François-Xavier Bellamy. Eredi e liberi

Oggi la trasmissione della cultura è contrapposta alla libertà di pensiero dei ragazzi. «Ma niente nasce dal vuoto». L’intellettuale François-Xavier Bellamy ci racconta la «fortuna» di insegnare. E di essere a un bivio (da Tracce, settembre 2016)
Silvio Guerra e Thérèse Martin

È un volto molto noto in Francia: intellettuale, scrittore, anche politico. Ma la vera professione di François-Xavier Bellamy, classe 1985, è quella di insegnante di filosofia: in licei delle banlieue parigine come in scuole di quartieri ricchi. Il suo Les déshérités, ou l’urgence de transmettre (che presto uscirà in italiano per Itaca: I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere), tocca un tema sempre caldo, non solo in Francia: l’educazione dei giovani.
Nel suo Paese, Bellamy denuncia una profonda crisi di identità che «priva i giovani di una ragione per cui impegnarsi». Sono proprio loro i “diseredati” del titolo, coloro ai quali è stata tolta un’eredità culturale, e il suo stesso senso, a favore di un tecnicismo nozionistico. Tracce lo ha incontrato per un confronto su quella che sente come la sfida più urgente: «Aprire i ragazzi alla libertà. E offrire loro qualcosa in nome della quale possano donarsi».

Perché ha deciso di insegnare?
Ho desiderato fare questo lavoro per la fecondità che la filosofia ha avuto nella mia vita: ho incontrato un insegnante molto appassionato del suo lavoro. Una passione che, purtroppo, manca a tanti professori: spesso ci si lamenta, ci si piega in un pessimismo. Se potessimo mostrare agli alunni una passione per quello che facciamo, potremmo aiutare anche loro nella vocazione lavorativa. Dire: «Il nostro lavoro è aiutare gli studenti ad inserirsi domani in un lavoro», è falso e ipocrita, quando significa riempire le loro teste di nozioni. Il nostro contributo è un altro: lo scopo non sono appena i “contenuti”, quello che conta è una mediazione e un cammino perché l’alunno vada verso la sua libertà.

Cosa impara dallo stare in classe?
Quello che è meraviglioso nell’insegnamento è vedere come - grazie all’incontro che un professore può proporre, malgrado tutti i suoi limiti - gli alunni possano scoprire se stessi. La più bella esperienza è quella di una fecondità, di ciò che io chiamo “mediazione” che costituisce la cultura e che ci permette di aprire gli occhi sulla nostra vita e sulla nostra libertà. Senza mediazione non si sviluppa l’umano. È attraverso l’incontro con ciò che un altro ti trasmette che compi la tua umanità. E siamo tutti su questo cammino. Non è che crescendo non si ha più bisogno di mediazione: incontrarsi e scoprirsi è possibile solo tramite questa esperienza, proprio perché paradossalmente ci fa uscire da noi stessi.

Ogni generazione non dovrebbe ricevere l’eredità della cultura che la precede e mettervi la propria impronta? Gli studenti possono appropriarsi di un’eredità senza cristallizzarla?
Questa domanda è al cuore di una vera crisi. Molti dicono: «Se offriamo ai ragazzi una cultura, costruiamo la scuola come un doppione. Sarebbe come volersi riprodurre nei nostri alunni, come una clonazione, con lo scopo di alienarli. Dobbiamo lasciarli in libertà, dar loro abbastanza strumenti per affrontare il mondo, per vivere la loro avventura». Ad esempio, pensiamo alla rottura con la trasmissione della fede: al fondo c’è lo scrupolo di non lasciarli liberi. Ma la condizione per avere un’eredità culturale e poterla criticare è innanzitutto riceverla. Non si può pensare che la libertà critica possa nascere dal nulla e crescere da sola. Oggi tante volte i nostri ragazzi sono incapaci di criticare la storia, perché nemmeno la conoscono.

La «mediazione» di cui lei parla richiede al professore una grande capacità di mettersi in gioco...
Si deve riguardare il senso dell’essenzialità della cultura. Non la si deve vedere come un capitale: è fatta per essere compresa, non solo assorbita. Il lavoro dell’insegnante, se guardato in modo vero, non è superficiale, ma permette una vera comprensione di quello che viene condiviso. Il problema è che abbiamo creato un terreno che rende questo una rarità. Molti sono entrati nella professione per passione, poi quando hanno iniziato è stato detto loro che sono borghesi e che il loro unico scopo è plasmare gli alunni. Questo ammazza la voglia di trasmettere. Lo scopo non è più trasmettere una conoscenza, ma lasciare gli allievi “farsi da soli”: l’insegnamento è psichiatrizzato.

Che cos’è la cultura per i giovani di oggi?
È un lusso superficiale, una valigia ingombrante. Quello che caratterizza questo rigetto culturale è che stiamo costruendo un’opposizione: tra l’autorità di una tradizione che ci precede e la libertà dell’individuo nuovo. E questo prima non c’era: è il risultato della modernità. Si dice che i ragazzi devono essere autori della propria vita. Ci viene detto, per esempio in filosofia: dovreste farli riflettere sulle loro proprie idee, non serve far loro leggere le riflessioni degli autori antichi.

Forse queste indicazioni suggeriscono che una cultura enciclopedica non basta se non si fa esperienza.
Bisogna stare attenti alla parola “esperienza”: può essere fraintesa quando viene usata in opposizione a “conoscenza”. Non c’è niente che nasca dal vuoto: l’esperienza deve appoggiarsi sulla conoscenza e suppone qualcosa che la precede. Senza un contenuto, senza le parole, che io non ho inventato ma che ho ricevuto, non posso pensare, non posso vedere il mondo, non posso riflettere. C’è un contenuto che precede l’esperienza. Bisogna aver ricevuto per dare. Detto questo, sono d’accordo che il concetto di conoscenza enciclopedica sia sbagliato, è una immediatezza astratta, opposta all’universale, come se niente fosse degno di interesse se non, appunto, in questa immediatezza di conoscenza enciclopedica. Per compiere quello che in noi è universale, bisogna passare dal particolare. L’incontro con la cultura è l’incontro con una persona singolare. È in un incontro particolare che si trasmette una figliolanza universale. È in questo che l’incarnazione di Cristo provoca tanto scandalo e sembra andare contro la ragione, perché è nell’incarnazione particolare che ha luogo una salvezza universale...

Lei è un uomo di fede. Come incide nel suo lavoro, in particolare nell’insegnamento della filosofia?
Innanzitutto, penso che la fede ci aiuti a guardare la semplice ragione come dono di Dio. E questa è già un’occasione di stupore che ci guida verso la contemplazione. Lo stupore svela un senso alle cose, ancor prima che ci sia bisogno di sottolineare un atto di fede. La vita ha un senso e questo senso merita di essere svelato: ricerca e svelamento sono un atto della ragione con una propria autonomia. La Chiesa ci ha aiutato ad aprire uno sguardo di fiducia sulla ragione. Riflettere sulla necessità di una mediazione per ritrovare se stessi è anche un modo per ri-capire la figura di Cristo come mediatore. Ovvero, di un’ipotetica necessità dell’incarnazione, di un Dio mediatore fra Sé e l’uomo. È un cammino verso Cristo. Se si riprende coscienza ogni giorno del valore dell’insegnamento si riparte entusiasti. Spesso mi chiedo come mai mi faccio pagare. Dovrei pagare io per vivere questa esperienza...

Nei suoi interventi, si interroga spesso su «che cosa merita il dono di noi stessi».
Il dramma è che si è costruita una scuola alla portata di un bambino: «Non vi preoccupate. Non incontrerete mai qualcosa di troppo difficile». Ma quando tutto è alla tua altezza, non sei stimolato. Un ragazzo può finire la scuola senza aver trovato mai niente di più grande di sé. Invece è quando lo incontriamo che incontriamo anche noi stessi. Quindi, è questo a creare una mancanza deprimente, come se nulla valesse la pena del dono di noi stessi. Ma questo è un problema degli adulti. Non sono gli alunni che ci dicono: «Non trasmetteteci cose troppe difficili». Loro vogliono essere stimolati, sfidati. Ha la stessa radice la crisi della vocazione politica, dove il senso di qualcosa di più grande non si vede in molte persone.

Qual è il valore della scuola in una società che vuole i giovani solo capaci sul lavoro?
L’insegnante deve sapere che l’allievo non è rinchiuso nella sua immediatezza, può andare al di là: «Sei capace, ma ora non sai farlo». Cioè, sei capace di fare delle cose che ora ignori ma che farai, però prima c’è un lavoro, c’è una fatica. Io per esempio, all’inizio dell’anno, faccio vedere ai miei studenti un buon compito in classe fatto da quelli dell’anno precedente. Loro reagiscono dicendomi che non ci riusciranno mai. E io dico: «Sì che ci riuscirete, ma non subito, dovete accettare di mettervi al lavoro, perché questo implica ascoltare, esercitarsi, far fatica». Invece, quando ho visto i nuovi manuali della riforma dell’istruzione qui in Francia mi sono demoralizzato: un esercizio di francese è pensato sotto forma di sms su temi adolescenziali, come annunciare alla propria ragazza di voler rompere la relazione con lei. L’idea è di mettere a loro agio gli allievi, perché gli sms li sanno scrivere. Ma questo è prenderli per cretini!

Da dove ripartire?
Tutte le crisi - e la crisi di identità della Francia di oggi è la più profonda della sua storia - sono momenti privilegiati, perché si arriva per forza a un bivio del cammino. In questo caso, di una logica che sfascia la scuola. La fortuna di una crisi è che fa apparire il problema nel suo insieme radicale. E, da questo punto di vista, è una fortuna anche per noi cristiani, perché ci pone la domanda: accettiamo che qualcosa che ci precede sia la condizione della nostra libertà? È una domanda intellettuale, ma anche spirituale. Gli allievi non sono atei, ma non vogliono parlare di Dio, perché «se si parla di Dio non si è più liberi». Dio è, per eccellenza, ciò che ci precede. Una figura, quindi, che sembra minacciare la nostra libertà. O si rimane in questa logica o ci svegliamo ed è un’occasione per far vedere che solo riconciliandoci con quello che ci precede, possiamo fare una vera esperienza di libertà. È ora di rinunciare al mito dell’uomo che si fa da sé, da cui sono nate tante ideologie: il transumanesimo, la tecnica, la libertà come puro risultato del nostro desiderio, eccetera. Un secondo punto: la scuola magari va male, ma la sete degli allievi non è sparita. Dappertutto questa sete resta, anche in ambienti non privilegiati. L’entusiasmo per la poesia degli allievi di scuole periferiche, che magari leggono il francese aiutandosi con il dito, è un miracolo che fonda una speranza infinita. O ancora, io non ho mai incontrato alunni che mi abbiano detto che Platone non gli interessava. Al desiderio di voler trasmettere risponderà sempre il desiderio, la sete di imparare.