Giacomo Poretti (foto Serena Serrani).

Giacomo Poretti. «Adesso fate un'anima»

Quella parola che sembra in via d’estinzione. E invece non ti lascia quieto. Da una frase sentita dopo la nascita del figlio alle grandi domande con cui fare i conti... Il comico milanese si racconta (da Tracce di marzo)
Maurizio Vitali

Giacomino Poretti, classe 1956, di nascita altomilanese - esatto, proprio quello del trio Aldo Giovanni e Giacomo -, è uno che riflette sull’esperienza. È verosimilmente per questo che è un gran bravo comico e anche, cosa che per qualcuno può risultare una sorpresa, un bravissimo attore. In questi mesi ha riempito le sale di tutt’Italia, e non ha finito il tour, con il suo esilarante e serissimo monologo di un’ora e venti Fare un’anima e, in contemporanea, con un dialogo con la moglie psicoterapeuta (e attrice) dal saltellante titolo Litigar danzando. La nascita e il futuro di un figlio come domanda sul senso della vita, nella prima pièce; la quotidiana convivenza con la compagnia e l’alterità della donna, ma anche con l’altro in generale, come domanda sul senso e la necessità della relazione, nella seconda. Tutte queste cose raccontate in maniera spiazzante da quel sacramondo che in principio fu Tafazzi, senza edulcorare nulla, senza tacere di fatiche, dubbi, contraddizioni della vita, ma nel contempo affacciando lo spiraglio salvifico di apertura a un oltre, che irrompe e innerva l’esistenza di un’ultima positività.
Per un artista che riflette sulla propria esperienza parlare della propria opera è dire di sé, e viceversa. In questa conversazione caracolliamo un po’ di qua, un po’ di là sui due versanti, ma è sempre l’uomo che racconta il suo vissuto, la sua ricerca, la sua fede, il suo percorso.
Giacomo lavora sulla parola, oltre che sulla ben nota straordinaria mimica. In questo anno sabbatico che si sono presi i tre soci - tranquilli, non è una separazione, solo una vacanzina -, Giacomo ha scelto una certa parolina da portare in scena, per indicare quell’oltre che magari possiamo cercare di ignorare ma che non possiamo abolire, se non mutilando noi stessi. Questa parola è “anima”, appunto. Una parolina vecchiotta, desueta, in via di rottamazione, forse. Giacomo irrompe: «Io sono affezionato alle parole che rischiano l’estinzione. Non mi piace che il dizionario sia il loro cimitero».

Affezione? Da dove le viene questa affezione?
Da abbastanza lontano. Le parole non sono voci e basta, ma portano un mondo. La parola “anima” è centrale nello spettacolo perché veicola una provocazione che io stesso ho ricevuto nella vita. Quella di un amico, anziano sacerdote gesuita, padre Bruno, il quale, quando dodici anni fa nacque Emanuele, disse a mia moglie: «Avete fatto un corpo, adesso fate un’anima».

Durante lo spettacolo ''Fare un anima''

E lei, Giacomo?
«Ma che cavolo sta dicendo questo qua»: questa fu la mia prima reazione. Però quella parola mi rimase piantata dentro come un seme nella terra. E le parole, quando sono piantate, fanno un po’ come vogliono loro.

Però, nel suo monologo, lei dice anche che una parola per stare in vita deve essere detta, pronunciata, scritta. Che ha bisogno di compagnia.
Il momento che lei cita è centrale nello spettacolo. È il momento in cui appare che all’uomo – diciamo così – medio, quello che magari è andato un po’ errabondo nella vita, quella parola lì a un certo punto fa tenerezza. E allora uno comincia a riflettere. A fare i conti con le domande che gli vengono su. Dipende poi da ognuno di noi se farle vivere o no, quelle parole.

Una volta chiesi al grande psichiatra Eugenio Borgna come mai prediligesse certe particolari parole, come “ferita”, “fragilità”, “ascolto”, “nostalgia”, addirittura utilizzandole nei titoli di più di un libro, senza mai far ricorso a sinonimi facilmente individuabili. Mi rispose che certe parole hanno in sé una musicalità, una gentilezza, che…
Certo, come no?

Mi è tornata in mente questa cosa di Borgna quando lei nello spettacolo dice, riferendosi all’anima…
«… questa parola misteriosa e sconosciuta ma dal suono gentile e impalpabile, leggera come un soffio».

Vedo che non le serve il suggeritore.
Esatto. Comunque, è una cosa bellissima quella che le ha detto Borgna, perché il suono è l’abito del significato. Così sentendo pronunciare la parola “anima” ho sentito l’attrattiva della sua misteriosa leggerezza, e nello stesso tempo è come se per me fosse stato lanciato l’sos. “Anima” sembra una parola sfigata e démodé. In realtà ti morde le caviglie.

«“Anima” sembra una parola sfigata e démodé. In realtà ti morde le caviglie»

Vale a dire?
Non ti lascia quieto. Tutti i credenti sono inquieti: da questo punto di vista sono in buona compagnia.

Lo diceva già sant’Agostino: “inquietum est cor nostrum”…
donec requiescat in Te.

«Finché non riposi in Te». Apperò, fresco di latino e di teologia, eh?... E ricordo la chiusa della lezione sulla libertà di Dio che don Giussani tenne al Meeting di Rimini del 1985: «Vi auguro di non essere mai tranquilli».
Sono convinto che le grandi domande vengano su dall’inquietudine. Ma guardi, anche la costruzione di uno spettacolo, in realtà, non nasce interamente da noi. Non siamo autosufficienti, neanche nel creare una pièce. Banalmente, se non avessi incontrato padre Bruno non ci sarebbe stato…

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Il titolo dello spettacolo?
Ma neanche tutto il resto. Comunque il tema dell’inquietudine mi interessa molto. Le voglio raccontare un episodio di vent’anni fa che mi è rimasto impresso. Erano i primi tempi delle mail. Molti miei amici l’avevano, e anch’io mi attrezzai. Chissà per quale motivo, forse per l’eccitazione di potersi esprimere e comunicare in quel nuovo fulmineo modo… boh? Sta di fatto che, non ricordo se io stesso o qualcun altro, ha innescato una provocazione filosofica sull’esistenza di Dio cui ha fatto subito seguito un giro di interventi e di contro-interventi che non mi sarei mai aspettato così intensi. Ho conservato tutta la sequenza di mail, magari un giorno ne cavo qualcosa. Insomma, alla fine ho creato un gruppo che ho chiamato “milanesi inquieti”. Si trattava di una ventina di amici, non so quanti di loro fossero credenti. Però la questione di Dio, buttata lì quasi come fosse un gioco per testare il nuovo strumento, come fosse chiedere se all’Inter ci credi o non ci credi, aveva assunto una dimensione seria e appassionata, quasi di litigio in certi accenti, ma di litigio positivo. Ecco, per dire che l’inquietudine ha segnato molti miei percorsi. Se non sei inquieto, non vai da nessuna parte. E non dico solo nell’ambito della fede. L’inquietudine è una caratteristica, credo (mi viene un po’ da vergognarmi a dire cose così grosse), dell’essere umano.

«L’inquietudine ha segnato molti miei percorsi. Se non sei inquieto, non vai da nessuna parte. E non dico solo nell’ambito della fede»

C’è l’inquietudine, certo. E c’è anche la difficoltà a non restare incastrati nelle insufficienti soluzioni della tecnocrazia. Di fronte all’inquietudine l’uomo si trova facilmente a recalcitrare, minimizzare, obiettare; si schermisce, non sa che pesci prendere, vorrebbe vederci chiaro a riguardo dell’anima magari con una Tac, o una scintigrafia, un algoritmo, o con un responso della dea interconnessa Siri. Che va in tilt anche lei.
A me piace partire dalla difficoltà. La difficoltà è lo smarrimento in cui siamo. Ma almeno una volta nella vita ci viene questo spavento, sì, io dico spavento, che ci fa chiedere: ma che cos’è questa cosa qui, la vita che ho? Ma chi l’ha fatta? E che significato ha? La domanda è così grossa che uno si spaventa. Per cui se uno non è credente non è necessariamente un cattivone. Può essere spaventato, smarrito, inquieto. Come posso essere io stesso. Ecco, mi piace rivolgermi a persone così. Che magari possono essere tirate via dalla distrazione, che è la nostra facile via di fuga.

Persone che hanno dentro comunque una ferita. La convince usare questa parola?
Certo che sì. Tra l’altro mi fa immediatamente tornare alla mente una lectio divina di padre Fausti, gesuita milanese, un altro degli incontri decisivi per la mia riscoperta del cristianesimo. Dunque una volta in San Fedele a Milano, quasi vent’anni fa, padre Silvano Fausti tenne questa meditazione sull’amore. Partì dalla Bibbia, dalla creazione di Eva. Una volta creato Adamo, si chiese padre Fausti, come è venuto in mente a Dio di fare una donna? All’uomo procurò questa ferita, cavandogli una costola. Una ferita fatta apposta perché fosse rimarginata dall’essere messo in relazione con l’altro. Perché noi sentiamo il dolore di una mancanza. Non mi addentro di più: qui comincia il Mistero. Sì, credo che ferita possa essere sinonimo di inquietudine.

Provo a introdurre un’altra parola: “avvenimento”. Cioè l’irruzione di un imprevisto. Qualcosa che non potevi preventivare ma che accade, con una singolarità tale che inevitabilmente ti provoca. Questa parola mi è venuta in mente perché quando racconta del suo rapporto con la fede, fa sempre riferimento a incontri con persone che hanno rappresentato questo accadimento. O sbaglio? E poi mi è venuta in mente subito all’inizio del suo spettacolo: nella prevedibile normalità di un padre emozionato sulla soglia della sala parto, in una mano i fiori per la mamma e nell’altra un precoce pallone da calcio (dell’Inter), irrompe padre Bruno con un inimmaginabile «fate un’anima»...
“Avvenimento” è una parola importantissima. Mi sembra che vada decisamente riferita al fatto che Cristo compare nella tua vita, che avviene per te. E anche prima dell’esplicito riconoscimento di Cristo, Dio ti si palesa, io dico, anche nei modi dello straniamento, dello spaesamento, dell’inquietudine e dello spavento, come accennavo prima. È il modo con cui la domanda sul senso della vita non rimane lì per aria come una cosa un po’ teorica, ma te la senti sotto la pelle. E come lo spieghi questo se non con il fatto che Dio ti sta accadendo e chiamando?

«“Avvenimento” (...) è il modo con cui la domanda sul senso della vita non rimane lì per aria come una cosa un po’ teorica, ma te la senti sotto la pelle»

E da dove si comincia a rispondere a questo richiamo?
Da quello che mi ha detto padre Bruno. Fare un’anima. Ma come si fa, non lo so. Lo chiedo all’esperto. Lui. «Comincia a ringraziare», mi fa. Ma chi? «Come chi? Il Padreterno che vi ha donato un figlio». «Già, e se fosse tutto un caso?». «Vabbè, ringrazi il caso, che comunque non ha faticato meno del Padreterno».

Una battuta mica male.
Al di là della battuta, mi sono sentito attratto dal tema del caso, dal punto di vista della possibilità comica e drammaturgica. Ho letto su Civiltà Cattolica che sostenere che il costituirsi del codice genetico che ha dato origine alla vita sia accaduto per puro caso equivale a dire che a ricomporre perfettamente un Boeing 747, smontato fino all’ultima vitina in pezzi sparsi su un pratone, possa essere una folata di vento. Insomma, mi piace l’idea di giocare comicamente sulle possibili risposte (negative) – tipo questa – a Dio che compare nella tua esistenza. Chissà, prima di andare in pensione…

Insomma, la comicità aiuta a dire le cose serie.
Nel mio caso sì. Mi sono reso conto che senza il linguaggio della comicità e dell’umorismo non avrei potuto dire certe cose. Del resto, scusi: san Francesco... giullare di Dio.

E Giovannino Bosco saltimbanco.
Sì. E Arturo Brachetti, che ha studiato dai Salesiani e, come dice sempre, «grazie a loro sono diventato quello che sono». E Woody Allen? Si è occupato della morte, di Dio, alla sua maniera. La comicità è come un approccio laterale, qualcosa che deraglia il senso comune, e quindi ti fa vedere le cose da un punto di vista diverso e non scontato. Vero, uno può anche usare il mestiere per piazzare la battuta fine a se stessa e buonanotte al secchio.

«La comicità è come un approccio laterale, qualcosa che deraglia il senso comune, e quindi ti fa vedere le cose da un punto di vista diverso e non scontato»

È giusto dire che un’autentica comicità sottende uno sguardo ultimamente benevolo?
La figura del cattivo, dell’arrogante, ti viene da prenderla per i fondelli senza sconti.

Ma non lo ammazzi…
Perché alla fin fine la comicità contiene uno spiraglio, una possibilità di ravvedimento.

Ravvedimento da cosa?
Dalla presunzione dell’uomo impettito che cammina altero e poi cade come una marionetta di legno su una buccia di banana. Guardi che lo racconta il filosofo Henri Bergson nella sua opera Il riso.

La comicità è una cosa seria.
Altroché. Guareschi è andato in galera. E quelli di Charlie Hebdo – di cui non condivido assolutamente le vignette – ci hanno rimesso la vita.

Vi hanno mai censurati?
Una volta, agli inizi. Nella trasmissione Cielito Lindo, direttore artistico Staino. Facevamo i vecchietti: «Hai sentito che Tizia – era un’attrice un po’ stagionata – ha fatto un figlio in provetta?». «E cosa ha detto il figlio quando è uscito dalla provetta?». «Ciao, nonna». Per Staino offendeva le donne. O tagliarla o non andare in onda. La tagliammo. Con amarezza. Ma anche imparando che c’è sempre la possibilità di fare un’altra battuta. Insomma, c’è sempre la possibilità di non subire una perdita, ma di farne occasione per ricominciare.

Il suo cammino religioso l’ha percorso in questi anni con sua moglie Daniela, attrice e psicoterapeuta.
In famiglia può succedere di tutto. Chi fa un percorso di fede e chi no. Nel nostro caso, il fatto di metterci insieme ha favorito per entrambi la ripresa di un certo cammino. Guardi, le faccio vedere.

Ah! Voi due nello spettacolo “Litigar danzando”. Vi fate compagnia anche in questo. Bello.
Spesso le nostre riflessioni vanno di pari passo. Ma non vorremmo esagerare con il numero delle serate, se no nostro figlio quando ci vede?