Lo psicanalista Massimo Recalcati

Massimo Recalcati. La mancanza è vita

Non è una «mutilazione», ma il «nutrimento del desiderio». Lo psicoanalista Massimo Recalcati si confronta con il tema della settimana riminese. E ci spiega perché ha a che fare con l’amore di una madre... (da Tracce, giugno 2015)
Giuseppe Frangi

«L'angoscia contemporanea non sorge dalla mancanza ma da un troppo pieno, dalla sensazione di essere imprigionati in un sistema che ci avvolge e ci comprime e sembra non permettere - nemmeno nella fantasia - un altro mondo, un altro orizzonte...». A Massimo Recalcati, psicoanalista, firma di Repubblica, indagatore della condizione dell’uomo contemporaneo piace ribaltare i luoghi comuni: la “mancanza” non è un “meno” ma è un “più” potenziale. Perché è proprio la consapevolezza di una mancanza che mette in movimento il desiderio e con il desiderio tutto l’umano... «Lacan affermava che la sola vera colpa dell’uomo è quella di venire meno al proprio desiderio», spiega: «La clinica psicoanalitica conferma che l’infelicità è spesso legata al fatto che la nostra vita non è coerente con ciò che desideriamo».
Recalcati ha appena pubblicato un libro, che è già best-seller, in cui per la prima volta si avventura nell’indagine sulla figura della madre (Le mani della madre, Feltrinelli). Un libro che tocca un tema affascinante, oggi ostaggio di troppi schematismi ideologici di ogni tipo. Nel libro, il tema della “mancanza” assume un posto centrale nella riflessione intorno all’esperienza della maternità. «La madre è attraversata dalla mancanza, non la nasconde, non la occulta, non la rimuove, ma la dona», scrive Recalcati. «Donare la propria mancanza - la propria insufficienza e la propria vulnerabilità - ha lo stesso valore inestimabile dell’offrire le proprie mani e il proprio volto. Si tratta per Lacan della definizione più alta dell’amore: amare è dare all’Altro quello che non si ha». La mancanza è il tema del prossimo Meeting di Rimini, a cui Recalcati, pur desiderandolo, non potrà partecipare a causa di impegni pregressi.

Come titolo del Meeting c’è un verso di Mario Luzi: «Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?». In che senso, secondo lei, la mancanza può essere un qualcosa che colma il cuore dell’uomo?
La mancanza non è afflizione, pena, mutilazione della vita. Questa è una rappresentazione solo nichilistica. Non è quello che mi interessa. La psicoanalisi mette in luce che la mancanza è generativa, perché essa costituisce il nutrimento vitale del nostro desiderio, che non è solo rimpianto nostalgico per una pienezza irraggiungibile, ma una potenza, una forza, un’energia trasformativa che rende la mancanza condizione di un’apertura verso l’Altro ricca di vita e di mondo, capace di colmare, come scrive il poeta, il cuore dell’uomo.

L’esperienza della “mancanza” è esperienza difficile da far accettare oggi. C’è sempre una pretesa opposta al possesso. Come si può far breccia? Come prenderla sul serio?
Se, ad esempio, si fa riferimento all’esperienza della maternità, la maternità sufficientemente buona non è una esperienza di possesso o di appropriazione, non è un rafforzamento dell’Io. Al contrario. Diventare madre è aprirsi radicalmente alla venuta dell’Altro. In questo senso la madre giusta - per riferirmi all’episodio biblico delle due madri del giudizio di re Salomone - è quella che sa rinunciare al possesso del figlio per poter salvaguardare la sua vita. Non è forse questo uno dei doni più grandi del materno? Perdere il figlio che si è generato? Perdere il proprio figlio, lasciarlo andare, godere della sua libertà.

Che relazione c’è tra l’esperienza della mancanza e il desiderio?
Il desiderio manifesta la mancanza che abita l’essere umano, né è la sua espressione più pura. Come accade agli innamorati che si incontrano dopo un certo periodo di lontananza: non si chiede all’amato cosa ci ha portato, non lo si investe con una domanda rivolta all’avere. La domanda d’amore è sempre la stessa: ti sono mancato? La mia assenza è stata per te una presenza?

Lei ha scritto: «È la trascendenza del desiderio della madre che rende possibile la trascendenza del desiderio del figlio». Cos’è questa trascendenza del desiderio?
Il desiderio della madre non è desiderio di possedere o di avere un figlio. È piuttosto una apertura verso il figlio. La maternità non è un’esperienza di centramento, ma di decentramento. Se volessimo spingere le cose verso un paradosso, potremmo dire che il desiderio della madre non vuole avere il figlio, ma lo vuole perdere. È la gioia che una madre prova nel vedere il proprio frutto imparare a camminare o a parlare, nel vederlo entrare nel mondo. Quel figlio che una madre ha custodito nel suo ventre e che ha nutrito con il suo sangue non è mai proprio, non è mai figlio suo perché questo figlio è sempre un’altra vita, vita altra, vita non sua, vita sconosciuta. In questo senso la trascendenza del desiderio della madre, la sua apertura verso la vita altra del figlio, fonda la trascendenza del desiderio del figlio, fonda la sua vita come vita libera, come vita non sua.
 
A proposito di desiderio, nel suo libro lei parla di «un desiderio che non sia anonimo». Che cos’è il desiderio anonimo?
La cura materna è una cura che sa fare posto al particolare, alla vita particolare del figlio. Non è mai una cura valida per tutti, anonima appunto. È sempre cura dell’uno per uno, del figlio come figlio unico. Nel rimarcare questo aspetto essenziale della cura materna si deve collocare la cifra politica del mio libro: nel tempo dominato dal discorso del capitalista domina l’incuria assoluta, l’assenza totale di cura del particolare, la generalizzazione anonima, la spersonalizzazione, la disumanizzazione dei legami sociali. A me interessano sempre i punti di resistenza e di antagonismo a questa deriva nichilistica del nostro tempo. Avevo insistito recentemente sull’amore come fattore di opposizione al discorso del capitalista. Ma anche la lezione più alta della maternità, che è quella di saper particolarizzare le cure, si manifesta come punto di resistenza al conformismo dilagante dell’incuria propria del nostro tempo.

Aveva scritto in un articolo su Repubblica: «Cosa si eredita se non si eredita un Regno, se non si è figli di Re? Quello che conta nell’eredità è la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. È il modo con il quale i nostri padri hanno saputo vivere su questa terra provando a dare un senso alla loro esistenza». Essere erede vuol quindi dire “uomo libero”?
Essere figli, come mette in luce la parola di Gesù, non è una condizione tra le altre, ma definisce la vita umana nel suo tratto più essenziale. Siamo tutti figli. E come figli abbiamo tutti anche il compito di diventare eredi. L’umanizzazione della vita concerne l’atto o, meglio, il movimento dell’ereditare. Cosa abbiamo fatto di quello che abbiamo ricevuto dall’Altro? Non c’è vita umana senza questo movimento di ripresa soggettiva di quello che l’Altro da cui proveniamo ha fatto di noi stessi. La libertà non indica l’assenza di condizionamenti, non è mai assoluta, ma definisce precisamente questo movimento di ripresa singolare del destino che l’Altro ha tracciato sulla nuca delle nostre vite.