Il cardinale Gualtiero Bassetti

«Perché un due di briscola come me?»

Gualtiero Bassetti è il nuovo presidente della Cei. In questa intervista, realizzata all'indomani dell'annuncio della sua nomina a cardinale, l'arcivescovo di Perugia raccontava di sé e del suo popolo (da Tracce, febbraio 2014)
Luca Fiore

Affabile, ma non buonista. Aperto. Capace di stima per l’esperienza degli altri. Sa ascoltare. Ha chiaro che la Chiesa la fa lo Spirito e non i piani pastorali. Molto umano. La fama che precede monsignor Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, è una lunga serie di complimenti e sembra essere l’identikit del pastore secondo papa Francesco. Non dev’essere un caso che diventi Cardinale, il prossimo 22 febbraio, al primo Concistoro del Papato dopo esser stato nominato alla strategica Congregazione per i Vescovi. Lui assicura che prima del Conclave di Jorge Mario Bergoglio conosceva solo il nome: «Non avrei saputo dire che si trattava dell’Arcivescovo di Buenos Aires».
La stima del Santo Padre per questo Arcivescovo “di provincia” è nata e cresciuta nell’ultimo anno: dalla visita ad limina dei Vescovi umbri ad aprile fino al pellegrinaggio papale ad Assisi.
L’impressione è quella di una sintonia a pelle col Papa argentino. Nato in una famiglia umile dell’Appennino tosco-emiliano, Bassetti è approdato giovanissimo nella Firenze degli anni Cinquanta. Qui frequenta le messe dei poveri inventate da Giorgio La Pira ed è figlio spirituale di don Divo Barsotti. Per più di vent’anni si occupa dei seminaristi della città ammettendo al sacerdozio 105 alunni. Arriverà a Perugia nel 2009, dopo essere stato a Massa Marittima-Piombino e ad Arezzo. A incontrarlo a una settimana dalla nomina a Cardinale - neanche lui era al corrente della scelta del Papa - lo si vede ancora emozionato. E alla stretta di mano, non smentisce la sua fama: «Sei arrivato apposta da Milano?».

Il cardinale alla presentazione di ''Vita di don Giussani'' a Perugia

La prima reazione alla nomina è stata la sorpresa. La seconda?
Penso ai “miei” cardinali: Elia Della Costa per trent’anni arcivescovo di Firenze; Ermenegildo Florit che mi ha ordinato sacerdote; Giovanni Benelli che mi fece rettore del seminario a soli 37 anni; Silvano Piovanelli... Ecco, se penso che la stessa responsabilità è caduta sulle mie spalle, provo sgomento. Possibile che capiti a un “due di briscola” come me?

Eppure di nuovi Cardinali di sedi europee ci siete soltanto lei e l’arcivescovo di Londra, Vincent Nichols.
Sì, sono in molti a domandarsi perché. Penso sia una decisione che si inserisce nel discorso delle “periferie”. Molti dei nuovi Cardinali, da Haiti all’Africa, non vengono da Diocesi di primo piano. Il Papa ha scelto le persone. C’è poi la volontà di spogliare il cardinalato da quell’aura principesca. La porpora è un servizio. Lo si capisce bene dalla lettera inviata ai nuovi Cardinali.

Lei divenne rettore del seminario molto giovane, a 37 anni...
Ero terrorizzato e a Benelli chiesi: «Cosa ho da insegnare?». Rispose: «Nulla, perché ne sanno più di te. Tu devi donare loro l’entusiasmo del tuo sacerdozio. Devi camminare con loro, né davanti né dietro: di fianco. E la strada te la indicheranno loro». Tra i primi c’erano Giovanni Paccosi e Paolo Bargiggia, oggi missionari in Perù, Andrea Bellandi che è professore di Teologia e Luca Mazzinghi, presidente dell’Abi, l’associazione dei biblisti.

Da dove nasce in lei l’entusiasmo del sacerdozio?
Dall’avere incontrato Gesù Cristo. Dall’averLo incontrato realmente in tutta la mia povertà, in tutta la mia esperienza di uomo. E dall’aver ricevuto il coraggio di vendere per Lui la mia pelle. Perché uno che si fa prete è uno che vende la pelle a Gesù Cristo per potersi dare completamente. Il Signore non è geloso di possederti. Ti prende e ti fa un pane spezzato per i suoi. Se cerchi di dare tutto, c’è la gioia di aver dato tutto.

Papa Francesco vi chiede di essere «pastori con l’odore delle pecore». A lei capita di non sentirselo addosso?
La vita del Vescovo non è facile. Io cerco di stare sempre in mezzo alla gente, ma ci sono anche tanti momenti inevitabili di rappresentanza, burocratici, amministrativi che a me pesano. Per fortuna, soprattutto al fine settimana o nei giorni della visita pastorale, torno ad immergermi nei problemi della gente. Ma per il Papa il discorso sull’odore delle pecore è legato molto a quello dell’evangelizzazione.

In che senso?
Pensi a quando parla della Chiesa come di un ospedale da campo dove bisogna curare e sanare le ferite. È solo stando in mezzo alla gente che ci si accorge di questo bisogno. Il Santo Padre capovolge la parabola del Buon pastore che aveva cento pecore e ne perse una. Ora noi ne abbiamo perse 99 e dobbiamo andare da loro per nutrirle, conoscerle, chiamarle per nome, difenderle dal lupo. Poi il Papa usa un eufemismo, in realtà le pecore puzzano...

Perugia negli ultimi anni ha visto gravi fatti di sangue. Dopo il caso Meredith prima del suo arrivo, ci sono state le due dipendenti della Regione uccise e quel figlio ucciso dal padre adottivo. Lei è andato dai famigliari delle vittime.
Le donne erano una di Città di Castello e una di Todi, fuori dalla mia Diocesi. Ho incontrato i genitori e i figli. Del ragazzo ho celebrato il funerale. Erano persone pietrificate dal dolore, eppure con una grande dignità. Ai funerali di Ovidio, i compagni di scuola mi hanno chiesto in modo perentorio: «Dov’era Dio quando suo padre lo massacrava?». Ho risposto: «Dio stava con Ovidio». In quei momenti la presenza del Vescovo voleva essere la presenza di un amico, di un fratello. Era dire che quel dolore era lenito, almeno in parte, da Qualcuno che l’aveva preso su di sé. Pochissime parole, molti sguardi. Quando si sono sentiti di parlare, io li ho ascoltati.

Tornando al seminario: cosa pensava quando un ragazzo chiedeva di entrare?
Ho imparato che non c’è una vocazione che sia come un’altra. Non si può omologare la vocazione. Non si possono fare le griglie come tentavamo di fare negli anni Settanta. Da quelle griglie, tra l’altro, si escludeva chi veniva dai movimenti... La vocazione è come la persona: unica e irripetibile.

E la sua? Come nasce?
Da una bicicletta! Dopo le elementari il babbo voleva che andassi a riparare biciclette. Il parroco si oppose e mi fece lezione presentandomi come privatista all’esame di terza media a Borgo San Lorenzo, dai salesiani, dove anche don Milani mandava i suoi ragazzi. Fu un disastro. Mi salvò l’interrogazione di Italiano: il commissario si commosse alla mia spiegazione del coro dell’Adelchi, quello di Ermengarda. Al che il babbo disse: «Sei grande, ora va’ ad accomodare le biciclette». E di nuovo il parroco intervenne convincendolo a mandarmi in seminario a Firenze, pagando anche di tasca sua. Io il seminario non sapevo neanche cosa fosse.

E perché ci rimase?
A 18 anni i migliori della mia classe decisero di continuare nel seminario maggiore. Mi dissi: «E io? Sono da meno di loro?». All’inizio fu una gran fatica, poi un po’ alla volta ho capito che Dio mi chiamava davvero. E non c’è niente di più bello di quando un giovane a vent’anni si consegna...

Quale fu il momento decisivo?
La notte prima del suddiaconato non chiusi occhio. Era il momento della decisione definitiva. Saremmo stati schierati davanti al Vescovo e all’appello avremmo dovuto fare un passo avanti. Mi dicevo: «Gualtiero, da qui non si torna indietro». Poi, dopo qualche ora di sonno, mi svegliai sereno. Andai a fare quel passo e tornai a casa con una gioia immensa. Lo sentii come un momento di libertà. La libertà di uno che dice al Signore: «Basta, mi fido di Te e Ti seguo fino in fondo». Così dalla bicicletta sono arrivato alla berretta rossa. Ma aveva ragione il mio babbo: io sono quello della bicicletta. Solo che a darmela non è stato il babbo ma il Papa, che ora mi dice: pedala!

Dicono che in seminario invitava personalità come Mario Luzi o il cantautore fiorentino Riccardo Marasco...
Volevo che il seminario fosse un luogo aperto e con un contatto vivo con la città. Luzi mi impressionò: diceva una parola ogni tre minuti, ma a mettere insieme quelle parole, alla fine di un discorso faticosissimo, capivi che stava dicendo cose di una profondità assoluta. Queste parole erano musica e gocce di poesia. Invitai anche il giudice Gian Paolo Meucci, presidente del Tribunale dei minori, uomo eccezionale: ai ragazzi invece di fargli da giudice gli faceva da padre. Il seminario era una vera compagnia: c’erano giovani di tutte le appartenenze ecclesiali.

E don Giussani? Quando lo conobbe?
Già negli anni Sessanta veniva a Firenze dalle prima comunità di Gs. Don Silvano Seghi, il primo sacerdote del movimento in Toscana, era mio compagno di messa. Ai tempi del cardinale Benelli orientò diversi giovani del movimento ad entrare in seminario. Una volta gli dissi: «Don Giussani, è un paio d’anni che dei vostri non se ne vede in seminario». Lui non capì che scherzavo e mi disse che lo avrebbe detto subito a don Silvano. E diceva: «I miei devono essere quelli più rispettosi delle regole, perché io in seminario...». E poi raccontava di lui, Biffi, Manfredini e dello Studium Christi. Mi voleva un gran bene. E poi ci fu quella volta a Roma...

Quale?
Era la riunione dei rettori dei seminari d’Italia. Avevamo invitato a parlare i fondatori dei movimenti e c’era anche Giussani. Non riscuoteva molta simpatia, ma tutti prendemmo atto della sua preparazione, della sua profondità e del suo affetto per il seminario di Venegono. Poi noi tutti rettori fummo ricevuti da Giovanni Paolo II che, quando seppe che avevamo ascoltato anche lui, disse ridendo: «Don Giussani? Vi ha convertito?».

Che cosa chiede per sé in questo momento?
Ho 72 anni. Il Papa mi ha dato ancora una bicicletta e la strada è difficile. Al Signore chiedo la forza per mettermi in piedi sui pedali e affrontare con energia la salita più dura.