Austen Ivereigh

Austen Ivereigh. Ritorno al popolo

Il ruolo di Francesco, il cammino della Chiesa, la conversione personale… Con lo sguardo a un mondo in piena crisi. Un filo diretto (online) tra l’America Latina e il giornalista inglese, fra i principali conoscitori del Papa. Da Tracce di giugno
Veronica Pando

«È talmente improbabile che un inglese venga scelto in questo momento per comunicare con un Papa argentino…». Per il giornalista e scrittore britannico Austen Ivereigh è stato «un grande dono» la possibilità di intervistare Francesco in questo momento epocale. Non si aspettava quella «pietra preziosa», ovvero le risposte-audio del Pontefice alle sue domande, che lo hanno colto di sorpresa mentre piantava un gelsomino, durante la sua quarantena a Hereford, in campagna, vicino al confine gallese.
Ivereigh è autore della profonda biografia di Bergoglio, Tempo di misericordia, e della recente intervista con il Pontefice sulla pandemia (pubblicata da The Tablet, Commonweal, ABC e La Civiltà Cattolica). «Dovreste tenere voi questo webinar, conoscete il Papa meglio di me», ha detto alla decina di Vescovi argentini che il 22 aprile hanno partecipato all’incontro dal titolo “Il ruolo di guida di Francesco al tempo del Coronavirus”: un dialogo a distanza, tra lui e cinquecento persone sparse per l’America Latina, nato dall’amicizia con i curatori della mostra “Gesti e parole” del Meeting di Rimini 2018. Qui riportiamo ampi stralci della conversazione.

Come vede la guida di Francesco in questo momento? E dove ci sta portando lo Spirito Santo?
Penso alla preghiera in Piazza San Pietro, la sera del 27 marzo. Il Papa ha parlato della conversione, della necessità di confidare in Dio che è il Signore della storia. La «tempesta» è la metafora che ha usato: è un momento di apocalisse, nel senso che rivela cose che dobbiamo imparare. Mi sembra che nella sua lettura della crisi si possa trovare una somiglianza con i suoi scritti degli anni Ottanta sulla tribolazione, la rovina istituzionale. In ogni sofferenza, crisi, perdita di controllo, c’è un invito alla conversione: una grazia che Dio ci offre e alla quale è importante aprirsi per non perdere l’opportunità data. La guida di Francesco in tempo di Coronavirus è operativa: è come un direttore spirituale che ci indica dove sta la grazia della conversione. Ma gli ostacoli e le tentazioni ci possono chiudere la mente a questa possibilità. «Non perdiamo l’opportunità che la crisi ci offre», mi ha detto con insistenza nell’intervista. E com’è difficile parlare così, perché le notizie sono sconvolgenti, tanti i morti da piangere, e le persone che si sacrificano. E c’è anche tanta incertezza per il lavoro, la povertà che cresce. Parlare di «opportunità» può sembrare davvero una mancanza di sensibilità. Ma la leadership del Papa si concentra sulla sofferenza e su come rispondere a essa: questo è ciò che ci cambia. Ci mostra il nuovo orizzonte, la nuova società che può emergere. Soprattutto, io penso che non dobbiamo trasformare l’esperienza in un discorso: ci sono delle indicazioni che lui sta offrendo alla Chiesa in questo momento, su come “essere vicini”, non cedere alla tentazione di ripiegarsi su di sé, pur nell’attenzione necessaria per il contagio.

Alla luce del suo primo libro “Tempo di misericordia”, come vede il percorso del Pontificato? E cosa ha voluto trasmettere alla Chiesa e al mondo con il nuovo libro: “Wounded Shepherd”?
Non è stato ancora tradotto in spagnolo, ma sarebbe Pastor Herido (Pastore ferito). Il sottotitolo – Pope Francis and His Struggle to Convert the Catholic Church – è importante, provocatorio, perché si riferisce alla lotta del Papa per convertire la Chiesa. È dedicato a quanto ho imparato sul tema centrale del suo Pontificato, che non è la riforma istituzionale, ma la conversione. Inizio il libro con un piccolo mea culpa. Quando, pochi mesi dopo la sua elezione, ho scritto Tempo di misericordia, ero, come molti, profondamente impressionato da Bergoglio. Ho studiato la sua vita e mi sono reso conto che, in momenti chiave della storia, è stato un grande leader. Allora ho creduto un po’ nel mito del “supereroe” che arriva nella crisi e risolve le cose grazie alle sue doti personali, al suo genio. Non c’è dubbio che Francesco abbia le qualità di un leader, ma io ho ingigantito il suo protagonismo. Quando l’ho incontrato nel 2018, mentre iniziavo a scrivere il secondo libro, lui mi ha gentilmente messo in guardia da questa tentazione: non idealizzare il suo protagonismo, perché il protagonista della conversione e del cambiamento non è lui, ma lo Spirito Santo. Ho capito, come suo discepolo, che il suo ruolo è creare lo spazio per la conversione e le condizioni affinché lo Spirito Santo possa operare. Il nuovo libro è costruito su questa idea: che la gente possa imparare ciò che io ho imparato da lui. Il suo modo di essere un leader non è facile da capire, partendo da un punto di vista “politico”. L’obiettivo fondamentale del suo Pontificato è rimettere Gesù al centro. Rendere protagonista lo Spirito Santo e aiutarci a capire che il vero fattore dinamico del cambiamento è spirituale: ogni esperienza di vita, o l’esperienza storica che una società vive, è un’opportunità per rivedere le priorità. Nel libro mi occupo della riforma della mentalità vaticana, del passaggio dal “dominio” al “servizio”. In fondo, Francesco cerca una conversione ermeneutica: non pretende che la gente la pensi come lui, ma che possa vedere di più l’umanità, attraverso gli occhi del Buon pastore. Questo è il Vangelo, che non usa il potere per cambiare, ma cambia il nostro approccio, e così cambia tutto. Questo è il grande tema del Pontificato.

Durante l’emergenza, il Papa ha riferito di un Vescovo che lo ha corretto sulla “virilizzazione” della Chiesa. E ha detto che una «familiarità con Cristo senza comunità», senza Chiesa e sacramenti, è molto pericolosa, può diventare una «familiarità gnostica», separata dal santo popolo dei fedeli. Cosa significa?
La Chiesa in cui viviamo oggi, che io chiamo “Chiesa da casa”, è un’opportunità per sperimentare la Chiesa come popolo di Dio, simile a quella primitiva, che non aveva l’appoggio della legge e delle grandi istituzioni. Sappiamo dagli Atti degli Apostoli che la fede si viveva in casa, in comunità, come voi di Comunione e Liberazione. Ma allo stesso tempo, la Chiesa non può mai smettere di essere radicata nella presenza sacramentale, e nella presenza del popolo credente, della gente comune. Qualsiasi tentazione di creare una Chiesa borghese, più intellettuale o fatta di persone di buone maniere… sono tutti tentativi di creare una Chiesa pura o pelagiana. Non è la Chiesa di Cristo. Come ho azzardato goffamente nell’intervista, forse non è questo il momento per vivere la Chiesa come istituzione. E il Papa mi ha detto: «Ma non c’è nessuna contraddizione. La Chiesa è un’istituzione, ma il protagonista della Chiesa è lo Spirito Santo, che la istituzionalizza e la de-istituzionalizza al tempo stesso». In altre parole, l’oggi richiede una creatività pastorale. Stiamo già ricevendo come un grande dono dai nostri pastori la Messa quotidiana, le liturgie virtuali, e speriamo di imparare a usare questi mezzi per vivere di più la comunione. Ma, al contempo, questa non è un’alternativa alla Chiesa reale: è solo la risposta a una crisi. Poi torneremo a recuperare la corporeità e la sacramentalità della presenza del popolo di Dio attorno alla mensa Eucaristica, con il suo pastore. Così è la Chiesa, e sempre lo sarà.



Una questione centrale, fin dall’inizio del Pontificato, è l’ecologia integrale, insieme alla “cultura dello scarto”. Il Papa ha affrontato questi temi nel pieno della pandemia e li ha approfonditi nel cuore delle nostre ferite. Quale novità rappresentano?
Francesco parla di cambiamenti climatici estremi come conseguenza del degrado ambientale, perché abbiamo consumato e speso troppo. Per questo, sottolinea che è il momento di recuperare il nostro legame con l’ambiente, di renderci conto che siamo con-creati con la creazione. Se saremo consapevoli di questo dono, impareremo a rispettarci. È il momento di vedere cose che prima non vedevamo. Nell’ascoltare le sue risposte-audio, a un certo punto ho indugiato: la sua voce si è fatta molto pacata e, invece di leggere, perché aveva preso appunti, ho avuto l’impressione che il suo parlare fosse guidato dallo Spirito. Mi ha colpito. Ha detto: «Voglio fermarmi qui. Questo è il momento di vedere il povero. Perché noi non l’abbiamo visto, ci siamo comportati come se fossimo i padroni di tutto il creato». Per quanto riguarda l’ecologia integrale e la conversione delle nostre economie, perché siano più umane, vorrei suggerire di leggere quanto il Papa ha scritto ai movimenti popolari nel periodo pasquale (movimientospopulares.org). La pandemia ci sta insegnando che la nostra vita dipende da quelli che servono, pensiamo agli operatori sanitari, allora è tempo di riorganizzare le nostre società e le nostre economie secondo questa coscienza nuova: è un momento di conversione non solo personale, ma anche sociale ed economica. I governi occidentali hanno bloccato l’economia per salvare le vite, ma è chiaro che le conseguenze saranno difficili. Non potremo tornare al modello precedente. In quella lettera ai movimenti popolari, il Papa propone un nuovo salario universale, perché adesso occorre pensare a cose che prima erano inconcepibili. Abbiamo riposto tanta fiducia nel mercato e nello Stato. Ora è il momento di aprirsi ad altre forme di organizzazione socio-economica, più umane.

Francesco quale strada propone per l’America Latina, dove abita il 50% dei cattolici del mondo, che sono in diminuzione? Come vede la crescita degli evangelici?
La diagnosi di Francesco è quella che ha formulato ad Aparecida nel 2007. Nel mio libro, l’ho descritto come il discernimento più profondo che la Chiesa abbia mai fatto. La base del suo pontificato, l’enciclica Evangelii gaudium, è l’estensione a tutto il mondo del discernimento di Aparecida, che presuppone la globalizzazione e il progresso tecnologico non come qualcosa di cui pentirsi, o meramente da condannare, ma come un fatto di realtà che ha prodotto profondi cambiamenti, soprattutto nel nostro rapporto con le istituzioni. Le tendenze tecnocratiche stanno minando i legami familiari e dissolvendo i vincoli di fiducia e fratellanza. In questo contesto, è impossibile per la Chiesa continuare ad affidarsi alle istituzioni come modalità per trasmettere la fede di generazione in generazione. È tempo, forse, di recuperare il modello della Chiesa primitiva, che non dipendeva dalla legge o dal sostegno delle istituzioni, ma aveva un’esperienza da comunicare: l’incontro con l’amore misericordioso di Dio. È un’esperienza, non un’idea. Come hanno detto Benedetto XVI e don Luigi Giussani: è l’esperienza dell’incontro con una persona che cambia il tuo orizzonte. Quando comunicheremo questo come cristiani, la Chiesa crescerà di nuovo. Ma bisogna rendersi conto che la Chiesa può “perdere” molti fedeli lungo il cammino: fedeli per motivi culturali o istituzionali, più che per convinzione. La secolarizzazione è un’esperienza di “perdita”. Tuttavia, per Francesco è importante vedere cosa sta crescendo. E il Coronavirus accelera questa tendenza, ad esempio nell’impossibilità di andare a Messa: in questa crisi, l’invito è a vivere una vita interiore più profonda, nell’incontro con Cristo attraverso la preghiera. Penso che, soprattutto in America Latina, vedremo la famosa metafora della Chiesa come “ospedale da campo”, in mezzo alla povertà e alla disoccupazione. Molti si chiederanno, come nella crisi argentina del 2001: dov’è la Chiesa? Si è allontanata da noi? L’altro giorno pensavo che Bergoglio ha affrontato già una crisi fuori dal comune: il collasso economico dell’Argentina. È stato un pilota nella tempesta, ha mobilitato la Chiesa, e gli argentini non si sono dimenticati di come li ha accompagnati. In San Pietro, ha detto: «Questo è un tempo di scelta». Sia per la Chiesa sia per l’umanità, le scelte si presentano in modo piuttosto drammatico. Se si aprono allo Spirito Santo, usciranno da questa crisi molto più forti.

La “Gaudete et exsultate” solleva due gravi e sottili pericoli del cristianesimo contemporaneo: il pelagianesimo e lo gnosticismo. Il Papa come vede il ruolo dei movimenti ecclesiali nati dopo il Concilio Vaticano II, di fronte alla sfida culturale e storica di oggi? Sia san Giovanni Paolo II che Benedetto XVI hanno riconosciuto il loro grande compito.
Francesco apprezza molto i movimenti. Come ho citato nel primo libro, pensa che ci sia la tentazione dell’autoreferenzialità, che ci sia un certo pelagianesimo e, soprattutto, gnosticismo, nella tendenza borghese e intellettuale di credere che per essere un buon cattolico bisogna “essere dei nostri”. Un movimento cattolico deve tornare al popolo, ma in senso evangelico. Ispirato dallo Spirito Santo, ha un dono o un carisma speciale che deve mettere al servizio della Chiesa. Abbiamo visto diversi modi in cui i movimenti si rapportano con il Pontificato. Ma il futuro dei movimenti è sicuro.

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E come il Papa vede l’Europa?
Sono convinto che creda che il Vecchio Continente non sia più capace di rinnovarsi con le proprie forze. Perché l’attaccamento al potere è molto grande e la tecnocrazia si è sviluppata al punto da chiedersi chi sia il popolo: dov’è il santo popolo fedele a Dio? Quando l’ho incontrato nel 2018, gli ho chiesto perché ripone così tanta fede nel popolo. Mi ha parlato dei pellegrinaggi a Santiago de Compostela, della religiosità popolare in Europa, ma l’idea che la Chiesa europea possa essere rinvigorita alle radici da questa religiosità popolare è una chimera, a meno di un grande cambiamento, come quello che stiamo vivendo. Il Papa crede molto nell’enorme influenza dei migranti che provengono da luoghi dalla forte religiosità popolare, e non solo in termini di devozione, ma come esperienza di incontro con Cristo nella vita del popolo. È molto preoccupato per la mancanza di solidarietà e fraternità, che si manifesta anche in questa crisi nelle istituzioni europee. È solo ritrovando il legame con il popolo che potranno rinvigorirsi. La pandemia e la crisi economica sono questa occasione per l’Europa.