Shodo Habukawa, monaco del Monte Koya

Trent'anni fa l'abbraccio tra don Giussani e Shodo Habukawa

Era l'estate del 1987 quando il fondatore di CL visitava il monastero buddista del Monte Koya. Un incontro inatteso e sorprendente. Il monaco sarà di nuovo al Meeting di Rimini. Qui il racconto di quel viaggio dalla biografia di Savorana
Alberto Savorana

La mattina seguente Giussani raggiunge in treno e poi in teleferica il Monte Koya (a sud di Osaka), centro di buddismo Shingon Mykkyo, la cui fondazione risale al IX secolo per opera di Kōbō-Daishi. Con lui ci sono Fontolan, Wakako insieme ai genitori, Angela Volpe e Riva. «Apri la porta» rievoca Fontolan «e sei nel 1600. Bellissimo. Tutto in legno, separé di carta dipinti, bambù, bacinelle per lavarti in una specie di bagno comune. Un grande giardino curatissimo e, oltre, la collina piena di boschi.» Continua: «Don Giussani era colpito dall’apertura mentale dei monaci, era interessato alla loro curiosità, umana prima che intellettuale, per il cristianesimo. Sottolineava questa disponibilità senza pregiudizi che avevano nell’accostarsi alle cose, l’assenza di ideologia. Anche lui, nei loro confronti, aveva questa totale libertà di incontro, questa capacità di immedesimazione».
Il professor Shodo Habukawa, maestro dei novizi, dichiara: «Non dimenticherò mai finché vivrò quel giorno straordinario, il 28 giugno del 1987, alle tredici, quando monsignor Luigi Giussani comparve davanti ai miei occhi in una luce chiara e abbagliante, la tipica luce di inizio estate. Restammo abbracciati in silenzio per qualche istante, senza bisogno di dire una parola. La profonda emozione di quel primo incontro è rimasta indimenticabile». Dopo una breve pausa, il bonzo accompagna l’ospite italiano a visitare il museo Reihokan (“sala dei tesori”), dove, fra le numerose opere esposte, «un particolare dell’immagine del bodhisattva Kannon dalle mille braccia catturò l’attenzione di monsignor Giussani, mentre spiegavo il significato delle mille braccia del bodhisattva Kannon – gli innumerevoli modi di liberare gli esseri dalle loro sofferenze. Seppi in seguito che monsignor Giussani conservava un’immagine di questo bodhisattva che aveva ricevuto in dono». Il professor Habukawa rammenta che la sera di quello stesso giorno si recarono all’Università di Koyasan – dove insegnava – e qui si incontrarono per dialogare con l’allora rettore Takagi Shingen, l’ex-rettore Matsunaga Yukei, il professor Riva e Fontolan.

Don Giussani al Monte Koya con Shodo Habukawa

Habukawa ricorda di essere rimasto colpito dal fatto che Giussani conoscesse «molto bene» i fatti storici relativi alla trasmissione dell’insegnamento esoterico buddista da parte di Kukai Kōbō-Daishi; il buddismo Shingon Mikkyo nacque in India e fu portato in Giappone da Kukai, che lo aveva appreso in Cina: «Monsignor Giussani sapeva anche che Kukai aveva fondato un’università pubblica per le arti e le scienze circa 1200 anni prima». Nella visione particolarmente aperta di Kōbō-Daishi gli studenti dovevano apprendere su testi nazionali e stranieri. E mentre l’Università Nazionale era riservata alla formazione dei funzionari, la scuola religiosa di Kōbō-Daishi offriva alla gente comune la possibilità di ricevere un’educazione: «Fu questo l’argomento discusso durante quel primo incontro, il quale contribuì a far crescere una sensibilità comune, sino ad aver l’impressione di trovarsi insieme a degli amici di lunga data, dimentichi del tempo che scorre».

L’incontro inizia con il dialogo tra Giussani, Takagi e Matsunaga. Quest’ultimo osserva che la tradizione giapponese è molto legata al senso religioso, «anche se di questi tempi si è molto assottigliata» e domanda se questa coscienza religiosa c’è ancora nel popolo italiano. Giussani risponde che «nel crollo di tutti gli ideali politici, economici, il senso religioso si è ridestato molto nel popolo», ma il problema è che chi dovrebbe riprendere in mano la tradizione e approfondirla l’ha abbandonata per un’interpretazione della storia cristiana determinata «dalle categorie della filosofia dominante»; per cui, da una parte, in alcuni diventa «intellettualismo, inefficiente, inefficace, un teologismo svuotato del contenuto del messaggio storico»; dall’altra parte, nelle persone più attive, si identifica con «una presa di posizione politica e […] molta parte della teologia cosiddetta della liberazione identifica il cristianesimo con il marxismo».



Giussani aggiunge che a questi pericoli sfugge il fenomeno dei movimenti, «che non nascono dalla struttura ufficiale ma sono sostenuti molto dal Papa, proprio perché i movimenti si sforzano di riprendere la tradizione come risposta, intellettuale e pratica, ai problemi presenti. Per esempio, i movimenti sono profondamente ecumenici, si interessano molto della radice religiosa autentica che c’è in tutte le forme religiose e combattono tutti l’ateismo pratico».

Takagi concorda sull’importanza dell’ecumenicità, tanto che la prima cosa che dice agli studenti è quella di aprirsi alle altre culture, di tentare di capire gli altri modi di pensiero, e che questo è uno dei fondamenti dell’educazione impartita nell’Università del Monte Koya. Giussani, di rimando, dichiara di essere profondamente interessato a capire quale sia l’essenza del buddismo «perché certamente ci costringe ad approfondire la nostra idea originale e a, eventualmente, mutarne l’espressione per una fraternità maggiore».

I monaci spiegano a Giussani che nell’insegnamento di Kōbō-Daishi la vera educazione non ha niente a che fare con la nobiltà o con la ricchezza o con la povertà, cioè è qualcosa che riguarda tutti e consiste nel far emergere la dignità che ogni uomo ha dentro il suo cuore. Giussani trova che questa idea di educazione sia «fondamentale ed entusiasmante » e per questo, congedandosi dai suoi nuovi amici, rivolge loro un invito: «Noi abbiamo un grande festival annuale a Rimini, si chiama Meeting, ogni anno ha un tema; l’anno venturo avrà il tema “il senso religioso”. Mi piacerebbe che qualcuno parlasse di questa idea di Kōbō-Daishi».

A tale proposito il professore Habukawa ricorda che «il 19 settembre [1987; N.d.A.] arrivò una lettera contenente l’invito a partecipare al Meeting di Rimini», nella edizione dell’anno successivo, perché Giussani «voleva dare l’opportunità di studiare culture diverse per aiutare l’evoluzione personale e conseguire una migliore conoscenza delle differenze culturali, così da favorire e sviluppare l’amicizia fra i popoli».

Alle Vacanze internazionali di cl, che si svolgono a Corvara dal 25 al 30 agosto 1987, durante l’assemblea del 27 agosto Giussani dà la parola a una ragazza giapponese, Tomoe, «la quale è arrivata in Italia sapendo soltanto il giapponese. E allora è arrivata alla stazione con un cartello con su “Don Giussani”, poi “Giovanni Riva”, “Povera voce”». Gli universitari la inondano di applausi. La giovane domanda: «Don Giussani ha detto di diventare amici con le persone con le quali si sente che il cuore è lo stesso. Però ci sono degli amici che non sono uguali a me (la religione, il modo di pensare, il modo di vivere è diverso), allora io con queste persone come posso fare?». Giussani le risponde che l’amicizia è «camminare insieme verso il destino e perciò verso la verità», non si può essere amici «dimenticando o rinnegando qualche cosa. Perciò se io sono amico tuo, io sono molto interessato a quello che tu pensi e a quello che tu senti, a ciò di cui hai bisogno. Comunque tu lo concepisca e io lo concepisca, sappiamo che il destino è comune, cioè – che è lo stesso – che la verità è una. Che abbiamo un destino comune noi lo comprendiamo perché abbiamo lo stesso cuore, che ha la stessa sete di verità, di giustizia, di amore, di felicità. Allora, quanto più uno è attento al proprio cuore, quanto più uno ama veramente se stesso, quanto più uno è appassionato di questa cosa che non ha fatto lui e che è lui, tanto più è spalancato verso qualsiasi uomo che incontra». E continua: «È così uguale il cuore, è così unico il destino che le differenze sono destinate a essere distrutte, anche se il dialogo doloroso nella diversità durasse tutta la vita. Tomoe, c’è uno solo, un uomo solo ha detto che abbiamo lo stesso identico destino e che
abbiamo lo stesso cuore ed è Cristo, e per questo io sono cristiano».

(da Alberto Savorana, Vita di don Giussani, pp. 742-745)