Padre Mario Picech.

Mario Picech. Sull'isola dei vivi

Ha deciso di vivere in cella con i detenuti. Poi, come loro, ha sperimentato l’isolamento. «Il momento in cui ho imparato di più». Su "Tracce" di settembre, parla il padre gesuita, cappellano del carcere di massima sicurezza di Islas Marías, Messico
Victor Vorrath

Padre Mario Picech è il cappellano del carcere di massima sicurezza di Islas Marías. La prigione dalle “mura d’acqua”, che si trova nella più grande delle quattro isole messicane vicino alla costa di Nayarit, nell’Oceano Pacifico. Da quasi sessant’anni, un gruppo di gesuiti ha deciso di vivere qui, per condividere tutto con i detenuti.

Uno di loro è padre Picech, classe 1962, friulano, diploma da geometra e leva fra gli alpini. Quando è arrivato per la prima volta sull’isola era il 2008 e i carcerati erano circa ottomila, in cinque insediamenti. Oggi, sono meno di mille. Aperto nel 1905 come colonia penale per i criminali peggiori e gli oppositori politici, dal 2012 Islas Marías è diventato prigione federale, destinazione dei narcotrafficanti.

Detenuti della prigione messicana di Islas Marías

Che cosa significa per lei questo luogo?
Per me vivere a Islas Marías vuol dire convivere con i detenuti. Quando venni per la prima volta era una colonia penale. A quel tempo, c’era molta libertà: i detenuti potevano vivere con le loro famiglie, e noi con loro. Io chiesi al direttore della colonia di vivere in cella, per conoscere davvero i detenuti, condividere la loro condizione fino in fondo. Era una vita come quella degli scout: si suonava la chitarra, si cuoceva la carne, la sera si rientrava in cella... Era bella la vita con i detenuti. Nel 2012 è cambiato tutto: non potevamo più comunicare con loro, li vedevamo solo alla messa. Noi abitavamo a Balleto, uno dei cinque insediamenti penitenziari, e celebravamo la messa domenicale ogni volta in un insediamento diverso, dove rimanevamo solo un’ora e mezza. Stavamo tutto il tempo in casa senza vedere nessun detenuto.

Come ha vissuto questo cambiamento?
Mi sono domandato che senso avesse vivere qui. Che lavoro pastorale potevamo fare? Ma è stato l’anno in cui ho capito di più, nel quale ho vissuto più profondamente l’esperienza dei detenuti, perché mi sentivo molto costretto, mi dicevo: «Non posso far niente». Ma cosa significa fare agli occhi di Dio? Il padre superiore mi disse: «Mario, pensa che questo è il tuo posto, ci sono ottomila persone senza un prete che si prenda cura di loro». È chiaro che non si arriva a conoscere i detenuti per nome, perché sono tanti, ma loro sanno che c’è un padre che sta con loro, e questa è la cosa che vale di più. Più che con le parole, parli con la tua presenza. Ricordo bene il 2012, perché mi ha aiutato a comprendere meglio cosa significa vivere con i detenuti; anche se li incontravo di meno, ho vissuto con loro in maniera più profonda. Ho sperimentato le stesse cose che vivono loro: la mancanza della famiglia, la mancanza di relazioni profonde, tutti i problemi nascono con la solitudine. È il mondo della lotta con i pensieri, loro e nostri. È questa la “prigione”. È come per sant’Ignazio, che era a letto malato e cominciò a fare esperienza del discernimento. Mi rendo conto che tutto questo è stato un dono: un dono gravoso, ma un dono. Ricordo che la messa era una vera celebrazione, eravamo tutti uniti. In quel periodo, ho ringraziato Dio perché eravamo insieme nello stesso luogo. Potevamo celebrare il fatto che Dio ci ama, e per questo la presenza dei sacerdoti era molto importante.

Ho sperimentato le stesse cose che vivono loro: la mancanza della famiglia, la mancanza di relazioni profonde, tutti i problemi nascono con la solitudine. È il mondo della lotta con i pensieri, loro e nostri. È questa la “prigione”

Luigi Giussani ci ha insegnato che il cuore è il nucleo dove si radicano il desiderio di bene, di bellezza, di verità. Lei vede questo desiderio nei detenuti? È possibile costruire a partire dal riconoscimento di questo fattore che ci rende fratelli con quanti hanno ceduto al male?
Se io entro in un carcere giudicando i detenuti, non li incontro, perché pongo una linea di demarcazione, una divisione. Il giudizio che hai nel cuore l’altro lo vede negli occhi, lo capisce subito. Io ascolto tantissima violenza, specialmente in confessione, ma dico: «Signore, questo non è mio, è Tuo, io Te lo affido». Il Sacramento è questo: non sono io, passa attraverso la fiducia che hanno in me. Non vivo la violenza che vivono i detenuti, quello che sperimento è il desiderio di bene che hanno. E questo mi rende loro fratello.

Qual è stata l’esperienza che l’ha più provocata?
Uno degli insediamenti si chiama Laguna del Toro, dove sono concentrati detenuti difficili insieme ad altri che hanno particolari necessità di custodia. Una volta abbiamo celebrato la messa lì e un detenuto, che era in cella di isolamento ed usciva solo per la messa, mi ha chiesto: «Padre, potrebbe darmi il nome di qualche persona per la quale posso pregare? Ho un sacco di tempo, non ho una Bibbia, non ho libri, non ho niente...». Gli ho dato i nomi di una famiglia in Italia, che aveva un grave problema. Mesi dopo, quel detenuto mi ha chiesto come stessero. «Non lo so», gli ho risposto. «Verifica che stiano bene, ho pregato ogni giorno per loro», ha replicato lui. Quando sono rientrato in Italia ho chiamato quella famiglia, mi hanno detto: «Padre, stiamo bene, tutto si è risolto». Ed io gli ho detto: “Avete un angelo che ha pregato moltissimo per voi”. Nell’isolamento l’unica azione che puoi fare è pregare. Ma questa è la comunicazione con Dio che supera tutte le divisioni che gli uomini possono porre. Per esempio, ricordo che un detenuto morì in cella ed io chiesi ad un altro di fare una novena. Non era uno a cui piaceva pregare. Dopo, mi disse che lo aveva colpito profondamente questa esperienza di dover guidare la novena con gli altri detenuti. Ognuno pregava dalla sua cella, senza che si potessero vedere, ma solo ascoltandosi. Diceva: «Questa cosa mi ha toccato il cuore. Nove giorni abbiamo pregato, nove giorni ho pianto». Da allora, la sera, i detenuti recitano insieme il Padre nostro, senza vedersi. Quell’uomo mi aveva offerto quello che poteva, che era niente, ma quel niente era tutto.

Nell’isolamento l’unica azione che puoi fare è pregare. Ma questa è la comunicazione con Dio che supera tutte le divisioni che gli uomini possono porre

Che cosa ha imparato?
Ho imparato che per aiutarli non devo pensare: «Non sei solo, ci sono qui io a sostenerti...». Io sto lì un’ora: tutto il resto del tempo, in compagnia di chi sono? Quel che dico a loro è: «Prega per questa persona, tu che hai tempo». Così quell’area di massima sicurezza si trasforma in un piccolo convento di monaci. Le situazioni in cui ti trovi costretto ti aiutano ad andare in profondità. L’isolamento ti mette in ginocchio. Tutti mi dicono così, i sacerdoti come i detenuti: ti mette in ginocchio. O impazzisci o riconosci che sei figlio. E, se incontri Dio, non sei mai solo.



Per i detenuti com’è l’isolamento?
Uno di loro mi ha detto: «Quando ero in altre carceri, la mia famiglia veniva tutti i giorni a trovarmi; qui ci vuole una settimana per poter fare una telefonata, e per non più di cinque minuti. Ma così ho imparato a dare valore a mia moglie perché non l’ho vicina, prima pensavo che non fosse importante. Sta con me da otto anni e la nostra unione è più forte adesso di quando eravamo insieme». In prigione, l’amore che vivono le coppie si apre all’esperienza di Dio. Molti non sono sposati: qui celebriamo matrimoni di persone che sono insieme da vent’anni. Vedo il dramma che è il non avere tutto vicino, ma soprattutto vedo che ciò che è lontano si avvicina di più. Questa cosa mi ricorda il mistero di Dio, che è il mistero della fede.

Spieghi meglio.
La fede è così: se la afferriamo, la perdiamo, se vogliamo trattenere Dio con noi, lo distruggiamo. Se apriamo il cuore e accettiamo il modo con cui Lui ci guida, allora Lo incontriamo e viviamo con Lui. Questa è anche l’esperienza nei rapporti di coppia: la coppia aiuta a uscire dalla condizione della colpa. L’amore è una vera offerta. C’è anche sofferenza, soprattutto soffrono le donne e soffrono i figli che vivono fuori.

Se vogliamo trattenere Dio con noi, lo distruggiamo. Se apriamo il cuore e accettiamo il modo con cui Lui ci guida, allora Lo incontriamo

Cosa pensa che serva di più?
Dopo questi anni di vita in carcere penso molto al valore dell’educazione. Dobbiamo fare qualcosa per i bambini. Molti mi dicono: «Padre, conosci un luogo dove posso mandare i miei figli? Hai un luogo a cui posso affidarli?». Per questo dico che dobbiamo metterci a costruire luoghi di educazione.

Oggi il Messico è martoriato per le battaglie tra i cartelli del narcotraffico e gli scontri con l’esercito e la polizia federale. Che cosa può offrire un cristiano alle persone che vivono in questi ambienti di violenza?
Io vivo in maniera indiretta il mondo della violenza presente in Messico, attraverso coloro che sono stati coinvolti in tutto questo. Ma l’esperienza che faccio non è quella della violenza: ciò che mi colpisce di più è vedere il desiderio di amore e come le persone lo esprimono. Possono essere criminali, ma non per questo cessano di essere figli di Dio, non è tolta loro la possibilità di esprimere il bene. Se mi soffermassi sulla violenza, perderei molte cose. L’esperienza dei nostri incontri è aiutare i detenuti a non aver paura di condividere ciò che hanno vissuto. «Aiutati a essere perdonato», dico loro. Poi ci sono le persone che hanno sofferto di questa violenza e loro hanno un altro compito, perché per essere liberi devono perdonare. E non è facile. Da un lato sta l’essere perdonato, dall’altro il perdonare. Solo in questo modo esci da ciò che ti rinchiude nel dolore e nella sofferenza. Noi sacerdoti abbiamo davanti dei fratelli nella fede, fratelli in un cammino di vita. Li accompagniamo in questo tempo in cui si sentono più fragili e offriamo loro tutto quello che possiamo. Ci amano molto. È un’esperienza a volte gravosa, ma l’amore che ci danno i detenuti è il centuplo del nostro. È un amore grande. I detenuti mi convertono. Vi sono persone qui che hanno una fede molto grande, e la esprimono. C’è un mondo vivo, dove si sperimenta come Dio è accanto alle persone.