Don Pigi Banna

Uno sguardo secondo il destino

Una «chiamata» che ti riporta alla tua origine. E un rapporto che chiede di essere alimentato da un presente, per «generare»… Don Pigi Banna, che segue i giovani di GS, racconta cosa vuol dire essere padre. E, insieme, figlio. Da "Tracce" di dicembre
Pigi Banna

Per quanto gli scaffali della nostra mente si possano riempire di consigli, libri e corsi sulla paternità, secondo diversi orientamenti ideali e scuole di pensiero, niente riesce a riprodurre in laboratorio l’irrompere di quel brivido che è come una chiamata. Parlo del brivido che ti percuote quando con lo sguardo, con la parola, oppure semplicemente con il suo primo vagito, un altro essere umano si rivolge a te, chiedendoti di essergli padre. Si può trattare di un ragazzo che prende l’iniziativa di chiederti aiuto su una fatica di cui non ha parlato mai con nessuno, o di un amico che ti cerca per fare chiarezza nel rapporto; quella persona si sta rivolgendo a te! È esperienza di vocazione indimenticabile, gratuita e per nulla anticipabile per quanto attesa.

È a questo primo appello, il quale presto o tardi irrompe nella vita di ogni uomo maturo, che bisogna sempre tornare quando si tratta di paternità, prima ancora di cercare conforto nel sapere di corsi e manuali d’uso, che insistono sulla rappresentazione di un ruolo di fronte al quale (non vergogniamoci di ammetterlo) saremo sempre inadeguati. Invece quell’esperienza di totale gratuità, che è l’appello di un figlio, è rivolta a te, riempie di promessa la vita tua e di chi, scrutandoti, ha riconosciuto proprio in te e cerca in te una promessa di vita per sé.



Un’occasione di memoria.
Guardando l’esperienza di questo appello alla paternità, ci si scopre pervasi da un desiderio di bontà, dal timore di non spezzare quella fragile domanda di vita che si schiude davanti a noi, ancora incerta e zoppicante. Quale uomo non desidera in tutti i modi voler bene a chi, inerme, lo chiama «padre» e si consegna a lui? «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra?», chiede Gesù nel Vangelo di Luca. Questo impeto di bontà si rivela l’occasione di una memoria rinnovata e grata della paternità ricevuta. Continua il brano evangelico: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste…». Di fronte a quella bontà accesa in noi, tutta la nostra meschinità passa in secondo piano e siamo sospinti a riandare con la memoria alla figura di chi è stato padre per noi.

Spesso, nella vita, è capitato di ritrovarsi addosso quel moto di attenzione per i nostri figli, per riconoscere finalmente e apprezzare tutta la paternità gratuita e silenziosa di chi ci ha generato e che non abbiamo avuto tempo di ringraziare, perché neanche avevamo i mezzi per rendercene conto.

La paternità, quindi, vista nel suo momento di appello, di vocazione, non è tanto richiamo all’interpretazione di un ruolo, ma anzitutto occasione di memoria grata di chi ci ha generato, di chi ci ha guardato con quello stesso moto di tenerezza con cui adesso ci troviamo inaspettatamente a guardare chi è più piccolo di noi.

L’esigenza di una rigenerazione.
La vocazione alla paternità nel suo momento così gratuito, emozionante e gravido di memoria, è, perciò, sempre frutto di un qualcosa che viene prima, di un’esperienza che in qualche modo ha travolto affettivamente la nostra personalità. Questo non vale solo a livello biologico, ma diviene ancora più evidente in chi si trova a vivere qualsiasi altra chiamata alla paternità (per lavoro o per le situazioni della vita). Per esempio, un insegnante non si è trovato dietro una cattedra e davanti ad uno studente per caso, senza che una qualche passione lo abbia condotto a quell’incontro.

È alla sorgente di questo “prima” che bisogna continuamente tornare per essere padri. È lì che occorre non solo riandare con la memoria, ma anche tornare ad attingere le forze per continuare a generare.

Rimane per me episodio paradigmatico di questa generazione nel presente quando per la prima volta mi fu chiesto di predicare il Triduo pasquale di Gioventù Studentesca, davanti a cinquemila ragazzi. Avevo solo trentadue anni ed ero prete da meno di due. Non potevo pensare di iniziare quella giornata senza chiedere a Julián Carrón, la guida di CL, di ricordarsi di noi. Lui mi rispose in un modo che mi ricorderò per tutta la vita: «Basta che ti lasci abbracciare da Cristo per trascinare tutti da Lui con te». Dopo quel messaggio, svanì ogni preoccupazione di essere “qualcuno” davanti a loro, ma si impose il desiderio di rispondere a quella Presenza davanti a cui Carrón mi aveva messo. Così le parole dette ai ragazzi facevano parte di un più grande dialogo dove ad essere generato, ad essere messo davanti a un Padre, ero anzitutto io.

Quanto più uno si trova a voler rispondere alle domande dei figli, tanto più la memoria grata è spinta ad identificare nel presente il padre del quale si vuole essere figli, quello sguardo a cui ricorrere senza paura di ricominciare sempre. Allo stesso tempo, ognuno verifica quanto la paternità a cui si riferisce nel presente lo genera nella misura in cui si ritrova più libero. Quanto più ci si riscopre figli di un padre nel presente, tanto più si spalanca la possibilità di non aver paura a rischiare un gesto di paternità, senza clericalismi autoritari o libertinismi disimpegnati.

L’apertura della libertà.
Si può porre un’obiezione a questa proposta, formulabile pressapoco con queste parole: «Ma c’è un momento della vita in cui si smette di essere figli di qualcuno e si è solo padri?». È il risvolto dell’altra, sofferta questione posta a Gesù da uno dei capi di Israele, Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio?».

È sempre possibile rinascere da un padre nel presente. Dipende tutto dalla grande alternativa con cui si concepisce la propria vita: una concezione autenticamente religiosa o una riduzionista di vario tipo (sociologico, psicologico, intellettuale, materialistico). Ogni uomo, anche il più anziano di questa terra, se crede di farsi da sé – concependosi, al massimo, come un prodotto di una o più delle componenti appena esposte – deve rassegnarsi all’idea che ormai si avvia alla fine dei suoi giorni, come ramo che tanto ha fruttato, ma adesso è secco e buono solo per far fuoco. Se, invece, riconosce che ogni istante della sua vita gli è concesso, si può scoprire proprio fino all’ultimo attimo generato non da sé, ma da altro, da un «Tu» che è paternità misteriosa e inesauribile, avvertita più e più volte dietro il volto dei tanti padri che lo hanno generato in vita: «Tam pater nemo», nessuno è così padre, scriveva Tertulliano.

Chi vive in questa posizione religiosa non smetterà mai di essere figlio, fino alla fine dei suoi giorni. Ed introdurrà i figli ad una paternità che è maggiore della propria: una paternità che dà libertà, espressa concretamente da quel rivolgersi al Padre che «sa più di noi di cosa abbiamo bisogno», che è preghiera.

La libertà è il segno distintivo di chi si scopre perennemente generato e che ha la sua ultima radice in una concezione religiosa della vita. Una libertà che è riconoscibile da due segni molto tangibili. Anzitutto, non si avrà timore di lanciare i propri ragazzi nel rapporto con questo grande e ultimo Padre, lasciandoli liberi, perché affidati alla cura di qualcuno più grande di noi che genera anche noi (cura spesso concretamente identificabile in figure più autorevoli di noi, a cui non siamo impediti gelosamente di rimandare chi ci è stato affidato). Inoltre, ad un livello ancora più personale, anche quando l’avanzare degli anni privasse di figure più grandi da seguire, si potrà vivere quell’esperienza – che ha del miracoloso – di lasciarsi generare da chi è più piccolo di te, magari da chi ti è stato figlio, perché ci si lascia generare da quanto il Padre eterno continua ad operare in lui.

Mi ha impressionato leggere che don Giussani, alla fine dei suoi ultimi Esercizi della Fraternità di CL (era il 2004, un anno prima di morire), dicesse davanti a tutto il “suo” popolo: «Questa lezione di Carrón è la miglior cosa che il Signore mi ha dato di capire in tutte le riunioni dei nostri Esercizi spirituali. […] È la cosa più bella che io abbia sentita in vita mia».

Un’esperienza di verginità.
Ritorniamo, allora, all’esperienza da cui siamo partiti, al momento gratuito e insostituibile della chiamata alla paternità. Un padre che abbia la possibilità di compiere il percorso che abbiamo descritto – che, cioè, nella tenerezza verso il figlio ricorda di essere generato, sente l’esigenza di tornare ad attingere alla fonte della sua generazione e più attinge e più scopre al fondo di sé il Mistero eterno che è Padre come nessun altro –, come risponderà all’appello del figlio? Il suo sguardo trapasserà gli occhi del figlio, sapendo riconoscere in quel piccolo mendicante il frutto di una storia di cui egli non è ancora cosciente. Il padre gli allargherà l’orizzonte, richiamando continuamente lo sfondo del destino buono che tiene per le mani il suo effimero istante.

Un esempio può far comprendere questa esperienza. Solo un vero padre, davanti ad una tappa fondamentale della vita del figlio (la laurea, il matrimonio, il diventare papà), vedendo quell’uomo che sta crescendo ha in mente anche il piccolo di 20-30 anni prima, come neanche il figlio stesso può averlo presente. E ne resta commosso. Eppure, un padre, che con le sue poche energie umane riesce ad avere uno sguardo su ciò che era quel bambino ora fatto grande, non potrà mai sapere cosa ne sarà di quell’uomo, quando lui non ci sarà più.

Questa esperienza limite accresce la commozione, che diventa affidamento di quel figlio, donato, al Padre che istante per istante ci guarda come Gesù ha guardato Pietro, Andrea, Giovanni, la Samaritana e tanti altri: riconoscendo in quell’effimero presente di uomo il bambino che era – ancora più del padre che l’ha visto nascere – e l’uomo che sarà. Si diventa partecipi dello sguardo di Dio; vale a dire, si ama l’altro secondo il suo destino – come spesso aveva a dire don Giussani.

Lo sguardo di un padre verso il figlio sarà perciò pieno di verginità, nella scoperta di avere a che fare con qualcuno che non è di sua proprietà, ma a cui solo lui è chiamato a rispondere. Quanto più ci lasciamo generare, tanto più potremo sperimentare nella nostra carne la verginità con cui l’Essere genera tutte le cose.



Pigi Banna (Catania, 1984) è sacerdote ambrosiano dal 2014. Laureato in Lettere classiche alla Statale di Milano, sta concludendo un dottorato in Teologia sistematica e Storia del Cristianesimo antico, per insegnare Patrologia nel Seminario di Venegono. Negli ultimi anni, gli è stato chiesto di accompagnare insegnanti e studenti di Gioventù Studentesca.