Beppe Mantovani

Lo schianto e la stalla

Si vedono solo per pochi secondi. Sono i volti della gente comune nel filmato per i 60 anni del movimento "La strada bella". Siamo andati a scoprire chi sono (da Tracce, novembre 2014)
Alessandra Stoppa

Il video inizia con lui, che non è ancora giorno. Si sentono solo i rumori della stalla. Beppe cita a memoria una frase di don Giussani, scandendola con la mano e gli occhi sgranati, punteggiatura compresa: «Il problema della fede è questo. Due punti. Tutto ciò di cui è fatto il mondo, un giorno si è fatto uno di noi. E chi lo incontra dovrebbe andare in giro per tutto il mondo a raccontarlo a tutti. Ma può andare in giro per tutto il mondo a raccontarlo a tutti, anche stando là dove Cristo l’ha messo». Stivali e bastone, spinge le mucche verso la sala della mungitura. «Quando ho letto quelle parole mi sono sentito salvato».
Pensava che la missione fosse una cosa per gli addetti ai lavori. «Invece è affidata a me qui dove sono, facendo bene quello che faccio, anche da solo. Vedendo pochissima gente e stando con gli animali».
Beppe Mantovani va in stalla ogni mattina prima dell’alba e vive dove è nato, a Stagno Lombardo, un paesino nel Cremonese con meno di duemila anime e seimila animali. Ci si arriva per una strada che finisce davanti al fiume. «Di qui non ci passi, ci vieni solo se proprio ci devi venire». E lui ha la faccia limpida di chi è stato raggiunto, da un grande perdono.
Beppe aveva un’impresa edile insieme a tre amici, che due anni fa è fallita con gravi conseguenze. «Quando mi è stato chiesto se questo aveva messo in crisi la mia fede, lì ho capito. È il contrario. Io sono fallito per mancanza di fede». I numeri lo dicevano da tempo che bisognava chiudere. «Ma noi continuavamo: pur di portare avanti la nostra idea, abbiamo fatto di tutto. Questa è mancanza di fede nella realtà. Prevale l’idea e dici: ma sì, poi vedremo... Così abbiamo fatto un casino». Lo schianto è arrivato e ha stampato in lui che la fede è vivere la realtà, saperla giudicare, e anche domandare e farsi aiutare. «L’atteggiamento invece è che succede qualcosa ed è sempre colpa di qualcun altro». E finisce che per questo può saltare tutto. Uno dei suoi soci ha perso la famiglia.

«A me hanno salvato tre cose». Numero 1. La sera in cui sua moglie ha saputo del fallimento, gli ha detto: «Io non so se riesco ad andare avanti a fidarmi di te». «Hai capito? Non mi ha detto: non mi fido di te. Mi ha detto: non so se riesco... È un giudizio che è un abbraccio. Una possibilità. Come a dirmi: lo vuoi fare l’uomo?». Numero 2. In quei giorni, esce la lettera di don Julián Carrón su Repubblica del 1° maggio 2012. «Inizio a leggerla per capire la questione politica. Ma era indirizzata a me: cosa abbiamo fatto della grazia che abbiamo ricevuto?». Una grazia che era sempre stata lì e che gli riappare davanti come dal buio: la mattina si sveglia e trova le camicie stirate, la sera torna e c’è la cena. Alza la testa dal giornale e quello che legge ce l’ha accanto: «Carrón chiedeva scusa, senza aver fatto nulla e senza cacciare nessuno. Mia moglie, lo stesso. È l’abbraccio di amore che Dio ha avuto per me». Sarebbe un altro capitolo quello di Francesca, che ha fatto quel che ha fatto perché è stata fedele alla sua storia, non a quella del marito. «Ha assunto la sua responsabilità, il suo matrimonio, prendendo con sé tutto il mio niente».
Non si dimentica la cosa numero 3. «Non ho mai lasciato la Scuola di comunità». Beppe avrà partecipato a centinaia di incontri in quasi trent’anni di movimento, «ma in questa vicenda ho iniziato a viverli». Quando aveva 16 anni è arrivato al paesino un nuovo prete. Dicevano che era «ciellino» e la gente pensava fosse di un’altra religione. «Anch’io sono corso a vederlo e ho trovato un uomo che rideva e piangeva allo stesso tempo, accompagnato dai ragazzi della parrocchia che lasciava. E poi parlava di Gesù come non avevo mai sentito».
Era l’86, da allora non ha più mollato la strada. Sta imparando a seguirla anche grazie ai suoi quattro figli. «Perché fanno i figli. E mi indicano quello che devo essere io con il Papa e con Carrón: un figlio. I miei ragazzi mi hanno sentito raccontare quello che è successo, anche pubblicamente, e ora sanno che c’è qualcosa di più grande del proprio limite. E che c’è qualcosa di più grande del loro padre. È la cosa che più desidero per loro».
C’è un signore che, fra gli altri, ha pagato il prezzo del loro fallimento. Gli avevano costruito e venduto la casa, ma i soldi dell’ultimo pagamento li hanno usati per coprire altri buchi, invece di chiudere il mutuo e fare il rogito. Così lui abita in una casa che dopo due anni non è ancora sua. «Una roba da spararci. La prima volta che l’ho incontrato mi ha insultato per venti minuti. Io, zitto. Aveva solo ragione. Quando me ne stavo andando, si è alzato: “Devo chiederti scusa per come ti ho trattato”. “Guardi, no. Sono io che mi scuso...”. Mi ha abbracciato». Da allora ogni mese invita Beppe a cena, lo tratta come un re, dall’antipasto al dolce. «Due cose mi dice sempre: “Tu sei il figlio che ho sempre desiderato. E promettimi che, se mai questa storia si risolvesse, tu non mi abbandoni. Altrimenti mi auguro che non finisca mai”». Il giudice, all’udienza del fallimento, non credeva ai suoi occhi. Le due controparti si abbracciavano. Beppe non aveva l’avvocato: «Lei non può difendersi senza avvocato!». Ma lui non aveva nulla da difendere.

«Se io non fossi andato davanti alla realtà, non vedrei le cose come ora», dice: «Non diverse da prima, ma per quelle che sono». Perso il lavoro, ha cercato di tornare nell’allevamento e al primo stipendio si è sentito come l’operaio dell’ultima ora: «Le parabole non sono favole». Di quel compenso ha dato una parte a un ex socio che non aveva ancora trovato lavoro (ma questo ce lo confida un amico, non lui). Con il nuovo capo si sentono più che altro al telefono. Beppe gli racconta cosa vede, i problemi, le decisioni. «Un giorno mi ha interrotto: “Ti devo ringraziare. La tua curiosità, le tue domande, e persino i tuoi sbagli, mi hanno fatto riappassionare alla mia stalla. Volevo vendere gli animali. Vedo te e dico che questa stalla deve crescere». Il lavoro è una condizione «super privilegiata», continua Beppe: «È dove viene fuori quello che ami. Nelle scelte che fai, nel fatto di non guardare l’orario, di metterci il cuore. Ti accorgi di te. È impagabile».
Per i 60 anni di CL ne avrebbe voluti fare cento di video, per gratitudine, per dire a tutti quello che prima non sapeva: «La cosa più cara che ho è quello che mi è dato da vivere».