Mark O’Connell

Meeting. O'Connell: «Vi spiego la religione dell'uomo-computer»

Vivere mille anni, trasferire le informazioni della mente come dati informatici, creare una copia del cervello umano. Fantascienza? Non proprio. L'autore di "Essere una macchina", che sarà a Rimini il 18 agosto, racconta la sfida del Transumanesimo
Davide Perillo

«L’idea è spuntata quando sono diventato padre per la prima volta. Esperienza magnifica, ma che ti interroga a fondo sulla vita e sulla morte. Tenevo in braccio questo corpicino, così fragile, dipendente in tutto… Ho cominciato a chiedermi: ma siamo condannati ad essere così per sempre? Cosa vuol dire essere umano?». È una delle domande più antiche. Ma per Mark O’Connell, 40 anni, irlandese di Dublino, firma del New Yorker, è diventata l’occasione per un viaggio nel futuro che ci attende. Anzi, che è già qui. Perché il suo libro Essere una macchina (To Be a Machine), pubblicato in Italia da Adelphi lo scorso autunno, è il racconto di due anni di pellegrinaggio nel mondo del Transumanesimo. Ovvero, quella strana corrente di scienziati, informatici e tycoon della Silicon Valley convinti che da qui a molto poco, grazie alla tecnologia, l’uomo diventerà qualcosa di diverso da ciò che è sempre stato. Ricercatori come Aubrey de Grey, biochimico di Cambridge convinto che arriveremo a vivere mille anni («dipende dai finanziamenti nella ricerca»), e tecnici alla Randal Koene, che lavora per «estrarre le informazioni che compongono la mente dal sostrato biologico del corpo» (come fosse un pacchetto di dati da caricare, potenzialmente, su altri device); guru come Ray Kurzweil, profeta della “singolarità” (il momento in cui l’intelligenza delle macchine supererà quella umana, previsto entro il 2029) e manifestazioni come il Darpa Robot Challenges, stupefacenti Olimpiadi dei robot finanziate dal Pentagono; neuroscienzati che vogliono realizzare una copia del cervello e hacker con dei chip impiantati sottopelle.
Robe che a sentirle sembrano fantascienza. Ma che invece, nella loro apparente follia, sono reali, molto. Non solo perché Big Tech sta già investendo miliardi di dollari in programmi per allungare la vita e integrare uomo e macchine (Kurzweil, per dire, è ingegnere capo di Google). O perché esistono già adesso decine di persone disposte a spendere 240mila dollari per farsi ibernare dopo la morte, in attesa che la scienza li riporti in vita o trapianti la loro mente in altri supporti (nei caveau della Alcor, azienda di Scottsdale, Arizona, ci sono 170 corpi conservati a -196°). Ma perché la sfida che pone è attuale. Il boom integrato di neuroscienze, nanotecnologie e Intelligenza Artificiale promette di superare parecchi limiti che sembravano invalicabili. Se ci pensate bene, deleghiamo già a computer e algoritmi non solo lavori, ma decisioni, scelte, responsabilità. Grandi e piccole: dai percorsi del navigatore alla selezione dei nuovi assunti nelle aziende, dalla guida dell’auto (quella autonoma è a portata di mano) alle sentenze legali (negli Usa già adesso in 13 stati a decidere le pene di certi reati è un algoritmo che in base al tuo curriculum penale, all’ambiente in cui vivi e da cui provieni calcola le probabilità di recidiva). E sono solo esempi di una lista sempre più lunga. Insomma, l’unione tra uomo e macchina, il potenziamento della nostra capacità di calcolare, prevedere, manipolare dati – ma possiamo dire dire «conoscere»? – apre già adesso questioni enormi.
Se ne parlerà al Meeting di Rimini, dove O’Connell è ospite di uno dei primi incontri (domenica 18 agosto, alle 17) assieme a Daniele Magazzeni, esperto di Intelligenza Artificiale del King’s College di Londra, e Costantino Esposito, filosofo dell’Università di Bari. Titolo: “Il fattore umano”. In fondo, il libro di O’Connell parla di quello: di speranza e bisogni, del nostro desiderio di infinito e del suo lato (molto) oscuro. E dell’eterno tentativo di «risolvere il modesto problema della morte», come recita il sottotitolo del volume, ironico ma non troppo. «È il punto decisivo», conferma O’Connell: «Il mio interesse per il Transumanesimo viene fuori da qui, da questa ricerca più o meno dichiarata dell’immortalità. In un certo senso, si occupa degli stessi problemi a cui risponde la religione».

Ma come definisce il Transumanesimo?
Un movimento sociale che sostiene che possiamo e dobbiamo usare la tecnologia per espandere la nostra umanità, fino a fonderle. In un certo senso, si tratta di superare la condizione umana. Di renderla più potente di quello che è ora. Tentazione che esiste da sempre, e che ha un suo fascino.

Esempi?
Prenda proprio Koene. L’idea di fondo è questa: siccome la nostra mente è sostanzialmente un’insieme di dati e connessioni, estrarle e caricarle altrove, magari anche su un supporto meccanico, alla fine è solo una questione di capacità di calcolo. Ci arriveremo presto, dice. Ora, a metterla così sembra qualcosa alla Frankenstein. Diresti che uno che lavora a qualcosa del genere è matto. Ma quando spiega il suo lavoro, e i motivi che lo spingono a farlo, sorprende. Perché per qualche aspetto suonano come ragionevoli. Il desiderio di liberarsi dalla forma umana ha qualcosa di terribilmente umano. In fondo, è qualcosa a cui ambiamo da sempre. Sentendolo raccontare, mi veniva in mente Yates e il suo Navigando verso Bisanzio, il poeta ormai anziano che sogna di uscire dal corpo malato diventando un uccello meccanico: «Una volta fuori dalla natura io non potrò riassumere da cose naturali / la mia forma corporea...»

Ma non c’è qualcosa di stonato già nel punto di partenza? È come se la nostra intelligenza - di più, la nostra stessa mente - fosse ridotta a una capacità di elaborare informazioni, mentre è infinitamente di più.
Sì, è corretto. In qualche modo viviamo tutti una forma di identificazione con i computer. Spendiamo un sacco di tempo tra pc e smartphone, influiscono sul nostro modo di pensare e di vivere. Ma per i transumanisti c’è altro. C’è una specie di confusione, fino alla fusione, tra uomini e macchine. Da un lato c’è la certezza che l’Intelligenza Artificiale stia diventando sempre più autonoma, autocosciente, capace di scegliere i suoi fini. Dall’altro, si pensa che differenza tra uomo e robot sia solo il materiale. È qualcosa di affascinate e disturbante allo stesso tempo. Se ti chiedi: ma io sono simile a una macchina?, istintivamente ti ripugna. Non mi piace affatto pensarmi in questa maniera, mi sembra evidente che siamo qualcosa di più, che in noi c’è molto altro. Ma messa in questi termini, non è così facile dire cosa sia questo “altro”. La controversia è proprio su questo.



Appunto, che cosa c’è di specificamente umano nell’intelligenza?
Noi concepiamo noi stessi come gli unici esseri intelligenti. Tutte le altre forme di intelligenza hanno meno valore: per noi, è una caratteristica dell’umano. Ma è il concetto stesso di intelligenza a non essere condiviso, a essere messo continuamente in discussione. Non è una questione che riguarda solo i transumanisti. Solo che il modo in cui la concepiscono loro è incredibilmente ridotto. In fondo, per loro l’intelligenza è ciò che fanno i computer: elaborare informazioni e comunicarle. E il fatto che le macchine stiano diventando sempre più sofisticate in questo spinge a pensare che per sviluppare le nostre potenzialità dovremmo in qualche modo fonderci. Ma questa assolutezza è segno che in questa concezione manca qualcosa. L’intelligenza è qualcosa di più ampio: ha a che fare con l’esperienza, con l’astrarre, il provare, il pensare ai valori. Se pensi solo in termini di produttività o di soluzione dei problemi, apri le porte a una specie di confusione tra le macchine e l’uomo. E in fondo è questo che mi preoccupa di più del Transumanesimo.

Ma in questo tentativo di riscrivere i confini tra uomo e macchina, di ridefinire in qualche modo l’umano, che fine fa l’altra nostra grande caratteristica, cioè la libertà? È la grande assente nelle idee dei transumanisti...
Vero, anche qui c’è qualcosa di paradossale. Il Transumanesimo in un certo senso è un movimento di liberazione. «Non siamo liberi perché siamo confinati in corpi troppo deboli, fragili, e siamo destinati a morire: bene, finalmente possiamo liberarcene». È un atteggiamento molto radicato nell’individualismo. Ma è un individualismo così portato agli estremi che finisce per dimenticare completamente ogni idea di “io”. Vuoi diventare così potente e illimitato da non essere più te stesso. Perdi la tua forma. È difficile da razionalizzare.

E in un uomo concepito così, che cosa diventa la moralità?
I transumanisti pensano che se risolvi il problema dell’intelligenza, risolvi anche quello della morale. In fondo, è una forma di razionalismo. Se arriviamo a una forma di superintelligenza, tutti i problemi – compresi quelli etici - diventeranno più chiari, e appariranno anche le soluzioni. Come per magia. C’è anche qualcosa di magico, in questo senso. O di religioso, se si vuole.

In che senso? Nel libro, lei fa un parallelo con lo gnosticismo e il suo «desiderio di liberazione dell’anima dalla carne» che trovo molto azzeccato...
Sì, in qualche modo è una forma di religione. Strana, perché non c’è un dio. O meglio, in un certo senso il dio è la tecnologia. È una nozione deterministica del futuro. Ma è qualcosa di molto prossimo alla religione, affronta le stesse questioni che prima venivano riservate alla fede. E ha tinte apocalittiche e messianiche, anche. In questo, secondo me, è abbastanza vicino a un certo cristianesimo. Magari un po’ old fashion.

Ma dobbiamo aver paura di questo tipo di progresso?
È una domanda che mi fanno spesso, ed è difficile rispondere. Non credo che il Transumanesimo oggi sia pericoloso. L’idea di avere dei superuomini o delle superintelligenze non è all’ordine del giorno. Insomma, non è ancora un problema da non dormirci. Ma può diventarlo. Può avere un impatto molto serio sull’economia, sui posti di lavoro, sulla società. Non la vedo in termini apocalittici, non parliamo certo di terminator… Però certi meccanismi che stiamo già vedendo saranno accelerati. Di sicuro, è un problema da gestire.

E siamo preparati ad affrontarlo? La tecnologia viaggia a un passo che società e politica non riescono a tenere. Come si fa a discutere, immaginare regole, porre limiti?
Non ho molte risposte dirette. Certo, è vero che c’è questo gap. Anche la gente con cui ho parlato nella Silicon Valley comincia ad esserne consapevole. In generale si tende a parlare di Intelligenza Artificiale come di un problema futuro, mentre è qualcosa di già presente ovunque. Ci sono decine di cose quotidiane che funzionano grazie all’IA: basta guardare Google Maps, o le app del nostro smartphone. Credo che la regolamentazione sia un punto chiave, assolutamente. Dobbiamo farlo, anche se è difficile mettere regole a qualcosa che si muove così in fretta. Chi lavora in questo campo molto spesso lo fa senza chiedere il permesso, e tante volte non c’è una vera sorveglianza. Come cittadini, però, è ora di forzare un po’ di più la mano ai governi perché si occupino della questione. Certo, siamo sempre lì: per arrivarci, ci vuole una presa di coscienza collettiva. Della gente e della politica. Non sono materie su cui il singolo può incidere più di tanto.

Alla fine del viaggio, cosa ha imparato di se stesso?
Che posso scrivere un libro: non lo avevo mai fatto (ride). Non so… Non credo di essere cambiato, non c’è un prima e un dopo il libro. Però penso di avere meno paura della morte, questo sì. Non che non mi faccia più problema. Ma l’immortalità forse non è più così attraente.