Giacomo Campiotti

Giacomo Campiotti. La sete del regista

Ha girato fiction sui santi, da Moscati a Bakhita, e la serie tv Braccialetti rossi. In questa intervista, da Tracce di maggio, racconta di sé. Di una vita «senza intoppi», ma con quel desiderio «di un senso più profondo»...
Paola Bergamini

Se gli chiedi a quale dei suoi film è più legato, Giacomo Campiotti, regista, risponde: «Il prossimo!». E il prossimo, la miniserie Ognuno è perfetto, che andrà in onda in autunno sulla Rai, ha come protagonisti alcuni ragazzi down. In sala di montaggio, guardando il frame con la faccia sorridente di uno di loro, dice: «Hanno un cuore aperto e ci mettono tutto il loro impegno in quello che fanno. È stato un godimento lavorare con loro. Non solo per me, ma anche per Edoardo Leo e Cristiana Capotondi che li “affiancavano”».

Classe 1957, cinque figli, Campiotti ha firmato la regia della fortunata serie televisiva Braccialetti rossi, storia di amicizia di un gruppo di adolescenti in un ospedale. Sue sono le fiction su san Giuseppe Moscati, santa Bakhita, san Filippo Neri, Maria di Nazareth. Ma anche quella sul maestro Alberto Manzi che negli anni Sessanta, attraverso la televisione, insegnò a leggere e scrivere a milioni di italiani. O l’ultima, andata in onda quest’inverno: Liberi di scegliere, sui figli delle famiglie mafiose. «Sono film che spero possano essere “ispiranti”», dice. Parola che suona un po’ strana. Da capire. Anche perché la sua produzione cinematografica non ha avuto sempre questo accento.

Perché a un certo punto della sua carriera ha scelto di fare film di questo tipo?
È una scelta che è andata di pari passo con una mia ricerca spirituale. Ricordo benissimo, avevo finito di girare L’amore e la guerra, che è la storia dei miei nonni, un film fatto molto bene. Ho pensato: «Bello, ma ce lo si dimentica in fretta. Vorrei fare qualcosa che abbia un senso». Ero ad Assisi e ho pregato perché questo potesse accadere. Il giorno dopo, mi hanno chiamato proponendomi Moscati, che io nemmeno conoscevo.

Come mai era ad Assisi?
Provengo da una famiglia cattolica, ho fatto lo scout, esperienza per me importantissima. Da ragazzo ero stato nella cittadella umbra e mi ero “innamorato” di san Francesco. Letteralmente attratto dalla sua figura. Poi verso i 17 anni, penso sia fisiologico, sono entrato in conflitto con la Chiesa come istituzione e mi sono allontanato. Ho avuto una vita bellissima che si è srotolata bene senza grandi intoppi, ma malgrado ciò, a un certo punto, ho sentito in modo più forte un vuoto e il desiderio di un senso più profondo. Nello stesso tempo, avevo la netta sensazione di far parte di qualcosa di più grande e che la vita fosse “qualcosa di più”. Tutto questo circa vent’anni fa. Sono tornato ad Assisi, nessuna folgorazione sulla via di Damasco. Ma mi sono riavvicinato, attraverso san Francesco, al cristianesimo. È iniziata la mia ricerca, cioè il mio dialogo con Dio attraverso la preghiera, la meditazione. Questa è la fede. Ho letto libri sulle religioni orientali, ho “incontrato” il santo indiano Yogananda e ho letto le vite di grandi mistici come san Giovanni della Croce o santa Teresa d’Avila. Più approfondisco questo cammino, più capisco che se uno trova la sua strada, la sua tradizione, non c’è bisogno di cercare altro. Poi sono dell’idea che più vai in alto, più i sentieri si uniscono. Mia moglie è musulmana e la sera con i figli recitiamo il Padre nostro e le preghiere della sua tradizione.

Così ha iniziato a girare film che avessero un “senso”?
Sì, per me e per gli altri. Il cinema italiano è stato grande per i suoi film di denuncia, e d’altro canto ci sono pellicole d’intrattenimento notevoli, ma io volevo fare film, appunto, “ispiranti”. E le vite dei santi lo sono.

Cosa la attrae di loro?
Più li conosci, più li senti vicini, compagni di cammino. Io ormai leggo quasi solo libri su di loro. Questo desideravo emergesse. Ho letto che «un santo è un peccatore che non si arrende mai». È rassicurante. Di Moscati mi ha colpito che era santo nelle piccole scelte quotidiane. In ognuno di noi c’è la scintilla divina, siamo tutti santi potenziali anche senza fare grandi cose. E ognuno ha il dovere di realizzare la sua unicità. Il senso della vita è cercarLo, avvicinarci a Lui. È quello che dice a un certo punto Moscati davanti al Cristo velato: «Rivelati, rivelati!».

Gigi Proietti nella fiction su San Filippo Neri

Questo per quanto riguarda i santi, ma le altre produzioni?
La mia fede è qualcosa di molto concreto che incide in tutte le scelte che faccio. Ultimamente mi hanno proposto un soggetto carino, ma tiepido. Ho rifiutato. Nei film “laici”, mi interessa che si veda che nel rapporto con l’altro c’è sempre qualcosa di buono, bisogna solo tirarlo fuori, scoprirlo senza pregiudizi. Così è stato per la malattia con Braccialetti rossi. Cioè l’amicizia che c’è fra quei ragazzi in un momento così drammatico.

Una fiction che ha avuto molto successo, tra l’altro.
Sì. E secondo me non a caso. Viviamo in un momento buio, dove c’è un impoverimento spirituale. Ma tra le persone c’è una sete di senso, di una possibilità di bene che in questi film emerge. Sono anche dell’idea che quando c’è un grande malessere, c’è la possibilità di cambiamento. Liberi di scegliere è stato proiettato nelle carceri e nelle scuole. Roberto Di Bella, il magistrato a cui si ispira il film, mi ha detto che alcuni boss lo hanno chiamato perché “salvasse” i loro figli. C’è questa sete di bene e direi anche di spiritualità. Come mi è capitato con i genitori della classe di mio figlio.

Cioè?
Mi avevano chiamato per aiutarli a fare uno spettacolo per i bambini. Sorprendendoli, ho proposto san Francesco. Per un anno, una sera alla settimana, ci siamo trovati. Arrivavano stanchi dal lavoro e andavano via a mezzanotte con il sorriso. Le poesie, i fioretti, la Regola… era tutto nuovo. Lo spettacolo è venuto bene ed è piaciuto, tanto che per due anni siamo stati in tournée nelle parrocchie di Roma, di Perugia, persino a Rebibbia siamo andati. Abbiamo fatto un pellegrinaggio con i bambini di cinque giorni in Umbria: di giorno camminavamo e la sera mettevamo in scena lo spettacolo nelle chiese o nelle piazze dei paesi.

Moscati, Filippo Neri, Bakhita, il giudice: come “vengono fuori” i personaggi dei suoi film?
Il mio lavoro è quello di dare loro credibilità. Io mi immedesimo in ciascuno, nel loro grado di consapevolezza. Ma questo vale per tutti, ognuno deve sapere chi è, cosa fa, dove vive. Se riuscissimo a essere consapevoli, prima di tutto, di essere figli di Dio, questo sarebbe già risolutivo. Ma almeno consapevoli di quello che si è. Che significa se lavori bene o male, come tratti i figli, la moglie… A volte siamo determinati da meccanismi esterni o dall’istinto per cui ci si difende o si attacca. La consapevolezza è quello che una volta si chiamava l’esame di coscienza serale, cioè la preghiera.

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Per gli attori cosa significa interpretare questi personaggi?
«Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi», si dice. Queste storie hanno lasciato un segno. Beppe Fiorello mi ha inviato messaggi di nostalgia di quando abbiamo girato Moscati. Il più eclatante è stato Gigi Proietti, che non so come mai avesse deciso di interpretare san Filippo Neri. Mentre giravamo, mi diceva: «A Giacomo, facciamo ’sto santo, ma non esageriamo!». Alla conferenza stampa a una domanda sulla fede aveva risposto: «Ci sono film che poi dimentichi. Altri che ti cambiano la vita. Questo è uno di quelli, ma non chiedetemi perché». Per Bakhita mi avevano proposto alcune attrici di colore tutte bellissime, ma per me non andavano bene. Ho fatto un casting ed è arrivato di tutto: studentesse, casalinghe, persino prostitute. Ho scelto una ragazza che accompagnava un’amica. Mi aveva colpito la sua faccia. Musulmana, donna di grande fede, ha interpretato benissimo il personaggio. Ogni anno le suore Canossiane di Schio, dove è vissuta santa Bakhita, la invitano ad andare da loro. La adorano.

A questo punto, una domanda è d’obbligo: il prossimo progetto?
San Giuseppe da Copertino, che è un po’ il mio santo. Quando lo avevo proposto in Rai mi era stato detto che era la cosa più lontana dalla linea redazionale. E invece adesso partiamo. Dopo cinque anni…