Pankaj Mishra

Pankaj Mishra. Questa rabbia non basta

Per il New York Times ( e non solo), il suo ultimo libro è tra i più importanti del 2017. Lo scrittore indiano racconta la sua visione senza sconti sull'oggi. E sul «disordine» globalizzato. Da Tracce di febbraio
Giuseppe Pezzini

Incontriamo Pankaj Mishra in un classico pub del Nord di Londra, dove vive con la famiglia, nei brevi periodi in cui i suoi impegni di scrittore e giornalista non lo portano in giro per il mondo. Il suo ultimo libro, The Age of Anger, appena tradotto da Mondadori (L’era della rabbia), è stato un caso editoriale nel Regno Unito e negli Stati Uniti ed è stato indicato dal New York Times come uno dei libri più importanti del 2017. È un «viaggio nella storia del presente», come recita il sottotitolo, alla ricerca delle radici culturali della crisi che stiamo vivendo. Spaziando da Giuseppe Mazzini a Donald Trump, da Gabriele D’Annunzio a Osama Bin Laden, il libro di Mishra racconta come la normalizzazione di valori occidentali, come l’individualismo, il capitalismo e il secolarismo, genera necessariamente reazioni di rivolta violenta. Reazioni che sono pericolose e soprattutto infruttuose, perché condividono la stessa visione ridotta dell’uomo promulgata dagli ideali che intendono combattere. Classe 1969, Mishra è nato e cresciuto a Jhansi, un villaggio dell’Uttar Pradesh, nel Nord dell’India. È sorprendente che arrivi da così lontano un pensatore con una conoscenza così vasta e profonda del pensiero moderno occidentale.

In un mondo popolato da milioni di persone provenienti da background così diversi, ha ancora senso un interesse particolare per la cultura occidentale?
Già il teologo Reinhold Niebuhr ridicolizzava i fanatici della civiltà occidentale, i cui risultati contingenti venivano considerati come la forma e norma finale dell’esistenza umana. Al contempo la cultura occidentale ha ora raggiunto una dimensione e influenza globale: viviamo oggi in un vasto, omogeneo mercato mondiale, nel quale gli esseri umani sono programmati per massimizzare il loro interesse personale e aspirare alle stesse identiche cose, a prescindere dal contesto culturale e il temperamento individuale. Theodor Herzl, fondatore del sionismo, parlava con approvazione di una «mimica darwiniana», di un desiderio “mimico” che conduce intere popolazioni a omologarsi al pensiero dominante e alle sue illusioni di grandezza.

Molti ancora però difendono il capitalismo e il pensiero liberista, in particolare nella sua versione americana, mostrando la loro storia trionfale negli ultimi secoli.
L’America è stata per secoli raccontata come la terra delle libertà, chiudendo un occhio rispetto alla storia del suo sviluppo e al contenuto della promessa. La promessa di crescita ed espansione (territoriale ed economica) è stata ab origine limitata a una ben delineata fetta della popolazione, a discapito degli autoctoni e delle altre categorie. Il disordine capitalistico e sociale generato dalla sproporzione tra una promessa di felicità attraverso la conquista economica e la sua possibilità di realizzazione infettano ancor oggi la società statunitense e si sono diffusi a macchia d’olio nel mondo globalizzato. Allo stesso modo, la nascita dell’economia capitalista nell’Europa occidentale è stata accompagnata da un disordine politico, economico e sociale, che ha generato una brutalità senza precedenti nella storia umana, tra cui due guerre mondiali, regimi totalitari, genocidi. Una brutalità spesso negata e dimenticata dai cantori delle sorti progressive, o ridotta a un numero esiguo di fenomeni estremi, come il nazismo e il comunismo. Questo disordine sta ora infettando un vasto numero di persone e popolazioni, a livello globale.

Nel suo libro lei sostiene che l’omologazione non riguarda solo i protagonisti, o vittime, della globalizzazione liberista, ma anche i suoi più fermi oppositori.
Sin dall’Ottocento una rete di contatti e convergenze unisce i grandi oppositori del materialismo e dell’individualismo propugnato dal sistema capitalistico-borghese. L’ebreo Herzl era allievo spirituale dell’antisemita Wagner, da cui mutuò l’idea politica di una razza eletta. Il bolscevico Maksim Gorky, Muhammad Iqbal, il poeta-araldo del “puro” islam e Gabriele D’Annunzio erano tutti devoti di Friedrich Nietzsche. Lenin e Gramsci ammiravano il taylorismo americano; i promotori del New Deal si ispiravano al corporativismo di Mussolini. Sia Ghandi che Damodar Savarkar, l’ideologo del nazionalismo indù, si consideravano eredi spirituali di Giuseppe Mazzini. Più recentemente, nella prigione supermax in Colorado, il suprematista bianco Timothy McVeigh divenne amico intimo di Ahmed Yousef, l’ideatore del primo attacco terroristico delle Twin Towers.

In assenza di chiari punti di riferimento religiosi o politici, gli uomini sono spersi di fronte a un’indipendenza senza limiti. Questa particolare esperienza di libertà individuale in un vuoto è ora endemica nel mondo sviluppato e in via di sviluppo, e anche in quello sottosviluppato.

Le esperienze che ha citato sono apparentemente diversissime, eppure lei le accosta riconducendole ultimamente a Rousseau, e alla sua polemica, che definirei archetipica, con Voltaire.
Voltaire è il prototipo dell’uomo moderno: difensore della ragione e della libertà, oppositore della religione tradizionale, promotore di un’alleanza cosmopolita tra i potenti, egli stesso uomo d’affari e investitore. Con la sua vita e il suo pensiero Voltaire fece sembrare una vita di lusso e agio un legittimo, e persino necessario obiettivo politico ed economico, sotto l’egida della libera competizione tra uomini illuminati. Rousseau è la reazione a tutto questo, il critico interno dell’Illuminismo: all’individualismo di Voltaire, Rousseau oppone una visione idealizzata di comunità egualitaria, inaugurando una tradizione di rivolta contro la modernità, che dura ancora oggi. Voltaire e Rousseau sono però due facce della stessa medaglia: a un Voltaire, segue necessariamente un Rousseau.

Cosa intende dire?
Rousseau incarna la quintessenza dell’esperienza di modernità della maggioranza delle persone: cittadini di una metropoli commerciale, senza radici, aspirano senza speranza per un posto al sole, lottando con i propri sentimenti contrastanti di invidia e fascino, repulsione e rigetto per il sistema che combattono e che allo stesso tempo li genera. Come aveva profetizzato il filosofo George Santayana, la disseminazione di una cultura competitivo-individualista non può che generare «una lava di violenza cieca e primitiva», pronta ad eruttare nei momenti di crisi. E già Dostoevskij aveva capito che individui educati a sognare la cieca soddisfazione di una libertà individuale si sarebbero facilmente radicalizzati se confrontati con una realtà negativa. L’inizio del XX secolo ha confermato questa profezia: nel periodo della prima grande crisi del capitalismo globale, e della più grande migrazione internazionale della storia, la ricerca anarchica e nichilista di una liberazione della volontà individuale si trasformò nella violenza del terrorismo.



La violenza e il terrorismo sono dunque il frutto di una falsa promessa non mantenuta?
Sono reazioni alla riduzione dell’uomo a homo economicus, e alla de-spiritualizzazione del desiderio umano e alla sua deificazione come mero interesse materiale. Gli assiomi del capitalismo, e cioè l’autonomia individuale e l’esaltazione dell’interesse personale, promettevano felicità e ed eguaglianza, ma hanno prodotto l’umiliazione di una vasta maggioranza da parte di un piccolo gruppo di élite al potere. Il fenomeno Trump, così come il suprematismo bianco e il nazionalismo americano che lo supportano, sono esempi di questa reazione, così come il terrorismo islamico, la cui vera origine non è nient’altro che il nichilismo occidentale.

In che senso?
In assenza di chiari punti di riferimento religiosi o politici, gli uomini sono spersi di fronte a un’indipendenza senza limiti. Quando la dimensione del pensiero è abbandonata a un flusso senza sosta, almeno sul piano materiale gli uomini vogliono che tutto sia certo e stabile: incapaci di recuperare le loro precedenti fedi, si assoggettano a un padrone che gli garantisca sicurezza. Questa particolare esperienza di libertà individuale in un vuoto è ora endemica nel mondo sviluppato e in via di sviluppo, e anche in quello sottosviluppato.

Stiamo dunque rivivendo una storia già raccontata, a livello globale.
Con una importante differenza. Nella storia degli ultimi due secoli gli shock della modernità sono stati assorbiti dalle strutture sociali tradizionali, la famiglia e la comunità, e dal sistema di welfare degli Stati. Tutto questo è ora in via di distruzione.

Ma il socialismo, e più recentemente il nazionalismo e l’isolazionismo, come quello inglese o americano, non sono proprio tentativi di ricostruire una comunità perduta, contro la globalizzazione?
La nazione è un concetto astratto, irreale, ed è dunque l’ennesima risposta falsa ad un problema vero. Il nazionalismo cerca di riempire il vuoto sociale e l’assenza di legami creata dall’individualismo con una falsa nozione di appartenenza. Si tratta dell’ennesima frode, perché non si basa su una realtà concreta di comunità, come per esempio le relazioni classiche di vicinato. Il nazionalismo è pericoloso, perché in fondo pretende di riempire il posto di Dio, con l’illusione di recuperare un legame perduto.

«Violenza e terrorismo sono reazioni alla riduzione dell'uomo a "homo economicus", alla de-spiritualizzazione del desiderio umano e alla sua deificazione come mero interesse materiale»

Come si esce dall’eterno ritorno della modernità?
Serve un ripensamento totale dell’io e del mondo. Gli esseri umani seguono chi sa evocare le forze che muovono nel loro profondo. Sia le analisi che le soluzioni devono guardare all’essere umano nella sua irriducibilità, alle sue paure, ai suoi desideri, e alla sua rabbia. È solo in quell’instabile relazione tra il nostro io privato e quello pubblico che uno può cominciare a comprendere e risolvere la guerra civile mondiale del nostro tempo.

Un tema solo per intellettuali?
No, bisogna innanzitutto ricostruire delle comunità reali. Mi è capitato, promuovendo The Age of Anger, di vedermi rivolta questa domanda: da dove arriva la tua critica della modernità? E la mia risposta è molto semplice: dalla mia storia. La possibilità di fare esperienza della positività di una comunità rurale ha fatto di me un uomo diverso rispetto ai tanti colleghi che sono dovuti confluire nel disordine urbano fatto di solitudine e ansia. Solo un’esperienza di questo tipo quindi può creare le basi per un’opposizione seria al modernismo. Io sono cresciuto nel Nord dell’India, con un villaggio come orizzonte; un’entità reale, comunitaria, dove tutto e tutti avevano un posto e un limite. Bisogna ricominciare a ricostruire villaggi, in un mondo globale.