A casa di Pedro

Si vedono solo per pochi secondi. Sono i volti della gente comune nel filmato per i 60 anni del movimento "La strada bella". Siamo andati a scoprire chi sono (da Tracce, novembre 2014)
Davide Perillo

Il cuore di casa Dias da Silva sta lì, dietro le sbarre di un lettino d’ospedale. Lo abbiamo appena intravisto, nel video. Pochi secondi, incastonati tra scene di vita normalissima: un papà in macchina con due bimbi piccoli, la tavola da apparecchiare, la foto del matrimonio... E la voce della mamma che a un certo punto parla di lui, Pedro. Della «possibilità di sperimentare una dipendenza totale da Dio» e di «lasciare che sia Lui a costruire la nostra famiglia».
Eccola, la famiglia di Pedro. Gonçalo, 36 anni, lavora in banca. Inês, 33, è psicologa. I fratellini più grandi si chiamano Gonçalo e Francisco. Vivono a Lisbona. E ti raccontano di questa grandezza infinita che abita in casa loro, di una «preferenza di Dio» - dicono proprio così - che ha il volto di un bimbo di appena due anni, ma una storia molto più lunga.
L’incontro con la fede per Inês arriva al liceo. Ma il seme era già prima, in casa. «Avevo una sorella, Leonor, che è morta a sette anni, di una malattia strana: non cresceva bene, non riusciva a mangiare. Quando io ne avevo dieci, è nata Costanza: aveva gli stessi problemi». Stavolta la diagnosi è arrivata. Una malattia genetica rarissima, neanche 200 casi nel mondo: rallenta la crescita e lo sviluppo, affloscia i muscoli, indebolisce i polmoni. E spesso uccide da piccoli, dopo anni di vai e vieni dall’ospedale.
«A 15-16 anni a scuola si discuteva parecchio di aborto». C’era in ballo un referendum, in Portogallo. «Molti dicevano che i bambini con malattie gravi era meglio non farli nascere. Io in fondo ero d’accordo». Poi, però, tornava a casa. Da Costanza. «E mi accorgevo che le mie erano idee, mentre lei c’era. Esserci non è la stessa cosa che non esserci, e la felicità è una questione più grande di quello che avevo in mente io. Nei libri di don Giussani che avevo iniziato a leggere si diceva che bisogna partire dall’esperienza. Mi sono resa conto che quello che pensavo io erano cose teoriche: l’esperienza mi diceva altro. Mia sorella è stata importante per la mia conversione. Ho iniziato a capire il senso di certe cose grazie a lei».

Costanza è morta nel 2003. In casa di Inês erano già successe tante cose. Anzitutto, la conferma che la malattia era ereditaria. E che anche lei era portatrice sana. «Avevo 21 anni. Non è stato facile, saperlo. Ero fidanzata, pensavo al matrimonio. Il futuro era diventato di colpo un’ombra». Anche lì, Costanza è stata decisiva. «Guardandola, vedevo quello che dice Giussani: essere dipendenti è la nostra condizione, in tutto. Lei mi aveva insegnato ad abbracciarla».
Era successo anche altro, intanto. Quella storia si era chiusa, ma era arrivato Gonçalo. Si conoscevano dai tempi del Clu: lei studiava Psicologia, lui Economia. «Ci siamo incontrati in un pellegrinaggio a Fatima». Non è stato semplice neanche dire a lui della malattia: c’è voluto un anno per trovare il coraggio. «La sua reazione è stata molto bella», dice Inês: «Mi ha chiesto bene cosa significasse. Ma mi ha detto subito che non sarebbe stato un problema». È lui a spiegare perché: «Ho pensato che anzitutto volevo bene a lei. E che non ci poteva essere nessun ostacolo al nostro rapporto. Poi, certo, è stato un colpo. Pensavo di sposarmi, di avere dei figli. E qui c’era una probabilità molto alta di avere bambini malati. Ma conoscevo i suoi genitori. Vedevo come stavano con Costanza: era una vita dura, piena di problemi, ma erano felici. Come Inês. E questo mi dava una certezza: poteva anche succedere, ma sarebbe stato qualcosa per il nostro bene».
Inês e Gonçalo si sono sposati l’8 settembre 2007, Natività della Vergine. Lei resta incinta subito. Paura? «I timori li hai. Cominci a domandarti come sarà tuo figlio. Vorresti controllare tutto. Per evitare la tentazione, non abbiamo chiesto nemmeno di che sesso fosse. Volevamo una posizione di apertura totale. La cosa che aiutava più di tutto era andare a messa e fare Scuola di comunità. E pregare».
Gonçalo junior nasce a maggio 2008, sanissimo. Francisco lo segue 18 mesi dopo, sano anche lui. «Nei mesi di attesa ho pregato sempre che fossero bambini normali», racconta Gonçalo: «Avevo paura che non saremmo stati capaci di tirare su un bimbo come Pedro, di aiutarlo. Ma oggi, per la grandezza che stiamo vivendo, posso dire che è lui ad aiutare noi».
Pedro è arrivato il 23 ottobre di due anni fa. Inês capisce al volo: «La notte stessa ho visto che non si muoveva. Che non mangiava. Era diverso dalle altre volte». Resta spiazzata. «All’inizio lo guardavo con un’estraneità, quasi come se non fosse nostro figlio. Mi sembra impossibile dirlo ora, ma è la verità... Poi, dopo un po’, siamo andati a casa. E lì abbiamo ricominciato ad essere una famiglia». Con i primi segnali di come sarebbe cambiata la vita. «Una notte non respirava. Pneumonia. Lo abbiamo portato in ospedale. È stato in terapia intensiva per due settimane, ventilato. Era tra la vita e la morte». I medici parlavano di staccare il respiratore: «Era una continua discussione se valeva la pena o no che questo bambino vivesse».
«Anche per me i primi giorni sono stati strani», racconta Gonçalo: «Mi sembrava lontano, non sapevo come volergli bene. E insieme avevo la difficoltà di non farlo capire a mia moglie. Poi, quando è finito in ospedale, il cuore è cambiato di colpo. L’ho visto soffrire. Mi sono reso conto che, malato o no, era mio figlio. E gli volevo bene come agli altri. Mi sono detto: vale la pena che lui ci sia, come vale la pena per me. Ne sono uscito con una certezza più grande che dipendiamo da un Altro, che non ci facciamo da noi. È una scoperta fatta attraverso Pedro, ma che riguarda tutto».

Una grandezza semplice, di quelle che scorrono nell’album di famiglia. Pedro con la corona da principe, in braccio alla mamma, sdraiato sull’erba in una giornata di sole. O intubato, in uno dei tanti giorni passati all’Hospital Santa Maria. «È difficile che siamo in casa tutti insieme», racconta il papà: «E i fratellini soffrono quando non c’è. Ma è impressionante come lui sta rendendo tutto più pieno anche per loro». Come? «Tutto quello che non va, per loro diventa una domanda a Gesù», dice Inês: «Chiedono che Pedro possa sedersi, possa camminare, possa mangiare. Non è “una cosa che manca” a lui. È una cosa che chiedono loro». Cosa vuol dire avere cura di lui? «Io ho lasciato il posto in un’agenzia di pubblicità e adesso sto a casa», spiega Inês: «Faccio un lavoro che assomiglia a quello di mio padre. Lui è agronomo. Be’, io sto imparando che cosa significa che il tuo lavoro è aver cura di quello che hai davanti: seguirlo, aspettare, aver pazienza, darti il tempo di scoprire come puoi fare meglio... E vederlo crescere. Lui cresce lentamente. E io voglio scoprire come mostrargli la bellezza della vita».

Chiedi come sono cambiati loro, e le risposte si intrecciano. Inês: «Davanti ai figli, mi scopro a contemplarli. Sono grata per quello che c’è. Per quello che fanno, che imparano. Non avrei mai pensato, per dire, che stare in casa con i bambini sarebbe stato così attraente». Gonçalo: «Sono più aperto a tutto. C’è una tensione maggiore per la vita. Ha un senso. E io posso ammirare quello che ci succede giorno per giorno grazie a Pedro, perché se lui non ci fosse io non sarei così».
Ma in che cosa il movimento vi aiuta a vivere? «Io oggi non saprei vivere senza la Chiesa, e la Chiesa per me è il movimento», dice lui, semplicemente: «Non è una cosa filosofica: è molto concreta. Ci aiuta a non essere disperati in una situazione che di per sé lo sarebbe». «Io qui ho sempre trovato una parola che mi corrisponde e mi aiuta a rispondere alle circostanze», aggiunge lei: «È come se la vita, un passo alla volta, confermasse quello che avevo intuito da ragazza».
Il prossimo passo è un’altra attesa: Inês è di nuovo incinta. Il bimbo (o la bimba) nascerà a marzo. «Timore? C’è, sempre», dice lei ridendo: «Ma è pieno della memoria di quello che ci succede. E di una felicità imprevista».