Jean Vanier

La vita felice di Jean

È morto a 90 anni Jean Vanier, fondatore della Comunità dell'Arca. Nel 2016 Tracce lo aveva intervistato. Così raccontava come dall'incontro con due malati mentali è nata una storia «che non mi sarei mai aspettato»
Maurizio Vitali

Jean Vanier è uno dei più grandi testimoni della carità cristiana della nostra epoca. Nasce a Ginevra da famiglia canadese nel 1928. Il padre, eroico generale della Prima Guerra mondiale, era divenuto ambasciatore e infine governatore generale del Canada. Jean, ancora giovanissimo, è ufficiale della Royal Navy britannica e poi della Marina canadese; poi professore di Filosofia a Parigi e Toronto; infine lascia ogni carriera, crea una piccola comunità con due malati mentali gravi, e va a vivere con loro in un villaggetto della Piccardia, Nord-Est della Francia, Trosly-Breuil. È il 1964, ed è nata L’Arca, che ora è una rete di 140 comunità sparse nei cinque Continenti, in cui gente reietta dalla società convive a tempo pieno con altra gente che la accoglie. Jean ha dato vita anche a Fede e Luce, movimento con gli stessi ideali dell’Arca vissuti in incontri, ritiri spirituali, vacanze insieme, che oggi conta 1.500 gruppi nel mondo.
A quasi 88 anni, il vecchio leone della carità appare ancora alto e imponente come una quercia, solo un po’ incurvato dagli anni, mite e affettuoso - si direbbe misericordioso - come un buon padre.
«Comunione e Liberazione!», è il suo abbraccio mentre apre il cancelletto della stessa sua casetta di mezzo secolo fa. Vanier ha girato il mondo, incontrato Papi, santi, Capi di Stato, ricevuto onorificenze prestigiose. Ma vive ancora in quelle due stanzette, una cucina e uno studiolo, che ricordano tanto dove viveva don Giussani in via Martinengo, periferia sud-est di Milano. «Le père Giussani! Che anno era?». «Il 1998». Vanier porta indelebile il ricordo di quella testimonianza sul mendicante protagonista della storia davanti al Papa. «Era già malato, vero?». Sarà che quella figura, il mendicante, “legge” la sua vita e la sua opera.
Per parlare della Misericordia «devo per forza raccontare la mia esperienza», dice: «Un’esperienza assolutamente sorprendente, che mai mi sarei aspettato». Tutto accadde nel 1963, quando il giovane professore ebbe l’occasione di visitare un “istituto” dove erano rinchiusi 80 malati mentali. Insomma, un manicomio. «Un luogo spaventoso, pieno di violenza; dove quelle persone non erano trattati da uomini». Vorrebbe poter buttare all’aria quella situazione vergognosa, cambiare tutto; ma il mare del bisogno è così sconfinato che lo lascia smarrito. Ed ecco il fatto sorprendente: l’incontro con due di quei poveretti, Raphaël e Philippe, gli fa intuire una strada. Decide di condividere la vita con loro. «Ecco: la Misericordia è un incontro».

Il dove e il come. Jean non aveva mai saputo acquietarsi in attività che pur amava e svolgeva con profitto. «Io volevo seguire Gesù ma non avevo ancora trovato la mia strada. Avevo come la sensazione che ci fosse qualcosa d’altro che Gesù voleva da me. Ma non conoscevo il dove e il come». E come ha capito che quell’incontro era la Misericordia, era quello che cercava? «Perché ci siamo trovati felici. Loro due felici per essere stati liberati dal manicomio e dalla disumanità, per essersi scoperti persone con un valore; io felice perché il Signore mi aveva mostrato la strada, la mia vocazione».
Quella di Jean è una rivoluzione prodotta da una fede che abbraccia l’umano. All’epoca, ovunque nel mondo, i malati di mente venivano messi in manicomio: «Reietti e isolati perché considerati una vergogna per i genitori e un disturbo per la società, e perché il loro handicap era visto come una punizione di Dio», spiega Vanier. Perché proprio a Trosly? Lì viveva un prete amico di Jean ed esisteva un ambulatorio messo su da bravi psichiatri. «Potevo avere sostegno spirituale e sostegno sanitario».
La vita straordinaria e felice di Jean è l’umile vita di condivisione dei piccoli gesti quotidiani, come fare la spesa, tenere in ordine la casa, cucinare, impostare dei lavori, fare della formazione, tenere buoni rapporti con i vicini. E, naturalmente, seguire le cure. «Ho scoperto la verità delle parole di Gesù riportate in Luca 14: quando date un banchetto, non invitate i familiari, i vicini ricchi, gli amici ma i poveri, gli storpi, gli infermi e i ciechi e sarete felici. La gioia è stato il primo sintomo, il primo documentarsi della Misericordia». Arrivarono anche persone molto difficili, violente: non c’è stato nulla di facile nella storia dell’Arca. «Ma la Misericordia, che ha accompagnato tutta la mia vita, ha permesso che l’opera andasse avanti».
Vanier pensa a papa Francesco, per il quale ha un’ammirazione grandissima, al suo ripetuto invito ad andare verso le periferie dell’esistenza, stare a contatto con i poveri, «incontrarli e imparare da loro». E lei, Jean, che cosa ha imparato? «Che gli uomini poveri, umili, emarginati o deviati, hanno un cuore sano e aperto; il loro grande bisogno è sapere che c’è qualcuno che li ama. Solo questo può contrastare lo scoraggiamento, il senso di non avere valore, l’odio contro Dio e contro se stessi».
Incontro, parola che ritorna sempre nel racconto e nella riflessione di Vanier. È la parola che discrimina il far qualcosa per gli altri dalla condivisione. Spiega con un episodio recentissimo. «Ieri sera il direttore di una nostra comunità in Australia mi ha raccontato che, attraversando un parco, si è imbattuto in un uomo che stava morendo per overdose. Si è fermato per soccorrerlo. E l’ha riconosciuto perché tempo addietro aveva avuto a che fare con la Comunità dell’Arca. L’ha preso tra le braccia; e quello gli ha mormorato: “Tu hai sempre voluto cambiarmi, non hai mai voluto incontrarmi”».
Che cosa, nel mondo di oggi, si oppone maggiormente alla Misericordia? Vanier non ha dubbi: la separazione e la paura; i muri di divisione che gli uomini erigono. Quello che imprigiona Betlemme; i reticolati per respingere i profughi e i disperati; ma anche i muri di estraneità umana e sociale. Come ha visto a Santiago del Cile: «La strada dall’aeroporto alla città scorre tra bidonville miserrime tutte poste alla sinistra e quartieri di gente ben presidiati e protetti dalla polizia, dall’altra parte; e nessuno che attraversi mai quella strada». Di nuovo il pensiero a papa Francesco: «La separazione è ciò che preoccupa di più il Santo Padre. Tant’è che il suo Pontificato, come già quello di Giovanni Paolo II, è una grande opera di incontro e di unità, di costruzione di ponti».
Alla domanda se non gli pare che la Chiesa di oggi abbia bisogno di riscoprire la Misericordia, il vecchio patriarca risponde sospirando un «eh, non è facile». E racconta del priore di un convento, che è stato sempre educato ad essere in ogni cosa il primo: il migliore negli scout, il primo della classe, il monaco dell’ordine religioso che si ritiene il migliore. Tutto perfettamente riuscito e perfettamente clericale: «Ma il comandamento di Gesù è altra cosa. Dice: siate misericordiosi».

La dottrina e l’errore. Nella Chiesa di oggi c’è chi oppone la Misericordia alla Verità, e ritiene che essere “compassionevoli” - per esempio con i gay o i divorziati, o con chiunque abbia sbagliato - sia una negazione della retta dottrina e una connivenza con l’errore. «Costoro pretendono di essere perfetti perché proclamano una dottrina perfetta», commenta Vanier: «Ma alla prostituta, al ladro, al malato di mente, all’omosessuale, hanno mai parlato? Lo hanno mai accostato, ascoltato? Lo so, non sempre si trova la soluzione ai problemi. Ma non si può partire che dall’incontro tra me e te, tra un io e un tu».
Vanier non mette affatto in discussione la retta dottrina. In materia sessuale, per esempio, ha scritto un libro il cui titolo non lascia dubbi: Maschio e femmina li creò; men che meno sottovaluta la necessità della legge. «La Misericordia non toglie nulla della legge». E racconta di una ragazza, accolta all’Arca, proprio a Trosly, con handicap mentale grave, un braccio paralizzato e con comportamenti sempre molto violenti. «Lei è così perché per tutta la vita è stata rifiutata ed emarginata: dai genitori, dalla scuola, dai compagni. Avrebbe potuto diventare depressa, invece che violenta, dicono gli psichiatri, e non avrebbe disturbato. Invece è violenta, e la sua violenza è un’invocazione a qualcuno che le voglia bene incondizionatamente. A che le giova che uno l’accosti proclamando la dottrina e la legge, senza incontrarla realmente?».

La gente “normale”. La Misericordia può avere, dunque, una forma di incidenza sociale? Può essere addirittura un criterio della politica o della diplomazia internazionale? «Certo. Ci sono nel mondo Comunità dell’Arca in cui convivono israeliani e palestinesi, cristiani e musulmani. E sono un segno e un principio di cambiamento grande. E che dire dell’azione del Papa e della Santa Sede? Che spettacolo l’incontro di Francesco con il patriarca Kirill! Lo so, non sono mancate le critiche, ma quello è un frutto della Misericordia che cambia la storia».
Jean, lei parla sempre dei più sfortunati, bisognosi della Misericordia. E gli altri, quelli che stanno bene? «Ne hanno bisogno ancora di più, perché sono diventati indifferenti e cinici. Ho conosciuto un banchiere che era così. Uomo di successo in tutti i campi. Finché sua figlia ha manifestato una grave malattia mentale, e allora lui si è sentito del tutto perso. Solo quando ha incontrato altri con problemi simili al suo, e ha trovato in loro un appoggio amichevole, ha iniziato a scoprire la Misericordia, cioè la verità di se stesso». Ma poi chi l’ha detto che la gente normale sia felice? Quanti sono feriti dentro e fanno mostra di stare bene... «Nascondono la ferita. Invece bisogna accoglierla, la ferita; è il dono che ci aiuta a riconoscerci come siamo, poveri e bisognosi di tutto. E Dio ascolta il grido del povero».