La Basilica della Natività a Betlemme

Pizzaballa. «L'attesa certa»

Il mondo immerso nella pandemia. Un Natale inedito per tutti. E «la grande domanda sull’incontro con Gesù». Parla il nuovo Patriarca di Gerusalemme. Da Tracce di dicembre
Alessandra Buzzetti

«La mia fede continua a intrigarmi e a disturbarmi. Quello che mi stupisce di più – in senso positivo – è vederlo accadere anche in altri. Non solo cristiani. Incontri che ti cambiano la vita». Monsignor Pierbattista Pizzaballa sorride mentre guarda allo stesso tempo indietro, ai suoi trent’anni in Terra Santa, e avanti, alla nuova missione che lo attende, come Patriarca di Gerusalemme dei latini. Un sorriso che esprime il realismo disincantato di chi conosce bene l’esperienza di una fede che esige carne, sangue, lotta, ascolto e pazienza, tanto più se la si vive nella terra dove è nato Gesù. «Pur tra tante ferite, è solo l’attesa certa di Qualcuno che viene a dare sapore e gusto alla vita».
La cittadina in cui tutto è cominciato, dove si è fatta carne la salvezza del mondo – «Caro cardo salutis», ricordava Tertulliano –, si prepara a vivere un Natale inedito. Non era accaduto neppure negli anni più duri del conflitto che a Betlemme non riuscisse ad arrivare nemmeno un pellegrino. «Sarà un Natale certamente intimo, ma forse anche per questo bello, per il fatto di ritrovarci insieme come comunità. Sarà l’anno in cui ripartire da noi».
La messa di mezzanotte del 24 dicembre vedrà anche l’ingresso solenne a Betlemme di monsignor Pizzaballa nelle vesti di Patriarca di Gerusalemme dei latini. Quando pensava che la sua missione in Terra Santa fosse terminata, papa Francesco gli ha chiesto di restare per guidare la piccola comunità cattolica sparsa tra Israele, Territori palestinesi, Giordania e Cipro.

Un Avvento che per lei comincia in modo non previsto. Cosa attende, nell’intimo, il suo cuore?
C’è l’attesa e ci sono le attese. Io ho dato la mia vita al Signore, e quindi il fatto che sia qui e resti qui va letto in questa prospettiva: il Signore che uno vuole incontrare, ma che non incontra mai definitivamente. Ogni Avvento, con l’invito alla vigilanza e alla conversione, ci pone – mi pone – davanti alla grande domanda sull’incontro con Gesù. Come faccio questa esperienza ora? La grande attesa dell’Avvento si declina in tante piccole attese. Alcune ti distolgono dalla grande attesa, altre, invece, ti pongono in questo orizzonte. Si tratta di valutare di volta in volta. Questo nuovo servizio che comincio come Patriarca nella sostanza non cambia molto il mio servizio; cambia il titolo, cambia, forse, la prospettiva di tempo... Penso che la prima cosa che debba fare è mettermi in ascolto del gregge che mi è affidato, un ascolto critico; e poi cercare di porre queste attese nella prospettiva della nostra relazione profonda con Gesù, capire come orientarle e orientarci verso l’incontro con Lui, che è il criterio fondante della nostra vita.

Nel messaggio che ha scritto alla sua Diocesi, nel giorno della nomina a Patriarca, ha scritto che «restare è il verbo dell’amore vero, quello che si impara nel Cenacolo e al Getsemani». Cosa significa, anche per le tante persone costrette dalla pandemia a restare chiuse in casa, isolate, senza sapere fino a quando?
Noi viviamo in una società che corre, che ha fretta, che vuole tutto e subito; si vogliono risultati immediati, forse perché si ha paura di dare tempo al tempo. Ho voluto leggere questo verbo, “restare”, tenendo presente il Cenacolo e il Getsemani, ma anche le perplessità e le paure dei discepoli dopo la Risurrezione, prima della Pentecoste. Il verbo “restare” lo leggo come il tempo della pazienza, non dominato dalla pretesa di possedere tutto. Occorre lasciare che il tempo ci faccia comprendere poco alla volta cosa stiamo vivendo e come lo stiamo vivendo. Circostanze come la pandemia, in cui si vive senza sapere cosa succederà tra una settimana, ci disorientano perché non riusciamo a dare profondità alle circostanze della nostra vita.



Entrare nella Basilica della Natività, di questi tempi, è un’esperienza che colpisce per il silenzio in cui si è immersi. C’è un vuoto a cui non siamo abituati, ma che forse aiuta a capire cosa sia l’attesa del Natale, e il suo riaccadere in ogni istante. Qualcosa di profondamente diverso da quel “tempo sospeso” con cui si è descritto spesso questo tempo di pandemia.
L’attesa non è un vuoto, è un pieno. È un modo in cui stare nella realtà. Vivere senza attesa e speranza significa non dare alcun contenuto alla vita. Bisogna capire cosa mettiamo in questa attesa. Chi e come attendiamo? La risposta cristiana è chiara: Gesù è l’attesa. Il cristiano la traduce, poi, nella sua vita ordinaria, in cui questa attesa è già una certezza ed è ciò che dà gusto e sapore alla vita. Dio si è già fatto carne e ne faccio già esperienza, anche se non piena e con tante ferite. Tutto dipende da come il mio cuore si dispone ad attenderLo e a cercarLo. Quando si attende qualcosa o qualcuno si è vigili, con tutti i sensi in allerta; e appena si vede un segno del suo arrivo, lo si nota subito. Se, invece, si vive addormentati, non si nota quello che accade intorno a noi.

E che arriva spesso come un “soffio”, quasi impercettibile…
Sì. Per questo occorre stare sempre attenti nell’aspettare chi vogliamo davvero incontrare.

Nell’esperienza dell’Avvento ci accompagna la profezia di Isaia: letta da Gerusalemme, il suo avverarsi sembra ancora lontano…
In Avvento leggiamo Isaia perché è il profeta della speranza. Isaia aveva davanti a sé un quadro desolante, una Gerusalemme distrutta. Quando dice: «Su questo monte non ci sarà più la morte», in realtà vede davanti a sé un monte pieno di morti. Tutto dipende dagli occhi con cui guardi la realtà. Sempre. Anche qui: se tu, davanti a questa città, vedi solo il presente così come è, con tutta la sua crudeltà, e non sei capace di andare oltre, di sognare, di darti una prospettiva e una speranza, ti fermi e non ricostruisci la città. La speranza ti permette di progettare e guardare avanti a partire da quello che già sperimenti nel tuo cuore.

Lei conosce molto bene e da vicino anche il mondo ebraico: cosa ha imparato dal loro modo di attendere?
Se c’è un popolo che vive di attesa, è il popolo ebraico. L’attesa del Messia naturalmente, che poi viene declinata, a seconda delle correnti e dei pensatori, in tantissimi modi diversi. È un popolo che ha saputo riempire questa attesa nella preghiera, nello studio. Non è un’attesa vuota di vita, ma piena di vita. Mi ha insegnato molto, perché essere sempre in attesa suscita tante domande su ciascun aspetto dell’esistenza. Le loro domande mi hanno aiutato molto a ripensare alla mia lettura di Gesù, del Vangelo e anche delle mie attese.

Il dialogo tra fedi è uno dei temi della nuova enciclica di papa Francesco, “Fratelli tutti”. Cosa significa vivere in Terra Santa la fratellanza di cui parla il Pontefice? Lei negli ultimi tempi ha più volte sottolineato che non è questo il tempo dei grandi gesti.
È vero, lo ribadisco. Non è il momento dei grandi gesti. Nel nostro mondo mediatico, si è sempre in attesa di grandi gesti che cambino il corso degli eventi. Non è questo il momento, perché per i grandi gesti c’è bisogno di visione, di carisma, di leadership che ora sembrano mancare. È il momento della semina e dell’attesa del frutto. La semina significa lavorare sul territorio con le persone, con le istituzioni, con chi desidera incontrare, parlare e ascoltare. Non avremo risultati immediati, ma è il nostro modo di vivere quello che dice papa Francesco, quando parla di fratellanza e fraternità. Siamo diversi, molto spesso non abbiamo né le stesse opinioni, né gli stessi orientamenti politici, ma condividiamo il bisogno di fare qualcosa insieme per la comunità in cui viviamo insieme.

L’incontro di Abu Dhabi – che il Papa ricorda più volte nell’Enciclica – sta aiutando la convivenza e la comprensione col mondo musulmano? E come?
Dobbiamo anche qui, ancora una volta, dare tempo. Cristiani e musulmani hanno sulle spalle un bagaglio di stereotipi, pregiudizi, fatiche reciproche. La storia ci ha consegnato un’eredità non semplice. Sono situazioni che non cambiano da un giorno all’altro. Incontri come quello di Abu Dhabi sono gesti importanti, perché aiutano a creare una mentalità. Nel tempo aiuteranno a far calare nelle nostre scuole cristiane e in quelle musulmane questo messaggio di accoglienza reciproca e di fraternità, ma non possiamo presumere che tutto questo cambi nel giro di pochi anni. Quello che dobbiamo fare è vivere quel messaggio nella nostra realtà del territorio, poco alla volta, nei passaggi generazionali.



Ci fa qualche esempio di frutti maturati dalla «lunga e paziente semina»?
Ho incontrato tantissime persone che, nonostante tutto, nonostante opinioni completamente diverse, sanno lavorare insieme. Faccio parte, per esempio, del Jerusalem Cultural Center, dove cristiani, ebrei e musulmani – israeliani e palestinesi, religiosi e laici con orientamenti politici differenti – fanno qualcosa insieme: come insegnare l’arabo ai dipendenti israeliani, perché possano interagire meglio col pubblico arabo, o rivedere i manuali scolastici, o aiutare nell’ottenere i permessi. Sono cose molto pratiche dove ci si ritrova, perché tutti apparteniamo a Gerusalemme e vogliamo fare qualcosa insieme. Facciamo anche degli incontri a Gerusalemme, tra religiosi cristiani, ebrei e musulmani, per leggere e discutere insieme alcuni passi biblici o della propria tradizione religiosa. Sono gesti semplici, ma non scontati in un contesto in cui la religione viene spesso usata come grimaldello per cercare uno scontro. Ci sono tante altre associazioni che promuovono iniziative simili, senza una prospettiva politica – e in questo momento è forse meglio lasciare la politica da parte –, ma con la consapevolezza di appartenere l’uno all’altro.

In trent’anni – lei ha detto – «la Terra Santa è cambiata moltissimo e sono cambiato anch’io. La mia fede è più disincantata». Cosa la fa ancora stupire, oggi?
La mia fede continua a intrigarmi e a disturbarmi (ride). Quello che mi stupisce di più – in senso positivo – è che lo vedo accadere anche in altri. Ho incontrato recentemente un’amica ebrea, religiosa, che avevo perso di vista e con la quale leggevamo insieme il Vangelo ai tempi in cui ero studente, all’Università ebraica di Gerusalemme. Quegli incontri di lettura mi avevano cambiato molto e ora scopro che hanno cambiato anche lei. Lei è rimasta un’ebrea osservante; ma da allora trascorre molto del suo tempo negli incontri interreligiosi, e adesso va anche nei villaggi arabi per comprendere meglio la loro situazione. Mi stupisce vedere come questi incontri ti cambino, ti mettano dentro una certa inquietudine, che non vorresti avere e invece hai: un’inquietudine che ti intriga e insieme ti mette a disagio, e che, però, forse è il modo più vero di stare a Gerusalemme…

Da Gerusalemme andrà a Betlemme il 24 dicembre, per celebrare la Messa della notte di Natale. Andarci fisicamente significa attraversare, ogni volta, il muro di separazione, scontrarsi con la legittima attesa di pace e libertà dei palestinesi. Ma si può essere liberi oltre quel muro?
Temo che la mia risposta suoni teorica, perché i palestinesi devono declinare questa attesa di pace e libertà nelle umiliazioni quotidiane al checkpoint, nei diritti che dovrebbero avere in quanto persone e invece sono sempre rimandati. E poi io sono italiano. Non vivo sulla mia pelle questa realtà. Devo cercare di immedesimarmi per quanto possibile, sapendo che non sarò mai né palestinese né israeliano. Devo ascoltare molto e diventare voce di questa popolazione. Allo stesso tempo, però, sento che devo richiamare la mia comunità a non vivere in rimando, ma a vivere pienamente – anche in queste condizioni – la nostra gioia e il nostro diritto alla vita. Con la crisi sanitaria ed economica acuita dalla pandemia è ancora più difficile parlare di speranza ai cristiani. Penso in particolare a quelli di Betlemme, che vivono dell’indotto del turismo e dei pellegrinaggi: dal marzo scorso è tutto fermo e alle famiglie manca il pane. Ma mi conforta vedere la fede semplice di tante persone, che nonostante tutto vogliono trovare il modo di fare festa, stare insieme aiutandosi l’un l’altro. Mi ha colpito, per esempio, quello che è successo ad agosto, quando il porto di Beirut è stato sventrato da un’esplosione e si è generata una situazione di emergenza in un Paese già al collasso. Come Chiesa, abbiamo voluto dare un segno di solidarietà ai libanesi. Le parrocchie più povere sono state le più generose. I giovani palestinesi della Cisgiordania – in maggioranza disoccupati e spesso senza i soldi per pagare le rette scolastiche – hanno raccolto, da soli, più di 30mila dollari. È una cifra enorme per loro. È un segno bello che dice che non sono ripiegati su se stessi: davanti al bisogno dei loro fratelli libanesi si sono aperti alla carità.



Sarà, per la piccola comunità di Betlemme, anche il primo Natale senza pellegrini.
Sarà un Natale certamente intimo. Cristiani di Betlemme e dei villaggi vicini. Ci siamo solo noi, ritroviamoci. Il Natale a Betlemme spesso ti distrae anche un po’, ci sono tanti bisogni, occasioni, gente da tutto il mondo. Quest’anno sarà l’anno in cui ripartire da noi.

Qual è il suo augurio di Natale a un mondo ripiombato nella pandemia?
Questa situazione ci sta insegnando che dobbiamo tornare all’essenziale. Ci siamo dedicati a tantissime cose e forse dobbiamo fermarci a chiederci cosa sia realmente essenziale alla nostra vita. Quello che mi sento di dire a tutti è che noi celebriamo una certezza, una realtà che è già in mezzo a noi: Gesù, che ha fatto irruzione dentro la nostra carne. Dobbiamo imparare a darci delle prospettive lunghe e fondare la nostra vita su quello che resta.

E questo fa superare la paura?
Avremo sempre un po’ di paura, perché siamo fatti di carne. Ma se diamo ascolto allo Spirito e alla vita eterna che è già in noi, allora la paura è perlomeno ridimensionata.


Monsignor Pizzaballa è tra i protagonisti de "L'attesa di Betlemme", un documentario di Alessandra Buzzetti, in onda domenica 20 dicembre, alle 11,30, su Tv2000. Un viaggio tra i cristiani di Terra Santa che si preparano al Natale in questo anno di pandemia.