Silvio Cattarina (©Archivio Meeting di Rimini)

Silvio Cattarina. Se guardi bene

«Anche se sembra che sia andato tutto storto, la verità di te non è il dolore». Su "Tracce" di Marzo, il fondatore della comunità terapeutica L’Imprevisto, accompagna ragazzi che vivono in modo estremo le grandi questioni di tutti
Anna Leonardi

«Il bene che un adulto fa a un giovane resterà per sempre. Ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo scende nel suo cuore e, quando è ora, tornerà su, per produrre frutti insperati». Silvio Cattarina non ha altre medicine che questa certezza per curare i ragazzi de L’Imprevisto, la comunità terapeutica che a Pesaro recupera minori con problemi di tossicodipendenza. A lui, che ne è il fondatore e responsabile, non manca il confronto con le dimensioni sempre più vaste del disagio giovanile. Come molti, usa espressioni dure per descriverlo: “male inedito”, “grido sanguinante”, “anime lacerate”. Ma in lui prevale quello che ha osservato in trent’anni di comunità e cioè che «la sofferenza è sempre un invito a risalire, a riscattarsi, a volersi bene». Glielo ha ricordato di recente Alessia, una ragazza di 17 anni, spezzata a lungo dalla droga e che, alle dimissioni, ha voluto dire a tutti: «È come se noi fossimo chiamati a soffrire così tanto affinché altri possano accorgersi e cambiare. Siamo chiamati a immolarci per tutto il mondo. Perché il mondo possa rinascere». Abbiamo incontrato Cattarina per capire cosa accade nelle sue comunità e cosa gli permette di stare davanti anche ai sentimenti più distruttivi dei ragazzi.

I tuoi giovani arrivano da condizioni estreme, pericolose. Ma tu sostieni che loro, in modo esasperato, mostrano le grandi questioni in cui si dibatte tutto il mondo giovanile. Qual è il motivo della loro sofferenza?
La paura. La paura dei ragazzi oggi è quella di non meritare nulla di tutto quello che la vita mette loro davanti. Non si sentono degni della chiamata di bene che c’è nella realtà. Hanno paura di non farcela. Hanno paura che il desiderio che hanno nel cuore sia cieco, cioè che non possa vedere e incontrare niente oltre sé. Per questo, spesso si sottraggono, scappano via. Sono come profughi da se stessi. Una volta il male era dell’uomo contro un altro uomo, ora il male è dell’uomo contro il proprio cuore. Ma, come ha detto Alessia, questo male è ancora un grido. Un grido di bene, di salvezza.



Oltre alla tossicodipendenza, oggi il disagio ha tante facce: il ritiro sociale, l’autolesionismo, la depressione… anche queste sono sintomo di quella stessa paura?
Dal mio osservatorio dico di sì. I ragazzi stanno male perché pensano che per vivere ci voglia forza, ma se la forza se la devono dare loro, allora è inevitabile che si sentano sconfitti. E a qualcuno devono farla pagare. Fosse anche a loro stessi. Noi adulti diventiamo decisivi affinché i ragazzi possano imparare a gridare, cioè a cercare il destinatario giusto, chi può rispondere al loro bisogno. Io ho in mente mia mamma che da piccolo mi diceva: «Silvio, ma cos’hai capito? Non devi essere bravo in mille cose, bravo in tutto. La vita ti chiede di essere bravo in una sola: avere un cuore grande». Poi aggiungeva: «Perché tutto quello che tu desideri, verrà grazie a questo». Lei, che era una donna semplice, mi liberava dalle mie ansie di prestazione. Mi metteva in pace. Perché la vita non è questione di riuscita, di attrezzatura giusta e quindi, ultimamente, di potere. Anzi, tutto il contrario, perché più mia madre mi diceva così, più io sentivo il mondo nelle mie mani.

Come accogli tu questo bisogno oggi?
Quando ho iniziato a lavorare con i ragazzi tossicodipendenti mi scioglievo come neve al sole davanti ai loro genitori. Mi dicevano, lapidari, frasi come: «Me lo sentivo che sarebbe andata a finire così», oppure: «Non ne usciremo più». Io mi ribellavo all’ineluttabilità che loro postulavano. Perché la cifra della vita non è il male, il dolore. La cifra della vita è un bene. Ai ragazzi ripeto sempre: «Anche se sembra che sia andato tutto storto, se guardi bene, la verità di te non è il dolore. Perché sei arrivato qui? Per un bene: per le lacrime di tua mamma, per la tenacia di tuo papà, per l’assistente sociale che ti ha guardato fino in fondo». Il bene è più grande, è di più. Il problema è che ora ci siamo abituati a vedere solo il male. Poter vedere il bene dentro la vita dei più sfortunati è la mia più grande fortuna, perché mi ricorda che se ce la fanno loro, ce la facciamo tutti.

Di che passi è fatta la strada per i ragazzi all’Imprevisto?
Quando uno arriva in comunità io non vedo l’ora di avvicinarlo e dirgli: «Aiutiamoci, stiamo attenti a vedere se c’è una grande cosa su questa terra che attende l’arrivo della tua persona… Tu sei la cosa più preziosa di tutto l’universo». Mi guardano strano. Ma è una rivoluzione nella loro testa. Perché qualcuno finalmente illumina tutta l’attesa che sentono dentro, le dà un nome e indica una strada. Noi non lavoriamo tanto sul passato, piuttosto sul desiderio di vita. I due incontri comunitari che facciamo al mattino e al pomeriggio hanno questo scopo: comprendere, cioè “tenere dentro di sé”, questo desiderio di vita.

Tu ripeti spesso che ai ragazzi vanno fatte richieste alte, addirittura eroiche. Cosa intendi?
Una volta Pasquale, un ragazzo napoletano, durante uno di questi incontri ci disse: «Ho capito che cosa fa soffrire. È avere una morosa che ami tantissimo e non sai dirglielo. Non sai dirle perché. E se non sai dirlo a lei, non sai dirlo neanche al mondo». Trovare le parole: è questo il lavoro vero che i ragazzi hanno bisogno di fare. E le trovano quando trovano il perché. È la loro richiesta a essere alta: vogliono amare ed essere amati, ma come fanno se non sanno giudicare quello che sentono? Io credo che a chi ha sofferto bisogna chiedere tanto, oserei dire il doppio. Non farlo sarebbe come non credere in loro, misconoscere il valore che sono.

Come si traduce nella pratica?
Devono trattarsi bene, avere cura delle cose, degli ambienti, lavorare bene, studiare bene. Io sono stato bocciato in terza superiore, e ho iniziato l’anno scolastico con una rabbia in cuore che non finiva più. Il primo giorno di scuola mi sono messo in fondo alla classe e per tutta la mattina non ho mai alzato lo sguardo. La professoressa di italiano finita la lezione mi dice: «Cattarina, mi accompagni lungo il corridoio perché desidero rivolgerle alcune parole». Poi, mentre la seguivo, mi dice: «Non pensi che non sappia cosa c’è nel cuore di un ragazzo che è stato bocciato. Si può sempre ricominciare. Desidero che lei affronti l’anno scolastico secondo il vero desiderio del suo cuore. La terrò sempre d’occhio. Perché io a lei ci tengo». Sono rientrato in classe che ero già cambiato. Il giorno dopo mi sono messo al primo banco e lei non ha più avuto bisogno di dirmi niente.

Non hai mai paura dei tuoi ragazzi, delle loro ricadute, dei loro sbagli?
Mia mamma, all’inizio della mia professione, mi chiedeva: «Non hai paura a stare con quei ragazzi?». Io rispondevo: «Sì, ce l’ho. Ma se sto con loro mi passa». Perché se stiamo in modo vero davanti a loro, la paura se ne va. E anche i fallimenti non ti impediscono di riavvicinarti a loro, di offrirti come aiuto. Quando è arrivato in comunità un ragazzo di 16 anni che aveva ucciso il padre, ho detto a un operatore che mi chiedeva come doveva accoglierlo: «Fossi tu, come vorresti essere accolto? Guardalo, tienigli gli occhi addosso, ma non staccare mai gli occhi da te stesso, dal tuo cuore». Solo così si può non avere più paura e si possono abbracciare anche situazioni terribili.

Massimo Recalcati ha scritto che «la domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza». Cosa significa essere testimoni per te?
Spesso i ragazzi mi dicono: «Quanto bene ci vuoi tu, Silvio!». Ma io li metto subito in guardia e dico: «Guardate che però non siete voi il mio primo interesse. Non siete quelli a cui voglio più bene. Perché io voglio più bene alla vita, al destino della mia vita. Voglio essere importante per voi, non per il bene che vi voglio, ma per come io vivo, per come io rispondo alla mia chiamata». Così ciò che guadagneranno qui dentro, non lo potranno ascrivere ai miei sentimenti, alla mia vivacità, ma sarà loro.

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Questo diventa un cammino anche per i genitori dei ragazzi che entrano in comunità?
Certo, durante gli incontri dedicati a loro, li invitiamo a compiere lo stesso cammino che dobbiamo compiere anche noi operatori. Dobbiamo fare quello che facciamo, non per i figli, ma innanzitutto per il nostro cuore. Cercare la bellezza di cui ciascuno ha bisogno. Io per lunghi anni ho sbagliato: tornavo indietro, mi spostavo sui ragazzi, sui loro bisogni particolari. Poi, ho capito che il più vero, il più povero, il più bisognoso di amore, dovevo essere io.

È così che ai loro occhi si diventa credibili…
È ancora di più quello che succede. L’ho capito alcuni anni fa, alla fine di un incontro del Meeting di Rimini. Ero intervenuto io e poi, a seguire, le testimonianze di alcuni ragazzi. Mariella Carlotti, che moderava il dialogo, concluse così: «I ragazzi dell’Imprevisto parlano con autorità perché hanno un grande maestro». E tutti immaginarono che alludesse a me. Invece, dopo una pausa, aggiunse: «Il loro maestro è l’esperienza». È l’esperienza che hanno fatto che li fa parlare così, che li rendi certi di ciò che vivono. E ce li restituisce autorevoli.