Fausto Bertinotti al Meeting di Rimini

«Io & Zaccheo»

«Non basta salire sul sicomoro: occorre uno sguardo che riaccenda tutto. Anche in politica...». Fausto Bertinotti racconta di sé, del Meeting, del potere. E di «un cammino da fare insieme» (da Tracce, ottobre 2015)
Paolo Perego

«Come un viandante. Non credente, ma curioso». Ci è arrivato così al suo primo Meeting di Rimini. Invitato a confrontarsi sul tema della “mancanza” in uno degli incontri della settimana romagnola, non si è risparmiato nel girare tra stand e mostre. Ex Pci, leader della Cgil negli anni caldi dei sindacati e, poi, di Rifondazione Comunista tra gli scranni del Parlamento, è stato Presidente della Camera tra il 2006 e il 2008. Un anno fa era stato invitato a leggere e a presentare la biografia di don Giussani a Caorle, nel Veneziano. «Rimini è stata il frutto di un cammino fatto di una serie di incontri. E di alcuni rapporti con piccole comunità di CL, che hanno generato anche amicizie, se posso dirlo». Così ha parlato a una platea tutta tesa ad ascoltarlo. Di mancanza, appunto. Ma anche di fede, di ricerca e di speranze politiche, attraversando la sua storia e citando san Paolo, Gramsci, Benjamin, lungo un percorso descritto anche nel suo ultimo libro, Sempre daccapo (Marcianum Press).

Presidente, cosa ha visto a Rimini?
Ho incontrato un popolo. Magari mi sbaglio, ma è una realtà molto più viva e articolata di quello che descrivono certi stereotipi. Donne, uomini, giovani che partecipano non solo a incontri e dibattiti, ma alla costruzione, formale e informale, della comunità. E poi, c’è il tema del rapporto tra questo popolo e la fede. La presenza di Gesù, anche attraverso la testimonianza di don Giussani. Dico “anche”, perché la presenza del Cristo sovrasta qualunque altra dimensione, e questa comunità di fede si manifesta agli occhi di un osservatore critico con molta intensità.

Per esempio?
Ho visto la mostra sul metropolita Antonij. Un’emozione. C’era come un mistero che si respirava in tutta l’esposizione. E mentre mi raccontavano la sua vita, mi chiedevo: «Ma chi è davvero?». Quel volto così bello, con quello sguardo che lascia trasparire un’esistenza tranquilla. E più lo guardi più intuisci che nasconde un’esperienza umana straordinaria: l’ordinario che fa intravedere lo straordinario.

Sguardo, guardare... Sono parole che ripete spesso. Anche al Meeting le ha approfondite, quando ha citato il brano evangelico di Zaccheo. Perché le sono care?
Perché hanno a che fare con la conoscenza vera. Occorre uno sguardo. Non basta la tecnica per guadagnare la conoscenza. Il sicomoro è altissimo e salirci è un’impresa. Ci si mette nelle condizioni di conoscere, ma non più di quello. La conoscenza accade quando due sguardi si incontrano. Come per Zaccheo, quando Gesù lo vede e lui vede Gesù. È lì, in quella scintilla, che si accende tutto.

Vale anche in politica?
Gramsci spiegava ad un gruppo di intellettuali che solo con i loro occhi, solo con i loro saperi non sarebbero mai stati in grado di conoscere davvero: serviva una “connessione sentimentale” con il popolo. È una questione che unisce tutte le organizzazioni che hanno fondato la loro cultura sul rapporto con l’altro. Nel caso di Zaccheo si tratta di rapporto tra due persone, una speciale per di più. Ma non cambia il fulcro della questione. La traduzione secolare e politica dell’incontro lo colloca dentro alla dimensione del popolo. Siamo dentro una ricerca, con percorsi assai diversi a seconda della dimensione della ricerca stessa, che ha in comune l’idea dell’incontro, del non poter fare da soli. È il contrario del potere...

Cioè? Cos’è il potere?
Il potere è ciò che tende a impedire questa connessione, questo incontro. Il potere separa. Vero, in politica è difficile fare a meno del potere. La storia politica, più o meno recente, mostra che è un abbaglio l’idea che il potere possa essere neutrale, ovvero che possa essere plasmato da chi vi accede. Lenin, per dire, pensava a un movimento operaio che, guadagnando il potere, avrebbe portato a una società liberata dalla proprietà privata e dallo sfruttamento. Non è andata così. Il potere trasforma i suoi conquistatori. Dal Palazzo d’Inverno a Palazzo Chigi, la lezione è la stessa. E in Europa non è diverso. Per questo oggi la critica al potere è vitale. Tutte le esperienze di movimento, anche quelle che si costituiscono in istituzioni, hanno il dovere di porsi la questione di come il rapporto con il potere può corrompere la loro natura.

Lei ha detto che la politica è morta, e che è tale «perché ha smesso di essere protagonista della nuova società» scegliendo «una linea “adattativa” e di governo». C’entra con la corruzione di cui parlava?
Le fedi politiche, anche quelle religiosamente ispirate, e le ideologie hanno abdicato alla loro autonomia, si sono smarrite affascinate dal potere. Certo, conosco bene la differenza tra una fede nel trascendente e una secolare. Ma parlo di fedi perché c’è contiguità tra i percorsi che aspirano al perseguimento del compimento dell’umanità. Che per me si chiama socialismo, per voi no. Ma in ogni caso il rapporto tra fede e politica è tutt’altro che accessorio. Se esiste una meta come detta prima, è possibile un dialogo per costruire, nel riconoscimento di valori condivisi non perché legati ad aspetti religiosi o ideologici, ma perché afferiscono innanzitutto all’umano. Via da qui, la politica diventa mero esercizio del potere e amministrazione.

A cosa porta tutto questo?
Io vedo due terreni, meglio, due parti dello stesso terreno seminate diversamente. In una prevale questa desertificazione della politica, lontana dal rifiutare e cambiare l’ordine delle cose esistenti. Nell’altra crescono fili d’erba che possono essere interpretati come la speranza. Non come formula consolatoria, ma piuttosto, come diceva Ernst Bloch, qualcosa da imparare. E che si deve costruire. È un investimento che ha una visione sul futuro, un intraprendere che si prepara a un annuncio, a un evento. Walter Benjamin parlava di una stanza buia in cui, a un tratto, si apre una porticina in cui passa la luce. Tu devi metterti nella condizione di trovare questa porticina. Andando a tentoni magari, ma cercando. Credo che oggi si possa già vedere questa speranza in tante realtà sociali, così come nelle espressioni di società diverse da quella in cui viviamo.

Di cosa sta parlando?
Penso ai moti di rivolta, quelli in forma pacifica: la piazza. Dimensione completamente nuova nella politica moderna. Occupy Wall Street, gli indignados, la Catalogna... Fino a questa incredibile forza del popolo di migranti che attraversa i confini dell’Ungheria e presenta sulla scena quelli che fino al giorno prima erano gli invisibili. L’arrivo dei “barbari”. Dell’altro, quello che sta fuori dal recinto per ragioni culturali, di fede, economiche, sociali. Frutto di una società, di un mondo che, come dice papa Francesco, produce scarto ed esclusione. In questo scarto io leggo una speranza. Ma c’è un secondo elemento oltre a questo: la cooperazione. Ovvero, il ritorno alla costruzione di una società fuori dalle dimensioni del potere organizzato. Come alla fine dell’Ottocento.

Un ritorno al passato?
Un parallelo discutibile, certamente. Ma allora si presentò sulla scena un soggetto nuovo: la classe operaia. E i proletari erano gli esclusi. Non mancarono tentativi di inclusione, anche violenti. Ma ci fu un grande movimento dal basso, tra iniziative e associazioni. In Francia, in Belgio... In Italia, con le forme di mutuo soccorso e la grande rete, sia nel movimento operaio che in quello cattolico, di opere di solidarietà sociale.

E che fine hanno fatto quelle esperienze?
Forse sono state sconfitte, ma non vinte. E hanno lasciato una traccia quanto mai attuale.

Vede già segni di questa speranza?
I casi che ho citato. Ma anche la Grecia, le Primavere arabe. Non sono colpi di coda degli esclusi, ma promesse di futuro. E guardiamo l’Italia: è piena di opere che raccontano di solidarietà, sostegno dal basso, accoglienza. Per lo più legate al mondo cattolico. Oppure, prendiamo i migranti. Giornali e opinione pubblica parlano di problemi, di difficoltà ad accogliere, di un’impossibile gestione della vicenda. Poi, però, vai dove avvengono gli sbarchi e vedi l’accoglienza della gente...

È l’uscire dai recinti di cui parlava?
Il recinto è ciò che imprigiona. Papa Francesco l’ha chiamato “globalizzazione dell’indifferenza”. Che non riguarda solo le persone, ma anche il sistema che ne è “creatore”. E io non smetto di provare a scavalcare questo recinto.

E cosa sta scoprendo?
Mi interessa ancora la politica, ma mi incuriosisce di più quello che ne sta al di fuori. Dialogare con i ragazzi, per esempio. Incontrare realtà che non conosco. Trovo quell’ascolto reciproco negato in politica. È il contrario dell’indifferenza. C’è, nella società civile, un fiorire di esperienze che fertilizzano terreni che altrimenti sarebbero occupati dal deserto. Le vedo, le incontro. E le conosco. Solo che manca una rete che le unisca. Ce ne sono moltissime, ma spesso in solitudine perché locali e piccole. Oppure perché tanto consolidate da non avere più curiosità verso l’altro.

Come per Zaccheo, non basta vedere. Occorre incontrare.
Sì. Se no, non ti accorgi che tendono a quella stessa meta verso cui cammini tu. Non possono farsi compagne. In questo abbiamo perso molto...

Ma quale dovrebbe essere la meta della politica?
La liberazione da ogni forma di sfruttamento e alienazione. Qualcosa di profondamente umano. Il compimento dell’umanità. Un concetto vicino a quello dell’articolo 3 della Costituzione: «Rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana». E questo poteva essere stato scritto da chiunque avesse ben chiara la meta, cattolico o socialista, democratico o liberale. Ma che tipo di società consente questo? Io, oggi, so solo che questa in cui viviamo non lo permette.

E quindi?
E quindi, un’altra certezza: non possiamo fermarci. Occorre un dialogo per affrontare quella ricerca. Questo è il punto cruciale. Dialogo ed esperienze. Pratica sociale e confronto politico-culturale. Confronto di fedi e di ragioni. Intraprendere un cammino vuol dire mettersi e mettere insieme. Costruire l’incontro, incrociare gli sguardi. E nessuno deve avere l’ambizione di fare diventare l’altro come sé. Senza neppure dimenticare che un cammino insieme cambia tutti i viandanti. Non c’è viandante che ne uscirà come vi era entrato.

Lei si sente cambiato?
Sì. Sempre cambiato e sempre uguale. Cioè, sempre con lo stesso orizzonte di ricerca e sempre cambiato nel compierla. Lo augurerei a chiunque. Ai giovani, ai miei nipoti. Con la formula famosa di un rabbino: quando uno si affaccia su un terreno sconosciuto, arrivato sul ciglio, può guardare le tracce di chi è passato prima di lui. Se però non ci fossero sentieri, allora quello è il momento di intraprendere un nuovo cammino.

Di costruire qualcosa, insomma...
Si, la strada si trova facendola. È la realtà.