L'incontro con Francisco De Roux (al centro)

Colombia. La verità in cammino

La paura delle domande, il bisogno di riconoscere come sono andate le cose, il perdono... Dialogo con padre Francisco De Roux, tra i protagonisti del processo di pace nel Paese devastato da un conflitto che sembra non finire (da "Tracce" n.10/2019)
Doris Soraida Barragan

«Come posso io giudicare una ragazzina che a nove anni è stata arruolata dalle Farc, ha imparato a uccidere a dieci, a undici è stata violentata e costretta ad abortire? Chi sono io? Se io fossi stato nei suoi panni, che fine avrei fatto? Questa è la verità». Padre Francisco De Roux, gesuita, dal 2017 presiede la Commissione per la Verità, l’organo cardine del processo di pace in Colombia. «Non è la Commissione per la Verità», precisa subito, «ma la Commissione per l’Accertamento della Verità. Cerchiamo di ricostruire ciò che è accaduto in questo Paese». Si riferisce agli oltre cinquant’anni di conflitto armato con i gruppi di guerriglieri, tra cui le Forze armate rivoluzionarie (Farc), i paramilitari, i cartelli del narcotraffico, l’Esercito di liberazione nazionale: una guerra che ha fatto 265mila morti e otto milioni di vittime, tra attentati, sequestri, omicidi, trasferimenti forzati, mutilazioni, reclutamento di minori, espropriazioni di terre.
I negoziati di pace sono iniziati nel 2012: anni di intense trattative sino al 23 giugno 2016, quando fu siglato l’Accordo di Pace all’Avana. Il 2 ottobre seguente, l’Accordo fu sottoposto a referendum popolare e, con sconcerto, vinsero i “no” alla pace. Il giorno dopo, De Roux scrisse: «Questo risultato può essere il cammino che ci porta a superare il più profondo dei nostri problemi, che siamo noi stessi: divisi, incapaci di essere insieme sulle questioni importanti, consapevoli che la nostra animosità e aggressività, che si esprimono nella politica, nei media, nelle famiglie, hanno conseguenze letali. (...) Dobbiamo accettare con realismo ed umiltà di cambiare. Siamo parte del problema e la crisi di oggi aumenta la nostra responsabilità di essere parte della soluzione».

Bogotà. Una delle manifestazioni pacifiche di quest'anno

Oggi che il delicato percorso è minacciato dalla ripresa di violenze e attentati, alla vigilia delle elezioni regionali, lui non si scoraggia. Ha studiato economia a Parigi e Londra, e ha dedicato tutto il suo impegno a progetti di sviluppo economico e sociale nel suo Paese, «ma sono convinto», dice, «che il problema della Colombia è spirituale. È una frattura dell’essere umano. Se non si lavora a questo livello, non ci sarà nulla da fare».

Padre De Roux, come è possibile affrontare una situazione così complessa e dolorosa come quella del nostro popolo?
Ho sempre pensato che i problemi della Colombia – vale per qualsiasi Paese, per noi in particolare – siano molto profondi. Il narcotraffico, il conflitto armato, il problema delle terre, il modo in cui siamo arrivati a diventare i primi produttori al mondo di cocaina... L’elenco è molto, molto lungo. E ognuno di questi problemi è profondo un chilometro. Cominciamo ad affrontarlo e, quando siamo scesi di cento metri, ci spaventiamo e diciamo: «No, lasciamo perdere. È troppo complicato». In questo modo, le cose non cambiano mai. Anzi, se non le affronti, le cose non rimangono come sono, ma crescono. I problemi si aggravano. Ovviamente fa paura, perché è pericoloso intervenire, ma è indispensabile farlo, se vogliamo che la follia non si ripeta. Per questo penso che una delle urgenze a livello educativo sia insegnare che, quando c’è un problema, bisogna affrontarlo andando fino in fondo.

Quale strada state percorrendo?
Aiutare il Paese a non avere paura delle domande e a dare un nome ai problemi. Per il nostro lavoro è un periodo di ascolto. Per esempio, faremo incontri pubblici per andare in profondità, facendo emergere le domande: non porteremo risposte, perché vogliamo studiare e ascoltare. Speriamo di poter dare qualche risposta nel dicembre 2021, quando dovremo presentare un rapporto, ma ora vogliamo fare domande, cercando di aiutare a non temerle. Questa è la prima cosa: guardare ai problemi con coraggio e senza paura.

In che modo ciascuno di noi può contribuire alla riconciliazione?
Con questa domanda sottolinei, giustamente, che la pace non è un problema dei governi, ma della società. Credo che dobbiamo cominciare a essere autentici con noi stessi. A riconoscere la nostra storia personale, con successi ed errori, luci ed ombre. Essere veri con sé e avere il coraggio di essere come un libro aperto: «Questo sono io, con le mie virtù e i miei difetti, con le mie illusioni e fallimenti. Questo sono io, che ho avuto il coraggio di perdonarmi». Abbiamo tutti qualcosa da perdonarci... Non avere il coraggio di riconoscerci come siamo comporta due limiti importanti: se non riconosco la verità di me, è molto difficile chiedere la verità all’altro; e se non imparo ad aver compassione verso di me e a perdonarmi, è impossibile farlo con gli altri. Tutti sperimentiamo il dilemma morale che solleva san Paolo: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio». È umano. Commettiamo errori, ma abbiamo una dignità assoluta: una dignità, dentro una fragilità immensa, che non viene distrutta quando sbagliamo. Siamo bisognosi. Io, che ho commesso molti errori, me lo ripeto ogni giorno: «Ma chi sono per giudicare, per affermare che l’altro è male, quando so che cosa ho fatto io?». Se ho bisogno di compassione per me stesso, come posso non avere compassione per un fratello? Senza sapere nemmeno in quali circostanze si è trovato ad agire, in quali difficoltà...

In che modo recuperare la memoria dei fatti accaduti contribuisce a ricostruire? Scoprire come sono andate le cose non aumenta l’odio e la violenza?
Il Paese ha negato la memoria dei fatti accaduti. Mentre accadevano, la maggior parte della popolazione ha girato lo sguardo altrove. C’è timore che la verità finisca per polarizzarci ancora di più, aumentando la voglia di vendetta. Certo, è facile scoprire come sono andate le cose e dire: «Guarda come sono cattivi, meritano di essere odiati ed esclusi, non devono essere parte di noi». Puoi usare la verità per dividere. Ma se la intendi nel modo giusto, è necessaria per comprendere meglio chi siamo e imparare ad avere compassione di noi stessi e degli altri.

Il cammino di pace è possibile solo se si arriva al perdono? E cosa significa oggi per voi perdonare? Anche lei ha perso tanti amici e collaboratori...
Sono convinto che il perdono sia un dono di Dio. Non accade naturalmente: né chiedere perdono, né perdonare. Sono entrambi atti di grazia. In questi anni, ho dovuto seppellire tanti amici. Ho imparato che chiedere di perdonare può essere a volte una mancanza di rispetto. Dobbiamo accogliere le vittime nel loro dolore, abbracciarle, ascoltarle fino in fondo, immedesimarci e accompagnarle: se offri loro un grande amore, può accadere che nel cuore emerga la decisione di perdonare, ma che è sempre, assolutamente, gratuita. Quando il perdono è vero, non ti aspetti nulla dal tuo aguzzino, come Dio fa con noi: ci dà il perdono come dono totale. Nell’Antico Testamento il peccato implica una colpa per cui bisogna pagare: nulla rimane impunito. Ma nel Nuovo Testamento, quando si manifesta la misericordia, il perdono toglie il castigo: Dio è assolutamente libero, perdona tutto. Il Signore ti chiede solo due cose: che tu ti penta e che ti apra alla misericordia. E poiché Dio non può perdonare in astratto, perdona attraverso di noi, perdona ricostruendo la persona che ci ha fatto male e ricostruendo noi stessi, riscattandoci come esseri umani.

Lei come lo vive?
Julián Bolívar, comandante del blocco centrale Bolívar, ha ucciso la mia amica Alma Rosa Jaramillo. L’ha uccisa con i suoi uomini, le hanno segato le braccia e le gambe con una motosega e le hanno tagliato la testa. Io ho detto pubblicamente a Bolívar: «Ti perdono». Perdonare è lavorare per la trasformazione di Bolívar nell’uomo che Dio vuole che sia, affinché si riscatti, perché quello che ha fatto l’ha distrutto come essere umano. Ma questo è già affare di Dio, è «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Lottiamo affinché coloro che ci hanno fatto del male possano cambiare come esseri umani. «Fate il bene a coloro che vi hanno fatto del male, pregate per coloro che vi hanno colpito»: questo significa mettersi sul cammino della riconciliazione. Sono cose molto profonde. Si entra nel perdono cristiano: «Ama i tuoi nemici». È arrivare a fare ciò che fa Gesù: «So che la tua situazione è molto difficile, è rischiosa. Ed io ho deciso di dare la mia vita per te». Di questo si tratta: la mia vita per la sua. Questo non lo puoi chiedere a un politico, né lo puoi affermare in un ambiente puramente sociale, perché non ti capirebbero. Ma questa è la testimonianza cristiana del perdono. Arriva fino a lì. E la giustizia transizionale si avvicina a questo.

Può spiegarci questo metodo della giustizia transizionale, che caratterizza il processo di pace?
A chi fa parte della Jep (Giurisdizione speciale per la pace) viene chiesto di partire dalla verità. La verità non deve limitarsi al fatto di assumersi le proprie responsabilità, ma è dire: «Vi dirò quello che ho fatto. Racconterò, nel caso di Alma Rosa, perché l’abbiamo presa, come l’abbiamo rapita, dove l’abbiamo portata, come l’abbiamo spogliata e violentata, come abbiamo tagliato il primo braccio, il secondo... e i motivi per cui l’abbiamo fatto. Sapevamo che era un avvocato che quel giorno stava per metterci sotto processo, ed è morta nelle nostre mani in questo modo, ed è per questo che l’abbiamo gettata in una palude, nel Magdalena Medio. Non è affondata, perciò l’hanno trovata...». Questo è il punto di partenza della Jep, devi dire una verità e dimostrare, oltre a questa verità, che sei disposto a riparare e a non farlo più. Se lo fai, sei accettato nella giustizia transizionale: avrai la libertà condizionale e dovrai riparare. Ma non sono io giudice a dirti come riparare: convocherò la famiglia di Alma Rosa, che ti dirà come riparare.

Può fare un esempio?
Prendiamo il caso degli undici membri dell’assemblea della Valle del Cauca, rapiti per cinque anni e uccisi la settimana in cui sarebbero stati consegnati. C’è già stato un atto in cui le Farc hanno chiesto perdono e le famiglie hanno perdonato, ma occorre la giustizia transizionale perché nasca una reale riconciliazione. E le famiglie hanno già deciso cosa chiedere: vogliono che ai responsabili sia assegnata una residenza coatta su un pezzo di terra nella Valle del Cauca, dove per otto anni – con le proprie mani e acquistando con le proprie risorse tutti i materiali – costruiscano una scuola per 2.500 studenti. Faranno i muratori e gli imbianchini. Questa è una delle cose più belle della Jep. Oppure, penso ai parenti delle vittime dell’operazione Genesis, che fu condotta dal generale Rito Alejo del Río con massacri e spopolamenti. Le famiglie gli hanno inviato una lettera: «Generale, la invitiamo a venire qui, a vivere con noi, a lavorare con noi».

Che una persona riceva l’abbraccio della misericordia nella sua storia, è una cosa dell’altro mondo.
È il lavoro più importante che bisogna fare, che le persone possano tornare a incontrare la fede. Credo che voi, come Comunione e Liberazione e per il vostro impegno educativo, possiate dare un contributo molto importante, perché questo compito richiede la fede: una comprensione molto profonda della fede. La fede non è un problema di religione, è un problema di “io chi sono”. In definitiva: qual è la consistenza della mia persona? Julián Carrón dice che si stanno perdendo le evidenze che ciascuno di noi aveva. Allora dobbiamo pensare a questo: se un uomo perde le proprie evidenze, come fa a costruire? Bisogna ricominciare da capo. Tornare a lavorare su questo, riconoscendo l’umanità di ciascuno di noi.

Con alcuni amici del movimento, da quattro anni andiamo in caritativa in un centro di riabilitazione militare, a trovare dei giovani soldati, mutilati e soli, perché le loro famiglie sono lontane. Toccare le loro storie è toccare con mano il Paese e ci aiuta a comprendere che la responsabilità che abbiamo è accompagnarli, perché possano riconoscere che, anche in queste condizioni, sono amati e la loro vita continua. Ma siamo noi ad essere aiutati da loro: restiamo ammutoliti nel vedere il dramma che vivono e la forza che continuano ad avere.
Mi fate venire in mente quello che il Papa ha fatto con noi, quando è venuto qui nel 2017. C’è un grave trauma culturale tra noi, dal quale nasce la polarizzazione. La quantità di vittime è così grande, in tutte le classi sociali, e il dolore è ovunque: questo genera indignazione, rabbia, desiderio di vendetta, che si diffondono via WhatsApp, Twitter, Facebook, in tv, sui giornali, nei discorsi dei leader politici, persino nelle parole dei sacerdoti a messa. Siamo tutti condizionati, siamo immersi. Un vero trauma. Il Papa se ne è reso conto e ha cercato di farci uscire, di andare oltre.

Come?
Alcuni Vescovi, nei discorsi che hanno rivolto a Francesco, non hanno mai usato la parola pace, perché non riuscivano. Lui l’ha usata sessanta volte. Dei quattro giorni in cui è stato qui, tre li ha usati per parlarci, e un giorno l’ha dedicato alle vittime, solo a loro, trasmettendo un messaggio che è come quello che mandate voi quando fate la caritativa. Ha detto: «Fratelli Vescovi, smettete di fare bei discorsi e di dare norme, pensando che dando norme la gente migliori e porti il Paese fuori da questa situazione. Mettete le vostre mani sul corpo insanguinato del vostro popolo: le vittime. Andate là, altrimenti non capirete». È quello che fate voi quando andate a trovare quei soldati.