Mikel Azurmendi. «Sono stato colpito dal sorriso di persone risuscitate»
Filosofo e antropologo basco. Agnostico. Due anni fa ha presentato a Madrid La bellezza disarmata. Secondo lui, nel mondo di oggi c'è bisogno di «uscire dall'ideologia ed entrare nel tu». Da "Tracce" di giugnoMikel Azurmendi ha 75 anni. Filosofo e antropologo basco, per molti anni impegnato contro il terrore imposto dall’Eta, offre forse uno degli sguardi più liberi e lucidi che si possono trovare in Spagna. Uno sguardo laico, che si è confrontato a fondo con i tratti più urgenti del nostro tempo, soprattutto l’immigrazione, il nazionalismo, lo jihadismo, il valore pubblico dell’esperienza religiosa. Lui, agnostico, due anni fa, presentando a Madrid La bellezza disarmata di Julián Carrón, raccontò la sorpresa di aver conosciuto persone che vivevano un cristianesimo «diverso da quello che ho vissuto io».
Disse di aver intravisto «il passaggio da un insieme di norme e peccati alla legge del significato, in cui c’è solo un obbligo: cercare il significato». In un mondo come quello di oggi, dove ciò di cui c’è «più bisogno», diceva, «è uscire dall’ideologia. Ed entrare nel tu».
Se dovesse definire la situazione sociale e culturale dell’Occidente in questo inizio di secolo con che parole lo farebbe?
Sul piano sociale, mi sembra che abbia ormai trionfato l’individualismo più possessivo e solipsista, in cui l’altro è qualcosa che non mi riguarda o che mi interessa soltanto per scaricare su di lui la mia rabbia. Sul piano culturale, per tutto il XX secolo abbiamo assistito a un lento ma progressivo dissolversi del senso della vita, e adesso, nel XXI, abbiamo iniziato una corsa verso il nichilismo. Tutto si compra e si vende, persino un master in Diritto. C’è ignoranza totale del bene. Il male? Non esiste. Un “io” equivale al puro “diritto di decidere”; “il singolo” è colui che può decidere riguardo a ogni cosa, chiunque sia lui e chiunque siano gli altri. Ha “diritto” di fare quello che gli pare e di dire quello che gli viene in mente (perché “la tua verità non è più vera della mia”). Ci crediamo padroni della vita e della morte. Quella terribile promessa di Nietzsche (in La volontà di potenza) si è ormai avverata in una immensa parte della popolazione dell’Occidente. Accanto a questa grande maggioranza della popolazione, vi sono piccoli gruppi di persone che vivono una vita che si divide tra una bolla libresca di accademismo (“tiepidi fanatici” della Ragione, impegnati in dibattiti puramente concettuali sulla Giustizia, il Bene o la Democrazia) e una vita spesa nella ricerca del piacere personale. E poi c’è un pugno di uomini che cerca di accogliere il povero e il malato preferendo uscire a incontrare l’altro.
Mi sembra che abbia ormai trionfato l’individualismo più possessivo e solipsista, in cui l’altro è qualcosa che non mi riguarda o che mi interessa soltanto per scaricare su di lui la mia rabbia
In uno dei suoi libri sostiene un «cordiale universalismo del noi». Parlare del “noi” implica parlare di storia, di affetti, di legami. Che cos’è l’universalismo del noi?
Anch’io provengo da una mescolanza di quegli uomini che metto in ridicolo. Se ho scritto quella frase che lei cita, e adesso mi sembra banale, certamente era perché per molto tempo ho pensato che i valori della nostra società contenevano un fondo di portata universale perché erano inclusivi: il “noi” democratico-liberale mi sembrava la meno etnocentrica delle società che conoscevo e ciò che maggiormente recepiva le differenze culturali altrui. Oggi vedo che si tratta di un’immagine troppo sdolcinata della nostra identità culturale, generata da spinte umaniste ormai deboli, totalmente diverse da quelle oggi in vigore: relativismo e individualismo. L’unico universalismo del “noi” a cui sono favorevole è che l’“altro”, chiunque sia, è sempre un bene. L’essere umano è dipendente, dipende dall’altro per essere se stesso (per nascere, crescere, godere o soffrire e morire). Questo è il concetto più universale del mondo degli uomini, è come la nostra legge di gravità. Vedo la rottura più totale di qualsiasi etnocentrismo come l’unica via d’uscita per la nostra società liberale. Per questo qualsiasi nazionalismo è un grande nemico dell’umanità, e qualsiasi accumulo di ira, invidia o odio è un passo contro l’umanità.
Ci aiuti a capire la radice del fallimento di questo universalismo illuminista di cui parliamo. Quando buona parte del pensiero moderno decide di uscire dalla “minore età” e di costruire una ragione adulta, prende posizione di fronte al problema della Bibbia. Considera che i fatti contenuti nei racconti biblici appartengono a una “età dello spirito” superata. Spinoza, per esempio, sostiene che il divino, per la sua natura universale, non può manifestarsi nel particolare, nel fatto storico. In che misura questo presupposto costituisce una forma mentis ancora viva in tutti noi?
Spinoza fu il primo che mise in discussione in maniera radicale nell’Europa cristiana la rivelazione di Dio. Lo fece smantellando l’immaginario teologico della sua epoca sulla base di una critica storico-filologica: mise in relazione la Bibbia con il contesto particolare in cui fu scritta. E giunse alla conclusione che la verità del testo biblico era solamente l’esperienza particolare del popolo ebraico (con tutto ciò che era loro connesso, i profeti, le usanze, eccetera...). Ossia relativizzò la prospettiva della Bibbia. Intitolò la sua ricerca Trattato teologico-politico perché il suo oggetto era liberare gli uomini dalla superstizione combattendo «il segreto delle monarchie e il loro interesse a ingannare gli uomini addolcendo con la religione la paura con cui li schiavizzava». Secondo lui, solo una repubblica avrebbe garantito la sicurezza di tutti «lasciando ciascuno libero di pensare ciò che voleva e libero di dire ciò che pensava». Era una immensa audacia. Nel capitolo 13 di quel libro sostiene che «le scritture non contengono altro che insegnamenti assai semplici, e pretendono solamente che noi obbediamo. Riguardo a Dio non insegnano altro se non ciò che gli uomini possono imitare vivendo secondo certe regole». Del Nuovo Testamento prende la Lettera ai Romani (13,8) per dedurre che l’amore al prossimo risulta una pura obbedienza, giacché costituisce una norma che non fornisce alcuna conoscenza. Nei capitoli seguenti dimostra che la fede porta all’obbedienza, mentre al contrario la filosofia insegna a pensare; la fede non richiede dogmi veri, ma solo obbedienza.
E ciò quali conseguenze ha?
“Uscire dalla minore età”, o la separazione tra scienza e fede, si verifica per la prima volta in Europa grazie all’errore antropologico di dividere l’umano in due: l’essere che pensa e l’essere che agisce, un essere in cui non c’è alcun legame tra le due attività. Amare l’altro è diventato ormai una imposizione, una norma divina che non richiede né fornisce conoscenza. Questo errore ci indica che l’etica si è trasformata, a questo livello del cristianesimo, in una mera collezione di norme e obblighi senza rapporto con la razionalità. A livello filosofico fu Hegel che riprese il punto di vista spinoziano che partiva dall’irriducibilità dell’esperienza particolare del popolo ebraico per puntare su una storia universale come totalità dei punti di vista: ossia, estraendo da tutta l’esperienza storica la sua “essenza razionale”. Anche Marx e altre correnti materialiste adottarono questo punto di vista hegeliano affermando la legittimità universale del materialismo. E in questo modo facilitarono l’ecatombe moderna dell’eliminazione in massa di esseri umani. Per parte mia, mi piacerebbe poterle dire che di fronte al problema della Bibbia esiste solo la fede. Se credi che Gesù era Dio, fatto uomo per insegnarci cose dimenticate riguardo alla violenza umana come fattore di disumanizzazione e reciproco annientamento, allora accetti totalmente i testi dei Vangeli. Il loro valore universale è l’amore, l’abbraccio al bisognoso, il porre fine all’odio, all’invidia, alla rabbia. Ossia, che la vita dell’uomo ha senso unicamente accanto all’altro. L’universale è questo.
Se credi che Gesù era Dio, fatto uomo per insegnarci cose dimenticate riguardo alla violenza umana come fattore di disumanizzazione e reciproco annientamento, allora accetti totalmente i testi dei Vangeli. Il loro valore universale è l’amore, l’abbraccio al bisognoso, il porre fine all’odio, all’invidia, alla rabbia. Ossia, che la vita dell’uomo ha senso unicamente accanto all’altro.
Torniamo alla separazione tra la fede generata da fatti storici e l’universalità della conoscenza. Lessing arriverà a dire che «casuali verità storiche non possono mai giungere a essere la prova di necessarie verità razionali». Che conseguenze ha una formulazione come questa? Non mi riferisco solo alla scienza, che è sempre importante, ma al vivere quotidiano, che alla fine è ciò che ci taglia le gambe o ci fa cantare.
Lessing era tedesco, nacque cent’anni dopo Spinoza, ma ebbe grande stima delle sue idee. Un anno prima di morire pubblicò L’educazione del genere umano (1780), un testo che preparava l’etica razionalista di Kant. Nella frase che cita, Lessing specifica che le verità storiche sono contingenti, e le verità della ragione, necessarie. E che è impossibile passare dalle une alle altre. Lo scrive in un contesto in cui vuole dimostrare che i miracoli e le profezie di Cristo furono verità nella loro epoca, ma che adesso non servono più per lo scopo che allora avevano: cioè a «richiamare l’attenzione delle masse... perché gli uomini seguissero le orme» di chi compiva miracoli. Ma oggi sono solo «notizie di miracoli e profezie passate», sono un fatto storico ed in sé non contengono alcuna verità. Lessing nega il valore del testimone, nega la fiducia tra gli uomini come fondamento della verità: uno domanda al suo vicino per sapere qualcosa, no? Perché uno ha fiducia che l’altro gli dica la verità. Leggere Aristotele o Euripide implica che confidiamo nel fatto che chi ha trascritto quei testi non se li è inventati lui. Questo non è una “notizia” ma un fatto storico, e molto ragionevole da credere. L’epoca della post-verità e delle fake news è la replica contemporanea del razionalismo di Lessing: se tutto il passato non è altro che notizia di un passato, che senso avrà credere a una notizia piuttosto che a un’altra? Nella post-verità, se la verità scompare è perché si annulla il rapporto di fiducia tra l’altro e me.
Il magistero degli ultimi Papi ha ripreso la definizione del cristianesimo come avvenimento. Che importanza ha questo?
Senza averli letti da più di cinquant’anni, anch’io sono arrivato a questa conclusione riguardo al cristianesimo avendo seguito il cammino di alcuni cristiani per due anni. Loro vivono di Gesù e vogliono essere come Lui; la sua presenza dà loro la forza per imitarlo, e così amano il bisognoso, lo accolgono, lo educano, “escono”, vanno incontro all’altro, chiunque sia. Questo è il cristianesimo, mi sono detto, ecco qualcosa di importante che accade davanti a te. Quando non accade questo, penso che non c’è cristianesimo, ma solo un insieme di superstizioni, un miscuglio di riti e dottrina, un’altra religione mitica oltre quella che ho lasciato più di cinquant’anni fa. L’importanza del fatto che il cristianesimo sia avvenimento è che uno lo vive, vive la fusione con Cristo, sperimenta Cristo come in un laboratorio. In questo modo altri possono osservare l’esperimento e può accadere che li entusiasmi. Oppure no, ma questo dipenderà da ciascuno, non da loro. In ogni caso, uno si farà cristiano oggi unicamente per aver incontrato i cristiani, per l’attrattiva della loro vita in Cristo, che vive l’avvenimento della Sua morte e risurrezione.
L’importanza del fatto che il cristianesimo sia avvenimento è che uno lo vive, vive la fusione con Cristo, sperimenta Cristo come in un laboratorio. In questo modo altri possono osservare l’esperimento e può accadere che li entusiasmi. Oppure no, ma questo dipenderà da ciascuno, non da loro
Che contributo possono dare i cristiani in questo mondo?
Un solo contributo: essere testimoni di Gesù e dare testimonianza di Lui. Vestire gli ignudi, dar da mangiare agli affamati, accogliere i senza tetto, visitare i malati, aiutare i tossicodipendenti… Perché tutti questi bisognosi sono Gesù.
Non so se posso terminare con una domanda personale. Sto leggendo il libro che ha voluto scrivere su Comunione e Liberazione in Spagna. È appassionante perché il suo sguardo è acutissimo, vede quello che io non vedo in persone e circostanze che conosco bene, alcune da più di trent’anni. Cosa l’ha colpita di più di questa tribù?
La gioia di vivere, il loro sorriso di risuscitati.
Da dove le viene questo sguardo?
È uno sguardo strabico, quello dei miei occhi, non c’è dubbio... Si rattristano nel vedere il male che ci facciamo gli uni gli altri, ma si inteneriscono davanti a bambini amati dai loro genitori. Poveri occhi miei, la realtà stravolge il loro sguardo mentre anelano di vedere la risurrezione nei volti.