Pavel Fischer

Meeting. Pavel Fischer: «La chiave della casa comune»

Già collaboratore di Václav Havel e candidato alla Presidenza, il senatore ceco a Rimini il 21 agosto. Su "Tracce" di maggio spiegava cosa manca all'Europa per ritrovare se stessa
Luca Fiore

Da ragazzo ha suonato il violino nella Prague Student Orchestra. Poi ha cantato nel World Youth Choir. E oggi, dopo tanti anni, racconta: «È così che ho iniziato a girare l’Europa, c’era ancora la Cortina di ferro. Ed è grazie alla musica che ho scoperto che i confini non hanno importanza: quando ti esibisci è il talento che conta, non il passaporto». Pavel Fischer, nato a Praga nel 1965, da allora ne ha fatta di strada. Dopo essere stato per otto anni stretto collaboratore del presidente Václav Havel e per sette ambasciatore a Parigi, lo scorso anno ha lui stesso tentato la corsa alla Presidenza della Repubblica. È finito al terzo posto raccogliendo, al primo turno, il 10 per cento dei voti. Oggi siede nel Senato ceco, per il quale presiede la Commissione Affari esteri, Sicurezza e Difesa. Si capisce che l’Europa non l’ha girata soltanto con il violino sotto il braccio. È cattolico, sposato con quattro figli e, a chi gli chiede se si sente più ceco o più europeo, risponde: «È come chiedermi se mi sento più praghese o più ceco…». Sarà uno degli ospiti del prossimo Meeting di Rimini. Il mese scorso, anche lui ha assistito al rogo di Notre Dame a Parigi e in tv ha riconosciuto i volti di persone incontrate durante i soggiorni da studente e da ambasciatore. «È stata un’emozione molto forte. Conosco bene la Cattedrale e molti che la frequentano. In televisione ho visto anche Laurent Nuñez, Segretario di Stato al Ministero dell’Interno francese, che è stato mio compagno all’École Nationale d’Administration».

Il Parlamento europeo a Bruxelles

Che pensieri, da cittadino europeo, le ha suggerito l’immagine di Notre Dame in fiamme?
È un’immagine che parla della fragilità delle cose che ci circondano e della nostra incapacità di agire per conservarle. Pensiamo di essere capaci di creare, possedere, conquistare, avere successo… E poi, nonostante tutta la tecnologia di questo mondo, ci sentiamo indifesi e impotenti davanti a una chiesa in fiamme.

È un momento complicato per l’Europa. Sembra che qualcosa si sia rotto.
La fragilità di Notre Dame è il simbolo della situazione che attraversa la nostra cooperazione pacifica. L’Europa oggi è sotto pressione dall’esterno: da un vettore di pericolo che viene da Est, dalla Russia e dalla Cina, che ci vedono come un nemico, e da Sud, dall’Africa, segnata dalla violenza e dal terrorismo islamista, dove l’odio per i cristiani e per l’Europa è tangibile. Le istituzioni europee sono fragili e lo sono anche i processi democratici all’interno dei singoli Paesi: sappiamo che potenze straniere possono interferire sul risultato delle elezioni. E la Brexit ci insegna che obiettivi apparentemente molto semplici da spiegare (l’uscita dall’Unione) non sono affatto facili da raggiungere. È un segno della complessità del mondo in cui viviamo.

Il distacco tra la politica e la gente è sempre più marcato.
È una distanza che va presa sul serio e affrontata con attenzione. Ci deve essere certamente il tentativo di prendere in considerazione le emozioni, le paure, le speranze della gente. Se non lo facciamo, avranno ragione a dire che la politica non affronta i veri problemi. Tuttavia occorre, da parte nostra, essere in grado di spiegare, in modo pedagogico direi, che non tutto è risolvibile schiacciando un bottone. Le cose che davvero contano hanno bisogno di tempo, pazienza e disponibilità al compromesso. La familiarità con i computer ci fa credere che tutto sia a portata di click, ma nella vita e in politica le cose non funzionano così.

Questo vale per voi politici. Ma le persone comuni? Possono partecipare alla costruzione dell’Europa?
Occorre tornare alla provocazione di Václav Havel. Lui, già negli anni Settanta, aveva visto la disillusione della gente comune, che si sentiva inutile. Si diceva: nulla potrà mai cambiare, non c’è nessuna scelta. Ed eravamo sotto un regime comunista totalitario. Ma lui obiettava: no, il modo di vivere la nostra vita quotidiana è già una forma di politica. Se viviamo con dignità, lì dove siamo, contribuiamo al bene comune. Il vivere in modo responsabile è la struttura portante del nostro contributo alla società. È quel che scrive ne Il potere dei senza potere: anche la persona meno importante può fare qualche cosa di utile, anche nella situazione più complessa. Io non credo che servano nuove ideologie. Al contrario. Abbiamo bisogno di riconoscere che ogni singola vita vissuta nella responsabilità conta, può cambiare le cose, iniziando da quelle più vicine, su su, fino ad arrivare ad influenzare la società nel suo insieme.

Che cosa può aiutare a far crescere questo tipo di consapevolezza?
Siamo prigionieri della tecnologia. Pensiamo che più connessioni, più follower, più amici su Facebook abbiamo e più intelligenti e influenti siamo. Io penso che dovrebbe essere vero l’opposto. L’uomo che ha in mente Havel è una persona impegnata nella ricerca del vero. Allora ci si incontrava, si discuteva, si cercava di educarsi per capire che cosa c’era nell’aria e che cosa si poteva fare. È di questo che ha bisogno l’Europa: gente che si incontri, a piccoli gruppi, per discutere. La riscoperta di una dimensione comunitaria che renda possibile il dialogo.

Che cosa le fa pensare che sia questo il metodo?
Lo vedo quando, come senatore, giro a incontrare la gente: tutte le volte che si è in un contesto in cui si può davvero confrontarsi, potendo dire la propria opinione e ascoltando quella degli altri, anche se non la si condivide, la gente è coinvolta. Le persone discutono senza che nessuno, prima della fine, abbandoni la stanza come, tante volte, si abbandonano le discussioni su Facebook. Davvero. Dobbiamo riscoprire il piacere di confrontarci così, per colmare la distanza tra esperienze personali diverse, per creare una società di soggetti responsabili e sicuri di sé.

L’esperienza cristiana può aiutare in questo?
Senza dubbio. I cristiani sono molto equipaggiati per fare ciò che ho descritto. Hanno molto da offrire. Sono davvero sostenuti dalla relazione con il Dio in cui credono.

Spesso il cristianesimo è ridotto ai valori della tradizione e non è qualcosa di vivo nel presente…
Le radici dell’Europa sono giudaico-cristiane. D’accordo. Ma i cristiani non sono abituati a pensare che, anche in ambito cristiano, si possa criticare Dio. In realtà nella cultura da cui nasce l’Europa di oggi, quella ebraica e cristiana, si può mettere in discussione Dio. Pensi a ciò che osa dire Giobbe nella Bibbia. Per lui il rapporto con il divino è una relazione personale autentica e non preconfezionata. Giobbe sfida Dio. Se noi cristiani non riscopriamo questa possibilità per le persone attorno a noi, la fede sarà sempre più vista solo come una serie di precetti e di riti poco interessanti. Oggi è come se i cristiani fossero simili a chi abita una casa senza usarne le chiavi. Hanno dimenticato la chiave dell’eredità che arriva dai secoli. Se è così, gli europei perderanno le chiavi dello spazio di libertà e dignità che ebrei e cristiani hanno aiutato a creare.

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In che senso?
Il tesoro dell’Europa resterà accessibile per chi capisce le ragioni da cui sono nate le grandi istituzioni del nostro tempo. E che esse sono significative ancora oggi. Perché dovremmo occuparci di solidarietà, visto che esistono sistemi pensionistici? Perché dovremmo pensare alla carità, dal momento che ci sono tante organizzazioni che se ne occupano? Perché interessarci ai senzatetto, se esiste chi li aiuta per mestiere? L’esistenza di queste realtà si può spiegare alla luce dello sviluppo della cultura europea che, in momenti diversi, ha visto protagonisti alcuni visionari, o profeti, diverse persone importanti che hanno aperto la strada creando ospedali, scuole, università, opere di carità… Se guardiamo le loro vicende, vediamo che l’ispirazione nasceva da una fede personale in un Dio personale. Hanno sfidato le strutture di potere del loro tempo. Ecco perché l’Europa ha bisogno dei cristiani. Perché senza di loro sarebbe difficile usare le chiavi della casa che abbiamo ereditato e nella quale viviamo. Ma lo vediamo bene: la stabilità di questa casa ha bisogno di essere rinforzata.

(da Tracce, 5/2019)


Pavel Fischer (Praga, 1965) è stato eletto come indipendente al Senato ceco nel 2018, dopo aver corso come candidato per la Presidenza della Repubblica. In precedenza è stato ambasciatore a Parigi e membro dello staff del presidente Václav Havel. Ha studiato al Centre International Formation Chrétienne di Ginevra e alla prestigiosa École Nationale d’Administration (Ena) di Parigi.