Il film su Hannah Arendt

«Voglio un pensiero, non teorie»

«Un film mi capita. Mi arriva. E intuisco un senso per me». Margarethe Von Trotta, autrice delle pellicole su Rosa Luxemburg e Ildegarda di Bingen, racconta l’avventura di confrontarsi con Hannah Arendt (da Tracce, dicembre 2014)
Monica Scholz

«È pronta a vedere la realtà in faccia». È questo il coraggio che l’ha affascinata e che dice di invidiare. Margarethe Von Trotta, classe 1942, una dei più grandi registi europei, lo ha visto in Hannah Arendt e ne ha seguito le tracce fino a dedicarle il suo ultimo film, uscito in Germania nel 2012. Arrivato nelle sale italiane solo a gennaio di quest’anno, grazie ad una piccola distribuzione indipendente, la Ripley’s, Hannah Arendt racconta i quattro mesi del processo Eichmann, le 114 udienze che fecero dire alla filosofa ebrea, inviata a Gerusalemme per il New Yorker: «Tutto questo contraddice le nostre teorie del male». Si riferiva all’idea di «male radicale» che lei stessa aveva introdotto con Le origini del totalitarismo, ma che arrivò a negare: «Solo il bene è radicale», scriverà in una lettera del 1963.
Il film della Von Trotta è il ritratto del pensiero della Arendt, un pensiero che rifiuta di diventare teoria. «Mai ritualizzato». E che tanto assomiglia a quello che s’intravede nel suo modo di lavorare. «Quando giro un film non parto da un messaggio e poi cerco un personaggio», ha detto una volta: «Un film mi capita, un film mi arriva e intuisco un senso per me».

Nel caso di Hannah Arendt, che cosa l’ha affascinata nella proposta di girarlo? Come è iniziata questa avventura?
Mi ero già imbattuta nella Arendt girando il film Rosenstraße. Avevo fatto tutto uno studio per capire la cultura ebraica e la storia del nazismo nel nostro Paese. E così avevo trovato il suo libro su Eichmann e il processo a Gerusalemme. Mi aveva subito colpito come lei fosse indipendente nel suo giudizio: questo mi è molto piaciuto. Così come mi era piaciuta Rosa Luxemburg, anche lei sempre indipendente nel suo pensiero. Mi piacciono le donne che pensano con la loro testa. Ma non ho certo pensato di fare un film su una filosofa, non mi è mai venuto in mente. È stato un amico che, dopo Rosenstraße mi ha detto: «Sai che tu saresti veramente perfetta per fare un film su Hannah Arendt?». Io gli ho risposto: «Ti sbagli, non è possibile. Dimmi come si può mostrare in un film una teoria o dei pensieri, una che pensa; non si può mostrare una persona sempre seduta a una scrivania e vederla pensare. No, non è per me». Poi, pian piano, sapendo che il libro mi era piaciuto, ho avuto il coraggio di entrare in questa strada senza sapere se sarei potuta uscire da qualche parte.

Margarethe Von Trotta

E cos’è successo?
Ne ho parlato con la mia co-sceneggiatrice di Rosenstraße, Pamela Katz, che ai tempi avevo scelto perché pensavo sapesse tutto sui riti e le tradizioni ebraiche (anche se in fondo abbiamo scoperto che io sapevo già molto più di lei, avendo letto tanto. Anzi, Pam dice sempre di «andare da Margarethe», per sapere veramente qualcosa sugli ebrei). Lei fu subito entusiasta di collaborare con me e, abitando a New York, avrebbe potuto fare delle ricerche sulla Arendt. Questo era il background. Mi sentivo come in un sandwich, schiacciata per un anno e mezzo tra due che spingevano perché io facessi assolutamente questo film. Abbiamo iniziato a leggere, siamo andati avanti per anni, abbiamo letto quasi tutto. Ho cercato l’ultimo assistente della Arendt e qualcuno che potesse raccontarmi qualcosa su di lei. Ho letto tutta la corrispondenza allora disponibile. In Germania era uscita quella con Heidegger, con Jaspers, che è forse la corrispondenza più importante. Poi quella con Mary McCarthy, con Kurt Blumenfeld, con Bloch. E con suo marito Heinrich Blücher. Così, lentamente, ho sentito e capito che personaggio era.

Che cos’ha scoperto?
All’inizio, mi era sembrata una persona molto arrogante: avevo ascoltato quella famosa intervista che aveva fatto con Günter Gauss, l’avevo solo ascoltata da un cd. E ho detto: no, non mi piace questa donna, è troppo arrogante, non posso, non posso entrare in contatto con lei. Poi l’ho rivista alla televisione, e ho visto che era una donna con molto charme, di colpo tutta un’altra persona. Molti uomini si erano innamorati di lei, anche quando non era più così bella come quando era giovane. Dunque, doveva avere qualcosa di attraente, non solo la sua testa. Allora, pian piano mi sono avvicinata, anche pensando a quale epoca, su quale momento della sua vita avrei potuto concentrarmi. Perché era chiaro che non potevamo descrivere la sua vita dall’inizio alla fine. Sarebbe stato troppo, con troppi salti, una maratona troppo accelerata e non avremmo potuto approfondire nessun momento. È una filosofa, è una persona che pensa, dovevamo in qualche modo approfondire questo suo pensiero. Solo alla fine abbiamo trovato questa soluzione dei quattro mesi del processo Eichmann. Lì, quando abbiamo deciso di concentrarci solo su questo, mi sono sentita protetta. Mi sono sentita pronta ad attaccare questo lavoro difficilissimo.

E lei ha toccato il punto più originale, per noi che abbiamo visto il film, scegliendo il tema della «banalità del male». È qualcosa che ci sconvolge, sentire questa espressione. E facciamo fatica a capirla, a vederla, perché «banalità del male» vuol dire responsabilità, giudizio, discernimento tra il bene e il male, e questa è un’attività difficile.
Eichmann, infatti, non sapeva farlo. La Arendt dice che Eichmann non era stupido, ma non ha pensato, non ha visto, non ha saputo distinguere tra il male e il bene.

Una volta lei ha parlato di una differenza molto interessante ed esemplare. Ha detto che l’unico antidoto a questa omologazione che c’è nel mondo è: pensare. E ha aggiunto: ci sono tre tipi di uomini. Quelli come Eichmann, un uomo mediocre che non pensa, ma esegue. Poi un Heidegger che pensa, eppure cade anche lui nell’ideologia. E poi c’è una Hannah Arendt che pensa e resta libera...
Che pensa, e questo lo dice nel suo discorso finale, perché con il pensare l’uomo può proteggersi, può non cadere nella trappola.

Ma, ora che lei ha conosciuto più da vicino, che ha respirato questa sensibilità di una Arendt, che aveva studiato sant’Agostino e l’importanza dell’unità di corpo e spirito nella conoscenza, se dovesse descrivere quel suo pensare, cosa direbbe?
Che il suo è un pensiero che non è mai basato su una teoria. Dunque non è mai ritualizzato, non è mai attaccato a quello che ha detto il giorno prima. Lei guarda il mondo sempre con occhi nuovi e del momento; e questa è la differenza tra lei e Heidegger.

Se guardo tre donne dei suoi film: Rosa Luxemburg, Ildegarda di Bingen e Hannah Arendt, vedo un percorso: dall’ideologia all’io. È forse stato anche il suo percorso?
Non sono stata veramente un’ideologa. In fondo, neppure Rosa Luxemburg. Dal di fuori era vista come una rivoluzionaria forte e crudele, è stata chiamata “bloody Rosa”. Ma, quando la si vede da vicino, così come Hannah Arendt, ci si accorge che era un essere profondamente sensibile, legata alla natura, alla pace. Il fatto che lei, che amava la pace, abbia voluto essere una rivoluzionaria, era un po’ una contraddizione. Ma queste contraddizioni mi attirano. E quando si leggono anche le lettere della Luxemburg, si può vedere quanto fosse umana, interessata all’altro, incoraggiante per i suoi amici, come lei avesse un tono così caldo, molto più caldo della Arendt. E, infatti, lei veniva dall’Est, mentre Hannah Arendt era profondamente ashkenazita, un’ebrea tedesca di una famiglia colta. Certo, quando ho fatto Rosa Luxemburg ero ancora di sinistra e a quei tempi non mi sono avvicinata alla Arendt, perché non era molto ben vista da noi di sinistra. Lei aveva scritto Le origini del totalitarismo in cui aveva fatto un paragone tra comunismo e nazionalsocialismo. Per noi, il nazionalsocialismo era un totalitarismo, mentre il comunismo era ancora una cosa intoccabile.

Poi che tipo di riflessione c’è stata, come è cambiato il suo sguardo sulla realtà?
Ero radicalmente di sinistra. Non che oggi io veda le cose in modo diverso, ma allora eravamo come i sessantottini che avevano poca conoscenza del passato. Ho capito che quella strada era completamente sbagliata e lo si vede nel film che ho fatto sulla Raf (il gruppo terroristico tedesco, ndr.). Allora in una certa maniera ha ragione. Non è più un pensiero da un’ideologia, ma un pensiero umano. Hannah Arendt è una vera umanista, è pronta a vedere la vera realtà in faccia.

Lei ha detto che vorrebbe avere questo sguardo sulla realtà.
Sì, lei aveva uno sguardo verso il passato e verso il futuro che era molto più lucido del mio.

Sempre queste tre donne, Rosa Luxemburg, Ildegarda di Bingen e la Arendt, sono tre donne affascinanti, con molti contrasti. Sono donne piene di energia e piene di fragilità. Cosa la affascina, anche dal punto di vista del loro “femminile”?
Non è solo il “femminile”, ma il loro essere complesse, per certi versi contraddittorie. Mi interessano, appunto, i contrasti e le contraddizioni. Perché anche nella mia vita, o nel mio carattere, o nella mia anima, mi sento spesso “due”. Due estremi che ho l’impressione di non poter riunire. Per questo nei miei primi film ho usato sempre più donne. Ho girato un film su tre sorelle che erano in fondo una sola persona. Ma ho dovuto avere tre personaggi per mostrare tutti questi caratteri di una sola persona.
Il film termina con questa grande frase della Arendt: «Solo il bene è radicale».
Questa è la strada che lei ha fatto attraverso la sua osservazione di Eichmann. Nel suo libro sul totalitarismo aveva parlato del male radicale, e anche nel film ad un certo punto parla del male radicale. È un pensiero coraggioso: senza quella crudeltà, senza l’esperienza del totalitarismo non avremmo avuto la possibilità di vedere e conoscere il male radicale. Lei è quasi contenta di aver avuto questa occasione di capire cosa sia. Solo dopo aver osservato Eichmann, ha scritto il libro su questa forma di male o di non-male, ha capito che il male non può essere radicale, solo il bene lo è. E questo lo dice in una lettera a Gershom Scholem che l’aveva accusata di non amare il suo popolo. Questa era diventata, secondo me, la strada verso una luce; fino alla fine della sua vita lei si è occupata dell’idea del male, ha cercato di capirlo.

Il film ha avuto un grande successo: perché, secondo lei?
Io credo che viviamo in un momento in cui abbiamo l’impressione di non avere più la possibilità di poter pensare veramente con la nostra testa. Che tutti siamo così condizionati dalle crisi, dalle mode, dalla politica, dalla pubblicità, dalla televisione. Non abbiamo più uno spazio libero per dirci chi siamo e cosa abbiamo come dono. Con Hannah Arendt, chi ha visto il film, ha trovato una persona che voleva capire e, forse, adesso ha, a propria volta, il desiderio di utilizzare di più la propria testa. Perché pensare per me è un dono della natura, che noi dobbiamo usare, e questo la gente lo capisce. Ha voglia di cambiare, ma non sa ancora come e dove andare. Non ci sono più le norme della religione, ma forse Dio sarebbe contento se noi usassimo il dono che ci ha dato.