Nyuta Federmesser (foto: Press service of The Palliative Care Centre)

Nyuta Federmesser. Fare i conti con il dolore

Sua madre ha fondato il primo hospice in Russia. E lei, oggi, coordina una rete di centri per le cure palliative. Perché «una persona deve poter morire senza paura. E senza solitudine». L'intervista da "Tracce" di ottobre
Luca Fiore

«All’inizio degli anni Novanta la Russia era una nazione a pezzi. L’Unione Sovietica era appena crollata e tutti pensavano soltanto a fare soldi. Mia madre, invece, ha cominciato a parlare di carità, di misericordia, di qualità della vita e qualità della morte». Anna Konstantinovna (Nyuta) Federmesser racconta così la nascita del Vera Hospice di Mosca, il primo centro per la cura dei malati terminali fondato nel 1997 da Vera Millionshchikova, pioniera della medicina palliativa nel Paese. Quello della lotta al dolore, in verità, era un po’ un affare di famiglia. Il padre di Nyuta, Konstantin, è stato il fondatore dell’anestesiologia ostetrica sovietica, il primo medico, cioè, ad aver somministrato un’epidurale a una donna in travaglio.
Nyuta ha dato vita alla Fondazione che porta il nome di sua madre e che, dal 2006, oltre a trovare fondi privati per sostenere l’attività di nove hospice statali (di cui uno pediatrico) nati da quella prima esperienza, si impegna a diffondere la pratica e la cultura delle cure contro il dolore nel Paese.
Nel frattempo, divenuta un personaggio pubblico, oltre ad aver ottenuto una nuova legislazione in materia di farmaci antidolorifici, la Federmesser ha accettato un incarico pubblico, quello di direttore del Servizio per le cure palliative del Dipartimento della Salute della città di Mosca. «Se non fossi nata in una famiglia di medici, avrei pensato, come tutti i russi, che soffrire è una cosa normale. Passano gli anni, diventi vecchio e sei destinato a provare dolore. Invece è una forma di ingiustizia. E la medicina può e deve fare tutto ciò che è in grado di fare per alleviare la sofferenza».

Che cosa vedeva di diverso nei suoi genitori?
Mia madre non tollerava che le persone venissero umiliate, come spesso accadeva nella medicina sovietica. Assistere a certe situazioni le procurava una sofferenza fisica. Lei desiderava confortare il malato, farlo sentire a suo agio. Aiutarlo a vivere con dignità e amore. A un certo punto mi sono resa conto che non solo la sua umanità straordinaria incideva sui singoli casi, ma che il suo lavoro aveva una valenza culturale. Prima di allora, e troppo spesso ancora oggi, chi non poteva più essere guarito veniva abbandonato.

All'inaugurazione di un hospice a Mosca

Lei non è un medico, perché ha deciso di continuare l’opera di sua madre?
Ho studiato da interprete. Ma negli ultimi sei anni di vita di mia madre ho lavorato a stretto contatto con lei. Ero diventata le sue braccia e le sue gambe. Quando è morta ho deciso di continuare la sua opera che, per me, ha significato moltiplicare l’esperienza fatta nel primo hospice, e far sì che la cultura delle cure palliative venisse conosciuta da tutti. Perché le verità su cui è nata questa realtà ormai sono condivise in tutto il mondo.

E quali sono queste verità?
Che una persona deve poter morire senza paura, senza dolore e senza solitudine.

Che cosa è per lei la sofferenza?
Non può essere una specie di punizione. Anche quando, cristianamente, ne parliamo nella sua valenza di riscatto non la intendiamo in termini di male fisico, ma di male interiore. Oggi, per lo sviluppo a cui sono arrivate le tecniche mediche, la sofferenza fisica è diventata un’assurdità. Nella vita di chiunque c’è già abbastanza spazio per la sofferenza interiore. Il dolore fisico ti distrae dall’essenziale. Nella Liturgia ortodossa esiste una preghiera che dice: «Signore, donami una morte serena, senza tormento e senza dolore».

Lei, non essendo medico, non ha un rapporto diretto con i pazienti…
Niente affatto. Ce l’ho eccome. Il rapporto con il paziente non è soltanto una questione di antidolorifici: è contatto, comunicazione, aiuto a prendere delle decisioni. È essere accanto alla persona. Perché chi muore, anche se ha qualcuno accanto, è sempre solo di fronte alla morte. Allora bisogna aiutarlo ad attraversare questo passaggio. Noi, quando parliamo di “cure palliative”, abbiamo in mente un’équipe formata da un medico, un infermiere, un assistente sociale e un assistente spirituale, che può essere un sacerdote o un amico del paziente.

Perché è importante che sia così?
Noi parliamo di “approccio globale al dolore”, nei suoi aspetti fisici, psicologici, morali, sociali e anche finanziari. Perché, quando una persona si ammala, in un certo senso, si ammala tutta la famiglia. Soprattutto nel nostro Paese.

Perché questo?
Da noi non c’è la cultura di dire la verità sulla diagnosi. E questo – molto spesso – finisce per creare un vuoto attorno al paziente, che è un vuoto di comunicazione ma non solo. Tutti iniziano a mentire: il medico, la moglie, i figli… Si instaura un sistema di menzogna per cui nessuno è più libero di dire la verità all’altro. La verità sui propri desideri, i propri progetti. Oppure non si osa dire le cose che uno vorrebbe confidare prima che l’altro se ne vada. Il rischio è quello di non arrivare mai a riconoscere la situazione reale: «D’accordo, sto morendo, sto davanti a questa realtà e ci faccio i conti». Ci sono poi casi paradossali.

Ad esempio?
Ho in mente una donna di 89 anni, molto malata, stanca, di per sé pronta a fare quel passo. Ma i figli continuavano a supplicarla di non andarsene… Di non abbandonarli. Un ricatto affettivo. E, sembra impossibile, nonostante la situazione clinica, la donna non moriva. Non riusciva ad andarsene. E l’agonia si prolungava inutilmente. A noi tocca prendere per mano queste persone, malati e parenti, e aiutarli a spezzare la catena delle bugie e dei silenzi scambiati per amore. Bisogna imparare, da figli, a lasciar andare i genitori, così come i genitori hanno fatto con noi quando siamo cresciuti e siamo andati per la nostra strada.

E quando a morire è un bambino?
Tante volte gli adulti hanno paura di essere stati dei cattivi genitori. Il nostro compito è quello di far sì che le persone possano vivere pienamente quel tanto o poco tempo che resta da vivere. Cerchiamo di aiutare i genitori a intendere il tempo che resta non come “agonia”, ma come parte integrante dell’infanzia del figlio.

I suoi genitori sono entrambi morti. Come è stato per lei?
Li ho accompagnati tutti e due. Ero con loro quando se ne sono andati. È stata un’esperienza dolorosa, ma onesta. È stato importante essere riusciti a chiederci perdono e dirci che ci volevamo bene. A mia madre è lì che ho promesso che il suo hospice non sarebbe morto. Invece mio padre ha fatto in tempo a dire a mio marito di regalarmi spesso dei fiori, perché «le donne li amano tantissimo anche se non lo ammettono». Così, ancora oggi, quando mio marito li porta a casa, penso siano un regalo anche di mio padre.

Che cosa la aiuta a non far diventare il suo lavoro una semplice applicazione di procedure?
Da un certo punto di vista la routine è positiva: medici e infermieri conoscono ormai bene tutto l’iter, perché è tanto tempo che lavorano insieme. Eppure questo non impedisce loro di restare vivi dentro il lavoro. Per me invece è diverso. Io ho sempre bisogno di essere un passo avanti. Di buttarmi nel prossimo progetto. Ora, ad esempio, sto lavorando sulle case per anziani e gli istituti per pazienti con handicap fisici e mentali. Forse sono superficiale e dovrei concentrarmi su una cosa sola…

La Fondazione Vera è un esempio della vitalità della società civile russa. Lei, però, nel 2016 ha cominciato a lavorare per l’ente pubblico. Perché questo passo? Ne è valsa la pena?
La società civile in Russia c’è sempre stata e ci sarà sempre. Finché c’è la persona, la sua ragione, la sua anima, il suo senso di libertà, ci sarà sempre il desiderio di battersi per vincere l’ingiustizia. Ma le storture vengono da un sistema allo sfascio. Se si vuole porre un rimedio, occorre entrare dentro al sistema e collaborare con le istituzioni per cambiarlo. La nostra Fondazione si occupa di un problema talmente grave e serio che nessuno ha il coraggio di dire: «Non vale la pena aiutarvi». E i politici non osano tirarsi indietro. Io non sono una persona che si fa troppe questioni di principio e sono disposta ad andare da qualunque tipo di Governo, e – scusate il termine – “vendergli” il tema del dolore della persona morente. Soltanto un idiota potrebbe rifiutare la mia proposta: «Ho questa cosa, so come fare, non costa tanto, è una cosa per tutti, mi aiuti a farla?». Io, finora, nelle alte sfere, di idioti così non ne ho incontrati.

Però compromettersi fino ad accettare un incarico pubblico…
Non è stata una decisione facile da prendere, ma ne sono contenta. Nei circoli liberali, nell’opinione pubblica democratica, non è stata presa bene. Ma le cose vanno viste in modo capovolto, rispetto a quanto si è detto. Non sono stata io ad essere costretta nel meccanismo statale, ma come membro della società civile mi sono fatta avanti: «Guardate che noi siamo in grado di gestire questo servizio». E loro me l’hanno affidato. A me non piace chi protesta dicendo che le cose devono cambiare e poi, quando ha la possibilità di cambiarle davvero, di mettere le mani in pasta, si tira indietro. Certo, il timore è quello di trasformarmi in un burocrate: perdere la capacità di vivere la compassione. Ma le cure palliative non sono mai una procedura, un sistema. Sono l’attenzione alla persona. Se ti trovi di fronte a un paziente e alla sua famiglia e vuoi davvero aiutarli, devi calarti nella loro situazione. Se fai questo, se sai ascoltare, se hai compassione, non diventi una passacarte.

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Come la fede la aiuta nella sua vita e nel suo lavoro?
C’è una scrittrice che amo molto, e che siede nel nostro consiglio di Fondazione, Ljudmila Ulickaja, che ha scritto quello che io considero il miglior libro sul cristianesimo. Si intitola Daniel Stein, traduttore. Lei dice di sé di essere una volontaria cristiana. Anch’io penso di esserlo. Non desidero essere associata alla Chiesa istituzionale, alla gerarchia della Chiesa ortodossa russa. Sono una ribelle, odio le regole di cui non vedo un senso. Io sono cristiana, la mia fede è la certezza che la morte non esiste: c’è questa vita e quella dopo la morte. E noi passiamo da una vita all’altra. Sì, la mia fede mi aiuta: mi dà la certezza che non sono sola nel mio lavoro. Ma non vorrei che la medicina palliativa fosse connotata in modo religioso. È una cosa laica.