Aharon Appelfeld. Che cosa mi ha reso protagonista
È morto a 85 anni il grande scrittore israeliano. La Bibbia, il suo popolo, il senso religioso come tensione vissuta dall'uomo che è polvere. Qui un'intervista che rilasciò aTracce alla vigilia del Meeting di Rimini del 2008Aharon Appelfeld, uno dei più grandi e autentici scrittori del nostro tempo, è un assoluto protagonista, perché testimone di come un uomo, a cui è stato tolto tutto, può ritrovare questo tutto possedendolo in un modo nuovo, imprevisto, attraversando la dolorosa esperienza del subire il progetto di chi vuole rendere l’io “nessuno”.
In questi giorni è uscito Storia di una vita, edito da Guanda, che ha iniziato la ripubblicazione di diversi suoi libri. Sua la lectio magistralis d’inaugurazione della Fiera del Libro di Torino. Pubblicato in più di trenta lingue in 26 Paesi, Appelfeld - per anni docente all’università Ben-Gurion a Beer-Sheva, a sud di Israele - non è uomo di public relations. Non è «scrittore della Shoah», come improvvidamente è stato definito, ma persona dalla commovente bontà, intelligenza e umanità unite a una straordinaria capacità di scrittura, a cui si dedica otto ore al giorno.
Per Appelfeld la sua stessa vita, la memoria delle cose e delle persone diviene verità raccontata come coscienza della propria biografia e di un mondo. Nato nel 1932 a Czernowitz in Bucovina, Ucraina, dopo l’uccisione della madre, a otto anni viene deportato col padre nei campi di concentramento. Da solo riesce a fuggire e vive per cinque anni nei boschi della Germania, tra una banda di ladri-assassini e una casa di prostitute russe. Custodisce con orgoglio, lui bambino biondo, il segreto di essere ebreo, mentre vede l’umano e un mondo intero «andare verso la fine», come disse nello scorso ottobre al Centro Culturale di Milano.
Nella sua casa in Mevassereth, che significa “annuncio di Sion”, a 9 chilometri da Gerusalemme, ci accoglie confidandoci di voler raccontare al Meeting cos’è per lui il senso religioso: una tensione vissuta dall’uomo che è polvere, un nulla, ma che è stato fatto poco meno di un Dio.
Chi sono i protagonisti dei suoi libri e di cosa vuole rendere noi partecipi?
Uno scrittore scrive di se stesso: lui è il vecchio, il bambino, la donna. In pratica, tutti i personaggi dei suoi libri sono lo scrittore stesso. E questo è particolarmente vero nel mio caso. Ma se lo scrittore parla di se stesso senza considerare le varie figure che circondano la sua vita, finisce di creare. Diventa limitato o maniaco, vittima di un egocentrismo.
Da un mondo che non c’era più, lei arrivò da solo, nel 1946, in Israele. Come cominciò a cercare se stesso, come diventò protagonista della sua vita e scrittore?
Io ho avuto la fortuna di vivere nella mia giovinezza la rinascita della lingua ebraica. Quando sono arrivato in Terra Santa, parlavano ebraico circa 200mila persone. Il bisogno e il desiderio di ridire il nome dei miei cari mi spinse a farlo con una nuova lingua. Quello fu il doloroso inizio, uno strappo. Attraverso la lingua ebraica mi sono potuto ricollegare alla Bibbia. Venni accolto in un kibbutz dove un uomo mi diede la Bibbia. Ricordo me, ragazzo, mentre copio ogni giorno uno o due capitoli. Questo copiare mi ha avvicinato, o riavvicinato, al testo ebraico originale e da allora leggo un paio di capitoli della Bibbia ogni giorno. Essa, quindi, è la mia prima e ultima scuola, scuola di scrittura. Capii con chiarezza che il mondo che mi ero lasciato alle spalle, i genitori, la casa, la strada, la città, era vivo e radicato in me, e che tutto ciò che mi accadeva, o che mi sarebbe accaduto, era legato al mondo nel quale ero cresciuto. Nel momento in cui compresi ciò, smisi di essere un orfano che si trascina dietro la propria solitudine, per diventare un uomo che ha presa sul mondo.
In Storia di una vita ha scritto: «La letteratura, se è vera letteratura, è la melodia religiosa che abbiamo perduto»…
La gran parte dei miei personaggi sono persone che hanno un legame con il divino e talvolta non ne sono consapevoli. Non appartengono a una religione istituzionalizzata. Questo fenomeno si trova soprattutto nei bambini, che non sono consapevoli di questa loro facoltà. Io vengo da una famiglia non religiosa. Mio padre era un piccolo industriale e avevamo in casa due cameriere ucraine che invece erano religiose. Ricordo l’impressione forte che ho avuto quando una di loro tirò fuori alcune icone e si inginocchiò a pregare. È stata forse la prima espressione concreta di religiosità che ho incontrato, il primo contatto che ho avuto con la fede. Ma l’interessante è che io sono arrivato alla fede, perché ora sono un uomo religioso, tramite il cristianesimo. È un paradosso! Poi, la Bibbia e la sua prosa mi hanno insegnato alcune cose che sono la base di qualsiasi elemento religioso. Ad esempio: il silenzio è più importante del parlare. Il parlare è limitato, il silenzio è infinito. In molti casi, il parlare è un camuffamento.
Alain Finkielkraut l’ha descritta come uno che vuole tenersi vicino alla memoria e lontano il più possibile dall’eloquenza, che scrive per sottrarre una vita a parole vuote, ai clichés. La testimonianza è per lei l’unità di misura?
In tempo di guerra non era la voce a parlare, ma i volti, le mani. Dal viso potevi comprendere se l’uomo che ti stava vicino era disposto ad aiutarti o se stava macchinando contro di te. Le parole non aiutavano a capire. Ma la mano che ti ha porto un pezzo di pane o una ciotola d’acqua quand’eri in ginocchio per la debolezza, quella non la dimenticherai mai più. La lingua ebraica tende a un minimalismo: se puoi dire una cosa con due parole, non la dire con tre. Questo risparmio deriva dall’idea che la parola ha una particolare santità e quindi è vietato profanarla. L’ebraico non indulge in descrizioni, per questo non sappiamo nulla circa l’aspetto esteriore di Abramo, dei Patriarchi o di altri personaggi. Tutto si concentra sugli atti, sulle azioni. Gli eroi protagonisti della Bibbia sono quasi tutti senza doti eccezionali, non sono già santi…
Cosa significa?
Abramo è una persona molto concreta, materiale. D’altro canto parla con Dio, ci discute, fa trattative. I protagonisti della Bibbia sono persone concrete, grezze, piene di istinti e pulsioni, piene di debolezza, ma hanno un rapporto quasi naturale col divino. La Bibbia è stata la mia scuola di scrittura e aggiungo adesso che i suoi protagonisti sono stati per me un esempio per la mia vita personale. Sarebbe un eccesso se dicessi che seguo il cammino di Abramo o che aspiro alla sua grandezza. Il lato concreto, umano di Abramo mi è chiaro, ma le sue esperienze, le sue visioni sono per me inconcepibili. Questa scuola è come una montagna che a stento riesco a scalare. Rappresenta una forma di specchio in cui vedo riflettere me stesso ogni giorno. So di essere lontano dal divino, quindi ho uno specchio e la mia scuola è la Bibbia.
Generalmente si intende per “protagonista” colui che ha successo, ma spesso ciò significa una rinuncia alle proprie attese. Siamo stretti tra omologazione e nichilismo dolce: il “non desiderare troppo”...
Ho avuto la fortuna, lo dico ironicamente, di aver passato la mia infanzia all’inferno e da quando ne sono uscito ho un senso della vita diverso da coloro che non vi sono stati. Essere in un inferno umano, in cui le persone ti puniscono ora per ora, momento per momento, è qualcosa che può trasformarti in una creatura cinica. Il mondo dopo la Shoah appare come un mondo senza Dio, nel quale dominano solo le forze del male. Presso gli ebrei, invece, si è creata una situazione tragica: verso la fine del XIX secolo la maggior parte ha smesso di credere. Era, in gran parte, un popolo che credeva in Dio, era disposto a morire per la propria fede. Oggi l’80%, forse più, non ha più un legame con il divino, e questo agli occhi della leadership appare come qualcosa di irrilevante. Per i pochi che credono questa fede si è fossilizzata, e non sono consapevoli di questa tragedia! Il popolo ebraico, separandosi dalle fonti della fede, ha creato molti sostituti della fede.
Per lei i legami sono la stoffa dell’io. Ha scritto: «Il pensiero che i miei genitori mi stessero aspettando mi protesse per tutta la guerra. I sentieri mi portarono fuori dal bosco, ma non dai miei genitori… Durante gli anni della guerra i miei genitori furono fusi con Dio in un gruppo celeste scortato da angeli, destinato a venire a salvarmi dalla mia vita infelice».
La Bibbia mi ha insegnato a scrivere e a leggere, perciò mi ha tolto da un ambiente che era assente di divinità. In ebraico, al posto di «è morto» si dice «è stato accolto dai suoi padri». La morte è un ricongiungimento coi tuoi padri. Dopo la Shoah sono rimasto orfano e ho cercato un legame coi miei genitori, nonni, zii. Questa ricerca mi ha trasformato in uno scrittore, ma soprattutto in un credente. Voler vivere con loro nuovamente, che a prima vista può sembrare un culto dei morti, era per me un combattere contro la morte. Nel momento in cui mi sono ricongiunto con loro non solo sono rimasto una persona normale e non smarrita nel mondo, ma mi sono trovato collegato a qualcosa di grande, vero e in parte divino. Sono potuto uscire dal cinismo, rapportarmi alle persone da uomo a uomo, credere nell’uomo. Ringrazio Dio perché ho imparato ad amare gli altri così come sono.
Protagonisti della scena del mondo sembrano le ideologie, i progetti o, come ha scritto Thomas Stearns Eliot, i «sistemi perfetti in cui più nessuno ha bisogno di essere buono»…
Io sono stato vittima di due tipi di ideologie: il nazismo, che ha sterminato la mia famiglia, e il comunismo, che ha ucciso i miei zii - che pure erano comunisti - per non aderenza al Partito. Entrambe ci hanno ucciso perché eravamo ebrei. Non ho mai avuto alcun legame con le ideologie. Esse non sono a beneficio dell’uomo, ma a detrimento.
In Storia di una vita lei scrive:«Ho imparato a rispettare la debolezza e ad amarla: la debolezza è la nostra essenza e la nostra umanità… Il moralista ignora le proprie debolezze e invece di indirizzare le proprie pretese verso se stesso le indirizza verso il prossimo».
Se guardiamo al nichilismo che pervade le società, è il cuore dell’uomo che è colpito. Ma una società che dimentica il singolo per la collettività, non può essere un insieme umano. Per questo nell’ebraismo è scritta una cosa: colui che salva anche una sola persona è come se avesse salvato il mondo intero.