Marcos Vinicius. La vita in "maggiore"
L’incontro con don Pigi Bernareggi a Belo Horizonte e cinquant’anni di carriera con una domanda: cosa posso ridare di tutto quello che mi è stato donato? Il compositore brasiliano di fama mondiale si racconta in un'intervista su Tracce di maggioUn bambino di sette anni e mezzo cammina per una via di Congonhas, nello Stato brasiliano del Minas Gerais, a un’ottantina di chilometri da Belo Horizonte. È la via che fa spesso, da casa alla parrocchia, dove segue il catechismo. Ma stavolta si ferma davanti a un negozio che vende di tutto. Fagioli, aspirine, attrezzi… E una chitarra, appesa in alto nella vetrina. Siamo alla fine degli anni Sessanta, e questo è l’inizio della storia musicale di Marcos Vinicius, chitarrista classico e compositore di fama mondiale, esplosa con il Premio Villa-Lobos quando era giovanissimo, e che oggi riempie le righe del suo curriculum di riconoscimenti, premi, concerti in tutto il mondo, dall’Europa alla Cina. Gli studi all’Accademia Chigiana di Siena con il maestro Oscar Ghiglia, corso che fu di Andrés Segovia; presidente dell’Accademia di chitarra classica di Milano; testimonial della Fao dal 2010; premio Padre Pio nel 2015… La lista è lunga.
Tra un concerto e un evento, insegna all’Accademia Musicale “Praeneste” di Roma e tiene corsi per una scuola media della capitale. «Oggi, con quello che sta succedendo, faccio lezioni via Skype e lavoro a casa, tra esercizi, scrivere musica e libri». Non suona dai balconi: «Me lo hanno anche chiesto. Ma perché? Per dire che andrà tutto bene? Io voglio vivere il presente. E prego, anche facendo quello che devo fare». Come sempre nella sua storia: «Guardo la mia vita e tutto ciò che è accaduto. E che accade ora. Provo gratitudine. Da qui nasce la preghiera, anche mentre stai suonando. Puoi essere preghiera, riconoscere chi fa e di chi è l’istante, anche mentre insegni o parli con un allievo».
Cinquant’anni di carriera in questo 2020: «Tanti progetti ora sono saltati. Dovevo tornare in Brasile, per i festeggiamenti nella mia città. Avrei fatto di tutto per far venire anche don Pigi Bernareggi».
Perché uno dei pilastri di questa storia è proprio don Pigi, tra i primi missionari mandati da don Giussani a Belo Horizonte, che Vinicius incontra a metà degli anni Settanta. «Pochi mesi prima di quella chitarra nella vetrina era morto mio padre. Un grande uomo, dirigente di una compagnia mineraria». La mamma, maestra, arrotonda facendo dolci per matrimoni e compleanni, «per non far mancare nulla alla famiglia». Compresa quella chitarra: tre lezioni e qualche dritta da Dimas, il fratello della domestica, e poi gli studi dedicati.
A 12 anni, le lezioni le tiene già lui; a 14, il primo concerto. Nel frattempo, la famiglia si sposta a Belo Horizonte. «Suonavo e insegnavo, avevo di che vivere. Ogni mattina passavo davanti a un seminario, vicino all’Università. A volte rallentavo: “Io voglio suonare qui”. Non c’era un motivo, ma ne ero attratto». Un giorno si ferma: «Deve parlare con don Pigi, domattina», gli rispondono. «Non sapevo chi fosse, ma alle sette del mattino ero lì ad aspettarlo». Il concerto si fa. Don Pigi prepara succhi e popcorn. E si commuove a sentirlo: «Tutto questo è per il mondo, Marcos. Vuoi andare in Italia a studiare?», gli chiede il missionario. «Tutto pian piano ha iniziato a comporsi». Da un desiderio, fin da piccolo, di vivere in Italia, per delle foto viste sui libri di scuola, al padre di un allievo che si offre di finanziarlo: «Don Pigi mi organizzò un’audizione alla Chigiana, con Ghiglia. Dovevo suonare mezz’ora, ma dopo sei minuti mi mandò via. Quando tornai per salutarlo… “Dove vai?”. “Torno in Brasile, ma grazie lo stesso”. “No, ti ho interrotto perché non mi serviva sentire altro”. Ero dentro».
Quel rapporto, con Bernareggi, non si è mai interrotto: «Mi ha sempre seguito da lontano. E quando torno cerco sempre di suonare per lui, per le sue favelas. “Mi suoni Recuerdos de la Alhambra?”, mi chiede sempre». È più di un’amicizia Recuerdos, è un pezzo caro a Marcos. Lo suona spesso. Anche l’anno scorso, in Brasile, a un remake di quel concerto a Belo Horizonte per gli ottant’anni del missionario italiano: «Era in prima fila, vicino alla mia mamma, e piangevano. E piangevo anch’io». È un brano di Francisco Tárrega, che racconta la storia del compositore spagnolo, di quando pensava di dover abbandonare la chitarra perché non gli dava da vivere: «Un pezzo che parte triste, in minore. Pieno di nostalgia e malinconia per ciò che aveva vissuto e stava perdendo. Ma poi si apre in maggiore, tra gioia, pienezza, gratitudine. Perché è successo qualcosa. È arrivato un benefattore che riapre la partita. Quando lo suono, ho in mente solo questa frase: “È possibile! Adesso, qui”». C’è la vita, fatta di tristezza, paura, dolore, ma può entrare qualcosa che cambia la prospettiva, «da minore a maggiore». Cosa? «Per me è la presenza di Dio. In ogni passo della mia vita la riconosco. Anche nei momenti in cui ho toccato il male da vicino». Non dettaglia, ma da quel periodo, dice, nel 2013 nascerà una grande Ave Maria per cori misti che farà il giro del mondo.
«Tante opere vengono fuori proprio da quello che vivo. E spesso, quando le scrivo, mi sorprendo della loro bellezza. Mi gratificano, dentro ci vedo qualcosa che non ho fatto io, ma un passo nel mio cammino». Sono tanti i brani, gli album e le opere che ha scritto: «Tutto quello che faccio, anche i concerti, è come se fosse una nota che appartiene a più accordi. Risuona in quello che stai facendo, ma è già un inizio di qualcos’altro. Il giorno che non accadesse, rimetterei la chitarra nella custodia».
Racconta la sua vita come un fiume in piena. I concerti in decine di Paesi: «Sempre intensi, che si trattasse della Wigmore Hall di Londra, palco dei grandi della musica, o di quel capannone dove mi trovai pochi giorni dopo in Italia. Se avesse prevalso l’“artista”, me ne sarei andato… Invece, qualcuno mi aveva mandato lì, anche quella gente aveva bisogno di bellezza».
E poi le composizioni, quelle a cui è più attaccato: «Quelle per coro dedicate a don Pigi, per esempio, il Locus iste. Ma anche il Magnificat. E l’Agnus Dei, perché parla di Uno che ha dato tutta la vita per gli uomini. Ho sempre guardato don Pigi, come si poneva, come celebrava la Messa, come stava con i favelados, con tutti. E come ridonava la sua vita agli altri». Uno degli ultimi lavori è la colonna sonora di un film di un paio di anni fa, dedicato al pugile Nino Benvenuti, in cui «ho cercato di conoscerlo, di vedere, oltre al campione, la sua umanità, fatta di paure, dolori, fatiche».
«È l’umanità che mi interessa», dice: «E tutti hanno bisogno della bellezza che ho visto io». A volte qualcuno viene colpito da una nota, da una melodia. Magari si commuove: «È la presenza di Dio. E non serve spiegare, parlare della fede. Come sei tu, quello che vivi, il modo in cui suoni e la musica che esce dalla chitarra… Questo rende testimonianza». Si possono iniziare a fare concerti anche rinunciando al compenso, come il tour in vari luoghi sacri italiani Nel nome del Padre, un percorso nella sua storia: «Non lo fai se hai a cuore solo il successo. Certo, io vivo di musica. Ma il punto è: che cosa posso ridare di tutto quello che mi è stato donato?».
LEGGI ANCHE - Il numero di Tracce di maggio
Donarsi: è questo che accade quando suona. «Per gratitudine. E per riconoscimento dell’origine di tutto». Parla di “abbandono”: «Quando suoni, devi abbandonarti alla musica. L’aspetto tecnico o quello estetico sono strumenti. Non bastano, non sono quelli che “arrivano” al cuore di chi ascolta. E così per la vita: si può vivere come abbandono a Dio, a quello che ti dà nell’istante. Così puoi amarti come sei, anche quando sbagli». Per questo tutto può essere preghiera: «Le circostanze difficili, le scelte sbagliate e le porte chiuse sono date da Dio per farsi amare di più. Come se dicesse: “Vedi? Se fosse diverso, se andassi di là, ti perderei”».
È un abbraccio caldo, pieno di pace. Come in Recuerdos de la Alhambra, dice ancora, ricordando una volta che è stato da sua madre: «In cucina, mi sono messo a suonarla per lei. E si è messa a piangere: “Se solo tuo padre potesse sentirti”. “Ma lui è qui, adesso”, le ho detto». È un’eternità che irrompe «come se un’unghia spezzasse la linea del tempo».
Occorre la domanda, però: «Dio ti mette davanti segni e circostanze. Bussa. Devi lasciarlo entrare». Anche la bellezza che esce dalla chitarra: «Non è mia, non è nostra. Ma ti fa accorgere che ne hai bisogno». I bambini, quando hanno bisogno, sanno a chi rivolgersi, chiamano la mamma, il papà. «Da adulti ce ne dimentichiamo, pensiamo che basti la nostra razionalità, l’intelligenza, una capacità. Invece io ho bisogno di rivolgermi a Lui. Proprio come un bambino che ha bisogno di tutto». Lo stesso che guardava quella chitarra nel negozio: «A volte mi hanno chiesto perché ho scelto la chitarra tra tanti strumenti. Non l’ho scelta, lei ha scelto me. Anzi, Qualcuno l’ha scelta per me».