Dieudonné Nzapalainga sulla papamobile di Francesco a Bangui, nel novembre 2015 (Foto: © Gianluigi Guercia/AFP/Getty Images)

Nzapalainga. La mia pace

Il cardinale del Centrafrica, noto per il suo lavoro in mezzo alla guerra, sarà tra i testimoni del Meeting di Rimini. «Mi sento come Pietro che cammina sulle acque: quando smette di guardare Gesù, inizia ad affondare». Da Tracce di luglio/agosto
Luca Fiore

Una mattina un gruppo di ribelli della Seleka bussa all’arcivescovado di Bangui, la capitale del Centrafrica. La città è nel panico. Chi può fugge per mettersi in salvo. Ad accoglierli c’è l’Arcivescovo in persona. Imbracciano fucili e lancia granate. «Io sono l’arcivescovo Dieudonné Nzapalainga. Il mio compito è parlare di Dio e predicare la pace. È quello che faccio in questo Paese, con i vostri responsabili come con i vostri nemici. Adesso avete preso il potere. Avete avuto ciò che volevate. Non so perché siate venuti qui». Sarebbe bastata una raffica di kalashnikov e tutto sarebbe finito. Nota che uno degli uomini indossa un gris-gris, il tipico amuleto che spesso ostentano i musulmani. Il prelato fruga in tasca ed estrae il Rosario: «Guarda, amico: il mio gris-gris è questo. Ma fra il tuo gris-gris e il mio nessuno può dire quale sia il più forte». Rimette il Rosario in tasca e aggiunge: «Qui c’è la casa di Dio. Non voglio che il sangue scorra. Uscite! Fuori tutti!». Quelli prendono e se ne vanno. Dieudonné Nzapalainga, nato in Centrafrica 55 anni fa, è un uomo capace, da solo, di avere la meglio su un commando di ribelli.
Era il 2013, nel frattempo ha ricevuto la porpora dalle mani di papa Francesco. Nato in una famiglia poverissima, da ragazzino entra nel seminario della Congregazione dello Spirito Santo. Nel 2009 viene nominato amministratore apostolico della Diocesi di Bangui, i cui vertici erano stati azzerati dal Vaticano per diversi scandali. Il suo nome diventa noto in tutto il mondo quando, con l’imam e il pastore protestante di Bangui, invita il Papa a visitare il Paese. E Francesco, a sorpresa, accetta. È uno dei viaggi indimenticabili di questo Pontificato.

Religioso, vescovo, cardinale, uomo di pace e di ecumenismo. Chi è Dieudonné Nzapalainga?
Sono un povero, figlio di poveri, nato e cresciuto in un Paese povero. E su di me, come sulla Madonna, Dio ha posato il suo sguardo. Il mio nome porta due volte impresso questo sguardo: Dieudonné in francese significa “donato da Dio”, mentre Nzapalainga, in sango vuol dire “solo Dio lo sa”, che è anche la frase che mio padre ripeteva a tutti quelli che gli domandavano come mai gli era morto un figlio piccolo prima che nascessi io.

Un nome impegnativo.
Sì, ma anche una grande ragione per essere felice, perché la felicità la trovo in Dio, che mi ha dato tutto ciò che ho.

Il titolo del suo libro è La mia lotta per la pace. Che cos’è la pace per lei?
Quando si viene da un Paese in guerra, si capisce meglio. Per me la pace è ciò che sgorga dalla vita di Dio e, a noi credenti, arriva tramite suo Figlio. «Vi lascio la pace, vi do la mia Pace», dice Gesù. Ma lo dice dopo essere passato dalla grande prova della croce. Chi è Suo amico e gode del suo amore è chiamato ad amare a sua volta. La comunione nasce dal vivere della Sua presenza. Quando ci stacchiamo da Lui, la pace viene meno. E inizia la guerra.

Così come la descrive, la guerra non è legata per forza all’uso delle armi.
Sì, anche in un Paese che non è in guerra può essere lacerato. È il diavolo a portare la divisione. Essere diversi è un bene. Ma arriva un momento in cui occorre negoziare, arrivare a un compromesso tra le diverse posizioni. Altrimenti si rischia di girare a vuoto. Bisogna unire i cuori e le intelligenze, ma questo è impossibile se non ci si guarda in faccia e non ci si dice la verità. Solo così non prevale l’interesse particolare, ma il bene comune. Le armi distruggono e uccidono, ma anche le parole e i gesti sono in grado di allontanare la pace. Per questo occorre un processo di educazione per imparare a collaborare con l’altro, anziché tentare di schiacciarlo. E l’altro si schiaccia anche con le idee: c’è il mio punto di vista e conta più di quello degli altri. La tentazione è quella di usare mezzi violenti per imporre ciò che ritengo giusto, ma anche dal più piccolo può arrivare qualcosa di buono. Bisogna imparare ad ascoltare e essere capaci di vedere e valorizzare ciò che di buono c’è nell’altro diverso da me. Questo vale per ciò che accade in famiglia, in una comunità o in un intero Paese.

Il cardinale con il pastore Nicolas Guerekoyame-Gbangou (al centro) e l’imam Omar Kobine Layama (Foto: © Florent Vergnes/AFP/Getty Images)

Dice che la pace si costruisce sulla verità e con il compromesso. Ma si possono fare compromessi sulla verità?
Dipende da ciò che intendiamo per “verità”. Chi sono io per dire “io sono nella verità, l’altro è nella menzogna?”. È il buon senso che permette di intendersi tra diversi. Altrimenti domina la legge del più forte. Invece da chi è diverso da me può sorgere un’idea meravigliosa, che illumina la situazione. Lo Spirito soffia dove vuole e a noi sta seguirlo. Quando parlo di “compromesso” lo intendo in senso positivo: ciò che permette di raggiungere il bene comune. Ma dico anche che la verità viene prima di tutto. E per me la verità è Cristo. È Lui che mi permette di entrare in relazione, correggermi, immedesimarmi nelle ragioni dell’altro. Altrimenti non sono nella verità, ma cerco di imporre il mio punto di vista.

Perché è stato necessario collaborare con i leader delle altre religioni?
Prima parlavo del buon senso, ciò che è condiviso da tutti. Tutti sono capaci di intelligenza. Io non penso che lo Spirito Santo sia un nostro monopolio: soffia nel cuore e nella mente di chi cerca la verità. Per questo posso imparare dall’imam o dal pastore protestante. È Dio che illumina le menti. Quando nel 2013 è scoppiata la guerra e sembrava che si volesse usare la religione per giustificare la violenza, io, l’imam Omar Kobine Layama e il pastore Nicolas Guerekoyame-Gbangou ci siamo seduti attorno a un tavolo e ci siamo detti: dobbiamo salvare le vite di tutti. Abbiamo girato tutto il Centrafrica cercando di ricordare che la guerra non può essere mai giustificata con ragioni religiose.

Alla fine siete diventati grandi amici. Che cos’ha imparato dall’imam Omar e dal pastore Nicolas?
Dall’Imam ho imparato la grande semplicità. C’è stato un momento in cui l’ho dovuto aiutare ad abbandonare casa sua, che non era più un luogo sicuro. Sono andato a prenderlo in fretta e furia per portarlo in arcivescovado. Al momento di salire in auto, mi sono accorto che non portava niente con sé. Gli ho detto: «Prenda qualcosa, non sappiamo quanto durerà». È rientrato ed è uscito con in mano il Corano e la stuoia per la preghiera. Era ciò che riteneva necessario per vivere. Pochi giorni dopo la sua casa è stata depredata e distrutta. Dal Pastore, invece, ho imparato ad ascoltare la base, a decidere facendo sintesi rispetto alle esigenze della comunità. È una cosa che noi vescovi cattolici siamo poco abituati a fare.

Prima della guerra, ha dovuto gestire la grave crisi nella sua Diocesi. Anche quello, come lei racconta nel libro, era un campo di battaglia... Cosa aiuta l’unità nella comunità cristiana?
Gesù, venendo nel mondo, ha scelto degli uomini, con i loro limiti e peccati. E nel suo ultimo discorso, la Preghiera sacerdotale, dice: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi». Sapeva che l’unità non sarebbe stata automatica, che ci sarebbero state divisioni. E ha pregato. La preghiera ha la forza di unire i cuori. Per questo è importante che gli amici di Dio, quando si ritrovano, mettano la preghiera al centro del loro impegno chiedendo il dono dell’unità. Ma ciò che noi proviamo a fare va affidato, è Sua l’ultima parola, è Lui che può toccare i cuori e cambiarli. Il pastore è come un padre e una madre che attendono il cambiamento del figlio. È un grande lavoro e persino Cristo ha dovuto pregare il Padre perché questo avvenisse.

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Lei ha rischiato la vita per la sua missione. Nella sua autobiografia ripete più volte: «Non era ancora arrivata la mia ora».
Gesù ha avuto una grande determinazione e libertà nell’andare incontro al suo destino e donare la vita, il suo corpo, per la salvezza di tutti gli uomini. Lui dà la sua vita, perché ama. L’amore è apertura, è dono all’altro. Io ho avuto paura diverse volte. Sono stato in posti dai quali non sapevo se sarei tornato. Mia madre mi chiamava e mi chiedeva di non andare. Mi trasmetteva la sua paura. Un giorno le ho detto di non chiamarmi più e di pregare e basta. Quello è stato un punto di liberazione, sia per me che per lei. Perché la mia missione è il dono di sé, è la missione dell’amore e se si è abitati da questo desiderio d’amore si avanza con lucidità e determinazione. Cristo ha vinto la morte, la vita non finisce con la morte. È questa la verità che io desidero annunciare a tutti. Mi sento come Pietro che cammina sulle acque per andare verso Gesù, quando smette di guardarlo, inizia ad affondare. Io tengo lo sguardo fisso a Cristo, è questo che mi dà il coraggio, la forza, il dinamismo per andare avanti. Io sono solo uno strumento nelle mani di Dio per la salvezza degli uomini.