungo la mia soddisfazione quando sono in relazione. La persona è in rapporto con gli altri e con l’altro. Questa apertura, poi, arriva ad essere apertura verso la trascendenza.

Dunque non c’è solo in gioco la difesa della famiglia e del matrimonio...
Siamo di fronte a due modi di guardare al futuro. Se la cultura pubblica internazionale si muove in base a un individualismo chiuso su se stesso, porterà a conseguenze sociali delle quali è giusto essere preoccupati. Negli ultimi anni è cresciuto l’attivismo di chi vuol far percepire normale ciò che non lo è. Il criterio etico è desunto non dalla natura, ma dalle convenzioni sociali condivise dalla maggioranza. Questo indifferentismo etico può portarci a conseguenze disastrose. La questione dell’orientamento sessuale è diventata un simbolo, ma non è in se stessa la questione centrale. In gioco c’è un modo di concepire la vita, di pensare la civiltà e il bene della convivenza sociale.

Nell’agone politico di molti Paesi i cosiddetti “temi etici” hanno preso il posto delle dispute sull’economia. Perché secondo lei?
L’origine io la vedo nella Woodstock philosophy nata negli anni Sessanta. Allora la protesta non si articolò più in funzione della giustizia sociale, ma sulla soddisfazione emotiva del singolo. Il baricentro si spostò da una preoccupazione comunitaria a una strettamente personale. Si iniziò ad affermare una libertà totale, che rendeva l’individuo sempre più padrone di se stesso. Con la fine della Guerra fredda oggi vediamo che le ideologie del Novecento non riescono a esprimere una reale proposta sociale e ci troviamo di fronte a un paradosso. Il pensiero di Woodstock, nato da un rifiuto della dimensione sociale della persona, oggi genera delle istanze a livello sociale.

Qual è il compito della Chiesa in questo dibattito?
La Chiesa deve continuare ad annunciare il Vangelo. Noi dobbiamo riaffermare in modo libero e disinteressato qual è la natura umana. Dobbiamo ridire che l’uomo non si realizza soltanto nella soddisfazione dei suoi desideri biologici ed emotivi. Occorre farlo vedere con la nostra vita. Ci troviamo in un momento in cui la testimonianza cristiana si trova quasi da capo. Al punto di partenza.