Marcelo Cesena

Marcelo Cesena. La mia nota dominante

La passione per la musica, l’incontro con il movimento e poi la “fuga”. Storia del pianista brasiliano Marcelo Cesena: una corsa lunga vent’anni, per tornare nello stesso posto davanti alle stesse facce (da Tracce, aprile 2013)
Paolo Perego

Emily balla abbracciata a suo padre, Michel. Con quel vestito che lui aveva sempre sognato di vederle addosso quando avesse compiuto sedici anni. Ora la vede, finalmente, così. Balla, Emily. Non sulle note di una musica. Ma dentro una musica. Quella di Marcelo Cesena, 43 anni, pianista e compositore brasiliano trapiantato a Los Angeles. Lei, Emily, è morta. Investita da un uomo che voleva suicidarsi. Tredici anni, due sorelle. Sulle pagine di un diario si appuntava tutte le cose che avrebbe voluto fare. Nelle ultime, aveva scritto che desiderava solo che la sua vita fosse piena. Ma Marcelo questo l’ha scoperto dopo.
Il prima è un giorno qualunque di due anni fa. Sta preparando una lezione sulla bellezza, per un gruppo di studenti. «La musica, l’arte. Avrei fatto una bella cosa, teorica». Un amico lo chiama e, tra le chiacchiere, gli racconta un fatto successo quel giorno. Di Emily, appunto. «Ho riattaccato il telefono. Non sapevo chi fosse. Quante ne succedono, in fondo, ogni giorno? Ma non mi usciva dalla testa. Quella tragedia. La sua famiglia. E io a pensare a cosa dire il giorno dopo. Dove stava la bellezza lì?».
Non si può fare l’indomani, no. Marcelo chiama, disdice l’appuntamento. A mezzanotte si mette al piano, con quel pensiero per la testa. “E” di Emily. “E” come il mi, per gli anglosassoni. E poi un re, “D”, come death, la morte... «Immaginavo che il padre fosse lì, e io gli raccontavo di sua figlia». Al mattino quella musica era finita. Ed era bella: «Come poteva esserlo? Nasceva da una cosa terribile». A quella lezione Marcelo, poi, ci è andato: «La bellezza è bellezza solo se lo è anche per quella famiglia, adesso. Se no vuol dire che non è per tutti, che esiste solo quando tutto va bene», ha detto a quei ragazzi.
Nascono così le sue musiche. Dalla realtà che accade, che ferisce: «Che si impone così tanto che non puoi fare a meno di guardare. In maniera misteriosa a volte, come con Emily. E non è solo il fatto che “ti fa male”. Ti entra dentro. Come se ti fecondasse. E ti costringesse ad andarci a fondo».
C’è tutta la sua vita in questo andare a fondo. E una scena dopo l’altra Marcelo te la racconta dall’inizio. Da quando era bambino a San Paolo. Famiglia cattolica, ceto medio. Il padre di origini italiane, uomo tutto d’un pezzo, e la madre, grande donna di fede. «Odiavo la musica. In casa ascoltavamo la lirica. Dalle finestre spesso sentivo suonare i vicini». Un giorno il figlio dell’amica della madre, «un bambinetto grassottello», si siede al pianoforte di casa Cesena, poco più che un complemento di arredo fino a lì, per mostrare i suoi progressi alla tastiera: «Suonò un motivetto ridicolo, e per di più in modo terribile. Ma mi colpì come lo faceva. C’era tutto lui in quel gesto».

Andata e ritorno. Dieci anni dopo. Marcelo arriva all’Università di San Paolo, facoltà di Educazione musicale, che è un pianista affermato. La bacheca di casa è già piena di riconoscimenti e premi. È il 1988. «Incontrai lì il movimento. Furono anni intensi, un’amicizia che mai avevo vissuto prima. Ma dopo qualche anno, me ne andai». Non capiva, dice. «Quella radicalità, la questione dell’Incarnazione oggi, un avvenimento presente... Io avevo le mie idee, volevo realizzare io tutto. Non riuscivo a capire e, arrabbiato, me ne sono andato». Non bastava nulla. Non la musica, non quell’amicizia. Cosa voleva Dio da lui?
Parte per Medjugorje. «Avevo 22 anni. Un’esperienza intensa, straordinaria. Per mesi ho vissuto a casa di una veggente, andavo alle apparizioni. Volevo vedere anche io. Volevo tutto». Lì, finisce anche a fare il volontario per una comunità di recupero per tossicodipendenti: «Per tre anni. A pulire i bagni, lavare e servire quei ragazzi». Si affaccia anche il desiderio di diventare sacerdote. «Avevo già iniziato un cammino in quella direzione...». Eppure, un giorno, davanti all’Eucaristia accade qualcosa. Come un lampo. «Ero arrivato lì con l’ansia di capire cosa volesse Dio da me. E mi sono accorto che mi ero fatto fuori. Il mio cuore, quello che desideravo... Dov’ero? Non me lo aveva chiesto Lui tutto questo. Avevo deciso io...». E anche quello, al cuore, non bastava.
Torna in Brasile, per qualche tempo, e poi parte per gli Stati Uniti. Riprende a suonare, si iscrive a una scuola di musica a Los Angeles e poi all’Università dell’Arizona. Il successo inizia ad arrivare. Compone musica per film, fa concerti. Vince premi: «Mi buttavo in tutto, e riuscivo. Ne ho combinate di ogni, e sempre andandoci fino in fondo. Nel bene e nel male». Solo che i conti, nel tempo, non tornano: «Guardavo tutto quello che avevo. Non bastava ancora. E guardavo indietro, a tutto quello che avevo vissuto. E vedevo la vita come in cocci sparsi sul pavimento». Un mosaico senza senso, dice oggi. E Mosaico è proprio il titolo del suo ultimo album.
Cosa poteva tenere insieme tutto? Mancava la nota dominante. Quella di Chopin nel Preludio numero 15, La goccia: «Amo Chopin, da sempre. Perché quello che racconta è la vita di tutti. Prendiamo La goccia. Due accordi “discordi”, che stridono tra loro. Eppure una nota, solo quella, il la bemolle, li può tenere insieme. E li lega in tutto il pezzo, inesorabilmente, anche quando ciascuno dei due tenta di sganciarsi o prevalere. Ecco. Quella nota era la risposta al grido del mio cuore, al mio dualismo tra la fede che desideravo e la vita».
Il primo gennaio del 2011 Marcelo comincia una novena. «Per giorni ho ripetuto continuamente quella preghiera che ricordavo dai tempi del Clu: “Veni Sancte Spiritus”. Mi era rimasta dentro...». Il 9 gennaio arriva la telefonata di un vecchio amico brasiliano, riagganciato da pochi mesi: «Non ci vedevamo da dieci anni, e lui, ai tempi, non sapeva neppure cosa fosse il movimento. Casualmente sarei stato a San Paolo la settimana dopo, e gli ho proposto di vedersi per una pizza». La rimpatriata è un susseguirsi di racconti, di storie. L’amico gli parla degli studi, dell’università, che ha incontrato della gente, un movimento cattolico... «Sarà mica Cl? Stai attento a quelli. Chi hai conosciuto?». E quello gli snocciola i nomi, uno dopo l’altro: «Erano i miei vecchi amici del Clu, quelli da cui ero scappato. E non solo. Ce n’erano anche altri che conoscevo e che allora non erano del movimento. Sembrava che fossero finiti tutti lì». L’amico lo trascina a un pranzo con quella gente: «Non volevo, ma ho accettato. Sarei andato pronto a rinfacciargli tutto, mi sarei preparato per bene». A tavola c’è Alexandre, vecchio compagno di università, oggi medico, dei Memores Domini. C’è Cleuza, e c’è don Julián de la Morena, responsabile di Cl in Brasile: «Ho iniziato a vomitargli tutto addosso. Che avevo fatto delle esperienze grandiose. Che grazie a me era stato costruito un orfanotrofio a San Paolo. E loro? Cosa avevano fatto? Io avevo realizzato il mio sogno di fare il pianista ai massimi livelli, quando ai tempi qualcuno di loro remava contro... Eppure, più “sassi” tiravo, più loro mi sorprendevano». Alexandre lo ascolta: «Tutto quello che hai fatto è bello. Ma per me, che tu oggi ci sia, qui, è più bello. È più grande. Quello che sei, ciò che sei diventato, è più grande di quello che hai fatto». «Loro volevano sapere tutto. Erano colpiti. Stavano guardando la mia vita, capendola, in un modo più profondo di me che l’avevo vissuta». Cleuza, in silenzio per tutto il pranzo, prende la parola: «Ho solo una cosa da dirti. Ho una notizia per te, e forse non ti piacerà. Nel movimento c’è una porta. Quella d’entrata. Non c’è uscita. Sei fregato. Perché il movimento non è “le cose che facciamo insieme”, la Scuola di comunità, i gesti. È qualcosa che è successo, a te e a me. Si chiama Gesù di Nazaret. Questo non lo puoi cambiare. Puoi resistere. È successo. E non lo puoi cancellare». Marcelo è ribaltato: «Ero davanti a un’evidenza. Il cuore mi scoppiava, potevo starci o andarmene ancora. Ho chiesto ad Alexandre, mentre mi riaccompagnava, di andare a casa sua. E abbiamo parlato per quattro ore».

Con il fiatone alla Scuola. I giorni dopo a San Paolo, sono un’esplosione: «Volevo stare con loro, li cercavo». Poi il ritorno negli?Stati Uniti. Marcelo scrive a Cleuza: «Tu hai sempre aiutato la gente che non ha una casa. Io abito in un bel posto, a Hollywood, ho una casa bellissima, un sogno. Ma nel mio cuore sono anche io senzatetto. Quando ho incontrato voi ho trovato nel vostro cuore la mia casa. Ne ho bisogno di quella casa, aiutami». Nessuna indicazione su cosa fare come risposta. Solo «vogliamo stare con te». «Ma erano lontani, e volevo continuare a vivere quel tenore di amicizia. Ho iniziato a frequentare la Scuola di comunità a Los Angeles». E alla sua prima coi ciellini californiani è stato uno show. Marcelo arriva un’ora prima, non vuole scendere dalla macchina. Sa già quello che diranno, lo ha già visto. La sfida è «amare la verità più dell’idea che ho io di verità». Basta una telefonata ad Alexandre: «Vado?». Ma il posto è sbagliato, di un paio di isolati. Marcelo corre, arriva. Spalanca la porta col fiatone, la Scuola è già iniziata: «È qui Cl?». «In vent’anni, non ho mai visto nessuno correre per venire qui», risponde Guido, che tiene l’assemblea.
Una corsa di vent’anni. «Per tornare dove era cominciato tutto. Non solo nello stesso posto. Ma con le stesse facce. Che pazienza che ha avuto Cristo con me. Tutto per prendermi. E cambiarmi la vita».
Tutta, dalle amicizie al lavoro. È cambiato il modo di fare la musica, l’intensità. «Quello che scrivo. Il mio cuore è cambiato. Prima, suonare era quasi una distrazione. Una fuga. Dimenticavo i problemi. Ora è un guardare ancora più a fondo tutto». La bellezza, il dolore, la gioia. Perfino la crisi o un fatto come quello di Emily». E c’è tutto quello che ne è nato dopo, come il rapporto con la famiglia della ragazza, persone conosciute il giorno stesso della sentenza di assoluzione dell’investitore. Con quel padre che gli dice: «Non dire nulla, è un Altro che ci ha fatti incontrare».

Regalo di Dio. «Nella vita ho sempre desiderato cose grandi, sempre il massimo. Cercavo lo straordinario. Ora lo straordinario è diventato l’ordinario. E anche le piccole cose ti chiamano per andarci al fondo, per capire tutta la loro consistenza. Tutta la realtà è lo straordinario. E tu ci vivi dentro», dice ancora. In quella cena a San Paolo, semplice, aveva provato la stessa intensità delle cose grandi e intense che aveva vissuto. Quella grandiosità che aveva sempre cercato: «La mia musica è diventata espressione di questo. Sia quando compongo, anche prendendo spunto da cose semplici come il matrimonio di un amico, sia quando suono quella di altri. Chopin, per esempio. Quella musica è mia». Dentro ci sta tutto, la tecnica, il talento. Ci si potrebbe fermare a questo, volendo. Come prima. E invece ora è un paragone continuo con la vita: «Non lasci indietro nulla di te. Al contrario. È l’esperienza di un di più». Come accade nelle orchestre, seguendo il direttore su volumi, ritmo, quello che ne esce è l’armonia: «Che è più dell’equilibrio. Dentro c’è una pienezza. Una bellezza». E lo capisce ora cos’è quella bellezza che va in giro raccontando nei suoi concerti: «È un regalo di Dio, perché noi possiamo anche solo provare per un istante quello che prova lui a guardare la cosa più grande che abbia creato: il nostro cuore».