Adrien Candiard

Adrien Candiard. Il conto è sempre aperto

Non è la fiducia in “speranze collettive” e universali. La fraternità è un’esperienza concreta, quotidiana. Il domenicano in Egitto si confronta con l’enciclica "Fratelli tutti". Da Tracce di febbraio
Alessandro Banfi

Un bigliettino scritto a mano, una lettera di poche righe. Lì dentro c’è un mondo nuovo, una rivoluzione che cambierà la storia, ma la cosa, direbbe Emmanuel Mounier, avviene «per distrazione». Sarà l’«effetto collaterale» di un gesto di vera fraternità. Illuminante anche per comprendere meglio l’ultima enciclica del Papa, Fratelli tutti, un testo che col tempo sta penetrando nella vita del popolo di Dio, lasciando senza grandi clamori il segno di una nuova coscienza. L’estensore del bigliettino è san Paolo, ma chi racconta questa storia con la passione dell’uomo del 2021 è Adrien Candiard, monaco domenicano di origine francese. Trentanove anni, una carriera giovanile alle spalle dedicata alla politica di alto livello, che lo ha messo a contatto con quella élite politico-finanziaria che conta nel mondo. Oggi Candiard vive al Cairo dove è membro dell’Institut dominicain d’études orientales. «Mi hanno chiesto di venire qui, e ho accettato», precisa. Si occupa di islam e ha scritto diversi saggi di spiritualità. Uno di questi, Sulla soglia della coscienza, è proprio dedicato al tema della “libertà del cristiano secondo Paolo”. Candiard unisce la precisione logica e linguistica tipica dei domenicani a immagini icastiche e in qualche modo giornalistiche. Con lui Tracce ha scelto di approfondire i temi dell’ultima enciclica, cercando di metterne a fuoco l’origine e allo stesso tempo individuare il compito che fissa per la Chiesa, in un momento particolarmente tragico della vicenda umana. Partendo da Francesco, il santo che ha ispirato il Papa, a cominciare dal nome.

L’ispirazione della “Fratelli tutti” viene da un episodio storico della vita di san Francesco d’Assisi: la visita al Sultano. Ci sono le crociate in corso, eppure il santo compie questo gesto. Scrive il Papa nell’enciclica: «Tale viaggio, in quel momento storico segnato dalle crociate, dimostrava ancora di più la grandezza dell’amore che voleva vivere, desideroso di abbracciare tutti. La fedeltà al suo Signore era proporzionale al suo amore per i fratelli e le sorelle». Mi colpisce molto questo inizio dell’enciclica, unito al ricordo dell’incontro di papa Francesco ad Abu Dhabi con il Grande Imam Ahmad Al Tayyeb. Per lei che cosa significa questa partenza?
A volte può sembrare che il dialogo sia un’attività cui dedicarsi in un tempo di pace. C’è chi pensa che in un tempo di violenza, di ostilità diffusa, il dialogo non valga, non sia neanche opportuno. C’è chi oggi mette in dubbio la necessità, affermata dal Magistero, del dialogo interreligioso, soprattutto tra musulmani e cristiani. Sostenendo che negli anni Cinquanta e Sessanta, in tempi di ottimismo, si pensava che con i musulmani si potesse dialogare... Invece adesso con il terrorismo, con l’esistenza di un islam radicale che ci minaccia, ciò sarebbe impossibile… quindi lasciamo perdere il dialogo. Il Papa, allora, che cosa ci dice? In un tempo di guerra, di crociate, che cosa ha fatto san Francesco? Non ha detto “lasciamo passare questo brutto periodo”… Proprio quando i tempi sono difficili, il dialogo è necessario. Il ricordo di questa avventura, un po’ folle, di Francesco d’Assisi è la memoria di un’azione profetica: proprio adesso abbiamo bisogno di dialogare.

Il “sogno di fraternità e amicizia sociale”, per citare le parole usate nell’enciclica, in qualche modo proposto al mondo, ha un’origine del tutto gratuita, che rovescia la cultura dominante. Il mondo di oggi sembra infatti dominato da una pratica di indifferenza, scarto, violenza, sfruttamento, tutte cose che l’enciclica mette bene in luce. Non solo il Covid, penso anche all’insurrezione di Washington per ribaltare il voto popolare e all’esplosione degli haters e delle bugie sui social… Se il pianeta avesse un titolo sarebbe l’opposto esatto: un “Nemici tutti”…
Proviamo ad andare a fondo di questa profezia francescana. Oggi possiamo vivere la nostra fede in uno spirito di concorrenza, di competizione. Che è poi lo spirito del mondo. Non per forza nemici ma concorrenti. Rimanendo alla sua immagine, direi piuttosto un “Concorrenti tutti”. Se pensiamo la fede cristiana come un’ideologia, ci mettiamo in competizione, rispettando il clima mondano. Abbiamo il problema di vincere. Magari in un mercato concorrenziale, come quello delle religioni. Dobbiamo vincere. Battere la concorrenza. Evangelizzare per vincere, per prevalere. Il nostro problema invece è che la vera evangelizzazione è il contrario esatto. Il contrario di mettere le mani su qualcuno. Il contrario di vincere una gara fra diverse squadre. Evangelizzare è dire all’altro: tu sei amato da Dio, nel Signore Gesù. Punto e basta. La missione della Chiesa è quella di essere fraterni con le persone, di annunciare l’amore di Dio.

La Chiesa si deve sottrarre a una gara identitaria, ideologica…
Sì, questo è il punto.

Le pagine illuminanti di “Fratelli tutti” sulla politica rendono evidente questo concetto. Nel recente “Il cielo sulla terra” (Lev), il Papa, dopo aver ricordato il sempre presente errore di Pelagio, in modo molto chiaro sottolinea bene questo aspetto. Scrive: «Il Cristianesimo infatti non ha trasformato il mondo antico con tattiche mondane o volontarismi etici ma unicamente con la potenza dello Spirito di Gesù risorto. Tutto il fiume di opere di carità piccole o grandi, una corrente di solidarietà che da duemila anni attraversa la storia, ha questa unica sorgente. La carità nasce da una commozione, da uno stupore, da una Grazia. Fin dagli inizi, storicamente, la carità dei cristiani diventa attenzione ai bisogni delle persone più fragili, le vedove, i poveri, gli schiavi, i malati, gli emarginati... Compassione, patire con chi soffre, condivisione». Non un progetto, un proposito più o meno moralistico, ma «il riflesso misterioso di una Misericordia».

Nel Novecento, il secolo passato, in particolare abbiamo avuto l’esperienza di momenti molto intensi di ricerca di soluzioni collettive contrapposti a momenti di ricerca di soluzioni individuali. Momenti di speranza collettiva alternati a momenti di speranza individuale. Oggi siamo probabilmente in un periodo più individualistico. Il Papa offre una terza via, che è poi quella della tradizione cristiana: quella della fraternità. Che non è cercare soluzioni astratte, ma praticare l’amore del prossimo. Non è né la ricerca di una riuscita individualistica, neanche spirituale. Né confida in grandi speranze collettive. L’amore fraterno è fecondo, produttivo. È l’amore vero, concreto, delle persone che cambia il mondo sul serio. In profondità. Non si tratta soltanto di cambiare le strutture, ma di evangelizzare i cuori. Questo può cambiare il mondo. Quello che dice il Papa sulla politica è questo, vecchio come il cristianesimo.

Una scena di ''Pierre e Mohammed'', lo spettacolo firmato da Adrien Candiard

Lei ha anche fatto politica, prima di entrare nell’Ordine domenicano, e adesso vive al Cairo… Personalmente come vive la fraternità? Come la riceve? Dove la vede in atto?
La fraternità non è la stessa cosa dell’amicizia. L’amicizia è il frutto di una scelta. Invece la fraternità ci è data, è costitutiva. Io la sperimento con i miei confratelli frati domenicani, innanzitutto, qui al Cairo dove mi hanno chiesto di venire. È come in una famiglia, nessuno chiede di avere fratelli o sorelle. Li troviamo e gli vogliamo bene, sennò la vita sarebbe impossibile. La fraternità è un fatto, un dato oggettivo. Lo vediamo bene in una famiglia, in una comunità religiosa. Quando il Papa riprende san Francesco, ricorda che questa oggettività riguarda tutti gli esseri umani e in special modo quelli in difficoltà. In certo senso la fraternità è un obbligo, ed è un fatto universale. Ma non astratto. È il compito di amare persone singole. L’esperienza umana è che la fraternità è una cosa difficile.

Il professor Francesco Botturi ha scritto su “L’Osservatore Romano” a proposito dell’enciclica: «La grande proposta di papa Francesco ha bisogno di fatti fondati che la incarnino e la Chiesa e le sue comunità non possono non entrare in gioco, cogliendo la “grande occasione storica di esprimere” la loro vocazione fraterna». «Fatti fondati», che ne pensa?
Dipende da cosa si intende con questa espressione. La fraternità non è fatta da momenti di cui abbiamo le foto, delle immagini da far vedere. Quando il Papa ad Abu Dhabi incontra il Grande Imam, compie un gesto profetico. Però la fratellanza non riguarda solo i leader, le istituzioni, i grandi fatti. Ma le persone concrete nella loro vita quotidiana. Si tratta di migliaia di relazioni interpersonali.

Sono proprio questi i «fatti fondati»…
La migliore incarnazione dell’enciclica non si farà attraverso grandi eventi, ma attraverso piccoli fatti fra le persone. Tocca a noi incarnarla giorno per giorno coi nostri prossimi e non aspettare che ci pensino le istituzioni.

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Che cosa è la fraternità vissuta? Il Papa fa l’esempio di san Paolo, a lei molto caro visto che gli ha dedicato il suo prezioso libro “Sulla soglia della coscienza”. Fra l’altro lei proprio in quel testo spiega benissimo come sia la sovrabbondanza della Grazia in Paolo a far superare la schiavitù. Insomma, tutto accade per l'iniziativa totalmente gratuita di Cristo…
L’esempio della lettera di san Paolo a Filemone è molto interessante proprio in relazione alla fraternità. Paolo scrive all’amico che aveva degli schiavi. Che per noi già suona come uno scandalo. Uno di questi schiavi, che si chiamava Onesimo, era scappato ed era stato battezzato proprio da Paolo. Il quale Paolo spedisce una lettera a Filemone, ma non gli dice: non si fanno schiavi! All’apparenza sembra deludente per noi. Pensiamo: «Una cosa andava detta, un cristiano non può avere degli schiavi»… Invece Paolo non lo dice. Perché non cerca di cambiare il mondo attraverso nuove regole. Ma san Paolo si rivolge a Filemone così: «Avevi uno schiavo, io ti rimando un fratello. Che cosa farai, lo sai tu». Lo invita alla fraternità. Vuole cambiare il suo cuore, chiamandolo alla propria responsabilità. San Paolo non ha organizzato un movimento contro la schiavitù. Ma con questo bigliettino mandato all’amico Filemone ha diffuso fra i cristiani una posizione umana che nel tempo ha portato alla fine della schiavitù. Ecco un esempio di fraternità.

È questa logica che vince il moralismo, cioè grazie alla quale la fraternità non è un tentativo moralistico dell'uomo che porta solo allo scetticismo…
Sì, perché il moralismo poi chiede sempre: che cosa è permesso? Che cosa è vietato? Cerca il limite. La fraternità è il contrario di questo. Con un fratello non abbiamo mai finito. Non possiamo dire: ho fatto il mio dovere. Questa relazione è sempre aperta. Il conto è sempre aperto.