La ferita di don Milani

La libertà. L’incontro. E il «punto infiammato» che lo legava ai ragazzi. Eraldo Affinati, scrittore e insegnante, racconta il suo viaggio nella vita del priore di Barbiana (da Tracce, aprile 2016)
Giuseppe Frangi

Questo non è un libro “su” don Milani. Piuttosto è un libro “con” don Milani. Eraldo Affinati, scrittore, insegnante, da tempo aveva nel cuore l’idea di affrontare questa figura apicale per chiunque passi buona parte della sua vita avendo davanti a sé lo sguardo dei ragazzi. Ma come si fa a scrivere un libro “con” piuttosto che “su” un uomo morto 49 anni fa? Affinati ha pensato che l’unica soluzione fosse quella di andar per luoghi: quindi toccar fisicamente con mano i posti che avevano scandito la vita del grande prete-educatore di Barbiana, anche prima del sacerdozio. A quei luoghi ne ha poi aggiunti altri, spesso lontani, dove ha potuto incrociarsi con esperienze di insegnanti e scuole in cui lo spunto di don Milani continua in nuove storie e nuove vite. Come, ad esempio, le storie che Affinati stesso quotidianamente incrocia nella sua esperienza di insegnante di italiano per ragazzi stranieri, alla scuola Penny Wirton di Roma, da lui stesso diretta. Così è nato il libro che non a caso ha un titolo che guarda in avanti: L’uomo del futuro (Mondadori, pp. 177 - 18 euro).
«Non volevo fare un libro-trofeo», spiega Affinati: «Volevo scrivere qualcosa che smontasse l’insidia più subdola che può toccare la memoria di don Milani: quella di convincersi che non sia servito a niente. Che sia inutilizzabile. Invece lui continua ad essere trasfigurato in altre esperienze, di persone che magari non l’hanno mai conosciuto e che sanno poco o niente di lui. Capire come questo sia accaduto è la ragione che mi ha mosso a scrivere».

Qual è stato il suo primo incontro con don Milani?

Tecnicamente lavoro sul libro da un paio d’anni. Ma spiritualmente don Milani è dentro di me dal primo giorno che ho messo piede in una classe. Ho sempre insegnato in istituti professionali e quindi ho avuto allievi “antropologicamente” affini a quelli che andavano a scuola dal priore di Barbiana. In un certo senso posso dire di aver conosciuto don Milani prima ancora di averlo letto. È accaduto con lui quello che mi era successo anni fa con Dietrich Bonhoeffer (il teologo, su cui Affinati ha scritto un altro libro, ndr.). Sono stati due veri incontri, pur trattandosi di persone distanti dal mio tempo.

Don Milani con i ragazzi di Barbiana

Nel libro non si limita a visitare i luoghi legati al Milani sacerdote e insegnante. È andato anche su quelli dell’infanzia. Perché?
Com’è noto - ed è un elemento che lo apparenta a Bonhoeffer - don Milani veniva da una famiglia borghese. Ho voluto perlustrare le due ville di famiglia, quella di Castiglioncello e quella di Montespertoli. Mi interessava cercare di capire come e dove nasce il destino di un uomo; capire sino a che punto noi siamo liberi di mandare a monte la partita e, come lui ha fatto, di conquistare uno spazio di libertà. Ho capito che nel caso di don Milani non c’è stata una via di Damasco. Lui aveva da sempre questa vocazione a rompere le righe: ad esempio quelle del campo da tennis della villa dei suoi, dove chiamava a giocare i ragazzini poveri del paese, con le loro scarpe rozze e sporche di fango. Mi commuove l’immagine di lui con le scarpette bianche da figlio di famiglia borghese che si mischia con quegli amici figli di contadini. C’è molto di lui in questa immagine: anche quella matrice borghese che non si può far finta di cancellare.

A proposito di don Milani, lei parla sempre di libertà. Strano modo di conquistarsela scegliendo di farsi prete...
E aggiunga pure che eravamo ancora in clima preconciliare; quindi di libertà ce n’era davvero poca diventando prete... Ma lui ha chiarissima la percezione che sarebbe stato davvero libero nel momento in cui si fosse privato della sua libertà. Ad un certo punto spiega la vocazione proprio in questi termini: «Fare il prete è stata la mia libertà, dal momento che ho regalato la mia libertà al Padre». Non si spiega altrimenti la sua obbedienza senza incrinature alla Chiesa. Si definiva “ubbidientissimo“ pur avendo la percezione di trovarsi a volte in una situazione da “penitenziario ecclesiastico”. La sua è una libertà di non essere libero.

Cosa vuol dire “educare”, per don Milani?
Per lui voleva dire “ferirsi”. Accettare le sconfitte, chinare il capo. Ricordava spesso quel che gli aveva detto, appena presi i voti, il suo padre spirituale, don Raffaele Bensi: «Dovrai ferire e ferirti». Le ferite sono i fallimenti, il sapere di avere a che fare con altre libertà irriducibili, accettare il fatto che non si chiude mai la partita...

Qual è, secondo lei, il “punto infiammato” che lega così visceralmente il suo destino a quello dei ragazzi?
Risponderei allo stesso modo. Il punto infiammato si rende visibile nel momento in cui viene ferito. Mi riferisco in particolare al rapporto non con i cinque o sei fedelissimi, ma con gli altri ragazzi che gli erano stati mandati a Barbiana, quelli bocciati alla magistrali: erano i dropout del suo tempo. Lo misero a dura prova perché era già malato e sofferente. Nelle lettere si scorge un dolore lancinante, perché alcuni lo avevano anche rifiutato. Ma poi scrive che occorre avere sempre amore per le loro creature, senza pretendere nulla in cambio. E conclude: «Devi essere felice anche se lui scappa».

E dal punto di vista del suo modo di fare scuola quali sono le cose che restano più attuali?
Il metodo di richiedere ai ragazzi un’applicazione quotidiana. Don Milani aveva intuito profeticamente che la scuola doveva confrontarsi con avversari molto più forti di lei, cosa che si è assolutamente avverata, come possiamo riscontrare oggi: i media e le mode la travolgono, la schiacciano in un angolo. E allora che spazio resta alla scuola? Quello di recuperare il valore dell’esperienza. La scuola deve rifondare l’esperienza. Deve mettere ordine e ripristinare le gerarchie, proprio come don Lorenzo faceva con i suoi ragazzi. Poi c’è un’altra lezione importante che personalmente mi ha lasciato.

Qual è?
Ha capito che bisognava rinnovare il linguaggio per parlare ai lontani. Sapeva che il linguaggio a disposizione era del tutto inadeguato rispetto a quell’umanità che si trovava di fronte. Inadeguato quello dell’Azione cattolica, come pure quello del Partito comunista. Così anche in questo caso manda a monte la partita e trova un linguaggio nuovo che ha in Lettera a una professoressa, libro collettivo, la sua forma più nuova e affascinante. Del resto anche oggi siamo di fronte a un fenomeno analogo: papa Bergoglio ha rinnovato il linguaggio, liberandolo da formalismi e dando spazio ad una comunicazione intessuta di esperienza. Lui ha la stessa necessità che aveva don Milani: vuole parlare ai lontani.

A proposito di Lettera a una professoressa, lei scrive che la matrice epistolare del suo modo di esprimersi e comunicare è elemento fondamentale per capirlo. Perché?
Se egli non avesse avuto un interlocutore cui rivolgersi, ogni pensiero sarebbe stato sterile. D’altra parte nessuna tesi poteva nascere in lui se fosse stata priva del riscontro dell’esperienza diretta. In questo senso lui rappresenta la contrapposizione più lacerante all’idea di intellettuale del Novecento. Non vede nessun interesse culturale nello stare da soli. La scelta della forma epistolare, che nella letteratura italiana aveva un grande precedente nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, indica la convinzione che è inutile scrivere se non c’è chi ci legge. È una forma che tiene sempre collegati pensiero e azione.

Don Milani è quindi irriducibile a ideologie e teorie?

Certamente. È stato strumentalizzato dopo il Sessantotto, quando ne hanno voluto fare il padre del “6 politico”. Lui, al contrario, si sentiva implicato nel destino dei ragazzi, voleva accendere in ognuno di loro una passione. Non ci ha lasciato un sistema, un progetto, una filosofia pedagogica, come del resto non ci ha lasciato trattati teologici: a lui bastavano i dieci Comandamenti, la Confessione e l’Eucarestia. Ci ha lasciato solo una sapienza del fare scuola, qui ed ora.

Cosa c’è al cuore di questa sapienza?
C’è l’esperienza dell’incontro. La passione pedagogica di don Milani alla fine coincide con l’essenza più autentica del cristianesimo, inteso quale racconto di sguardi che, incrociandosi, si prendono cura l’uno dell’altro. Per quanto riguarda la mia storia ho sofferto la mancanza di un incontro decisivo. Venivo da una famiglia povera, ero figlio di due orfani; in un certo senso sarei stato anch’io un ragazzo di Barbiana. Sono cresciuto conquistando una maturità a spizzichi e bocconi. I soli incontri importanti che ho fatto sono stati quelli con la grande letteratura. Ma ora so che l’incontro è al cuore di ogni avventura educativa. Lo sperimento ogni giorno nel mio lavoro. Non posso preordinare gli incontri, ma posso incentivarli.