Boris Chersonskij (©Luca Fiore)

«Dio si è fatto uomo. Dire questo sarebbe già abbastanza»

Il nonno dovette bruciare i propri libri per evitare l’arresto. Lui ha dovuto aspettare la Perestrojka per rendere pubbliche le sue liriche. Già ospite al Meeting, il poeta ucraino Boris Chersonskij racconta la sua storia
Luca Fiore

«Qualcuno mi ha detto / che l’arte dei mosaici / non è altro che un gioco / un antenato del puzzle. // Strano perché a me / i primi mosaici cristiani / sono sempre sembrati / il tentativo più perfetto / di mettere insieme / il mondo frantumato». Boris Chersonskij è poeta, traduttore e professore di Psicologia clinica. È nato settantadue anni fa ad Odessa, sul Mar Nero. Ha sempre scritto nella sua madre lingua: il russo. Almeno fino al 2014, dopo l’annessione della Crimea e l’inizio della guerra nel Donbass, quando ha iniziato a comporre anche in ucraino. Gesto per il quale, non solo è entrato nella short list del prestigioso premio Taras Shevchenko, ma ha ricevuto minacce di morte e ha subito un attentato. Grazie alla Fondazione Josif Brodskij, è riuscito a lasciare la città, arrivando in Italia come hanno fatto tanti suoi compatrioti, portando con sé una piccola valigia e poco altro. Oggi è ospite a Civitella Ranieri, un castello in provincia di Perugia che promuove residenze per artisti da tutto il mondo. Siamo andati a trovarlo alla vigilia del Meeting di Rimini, al quale è intervenuto. E con lui abbiamo parlato di poesia, Ucraina, e di che cos’è, per lui, la «passione per l’uomo».

Perché è diventato un poeta?
È stata una spinta interiore. Tutti, o quasi tutti, iniziano a scrivere poesie da adolescenti. Ma col tempo smettono, per fortuna. Ma c’è qualche infelice che continua. E io sono uno di quelli. Sono sempre stato appassionato alla poesia, fin da bambino. Mio padre è stato un poeta. E anche mio nonno. Nessuno dei due ha avuto successo, anche perché erano tempi difficili durante l’Unione Sovietica. Mio nonno dovette bruciare tutti i suoi libri per evitare l’arresto. Ho trovato due sue piccole raccolte a New York, nella collezione di un emigrato di Odessa. Mio padre, invece, ha pubblicato due libri, uno negli anni Cinquanta, ai tempi di Stalin, ed era un libro ideologico, in cui raccontava la sua esperienza nella Seconda Guerra mondiale, dove fu ferito due volte. E l’altro uscì quando aveva ottant’anni.

E lei?
Non ho mai voluto celebrare il Partito comunista, né far monumenti al signor Brežnev o a gente come lui. Decisi che quello che scrivevo l’avrei lasciato nel cassetto. A dire la verità, una volta andai, su consiglio di un amico poeta ufficiale, a far leggere delle mie poesie a un editore di Mosca. Mi disse che erano buone, ma non potevano essere pubblicate, perché cercavano di nascondere qualcosa. Ed era abbastanza facile immaginare che cosa nascondessero. Mi suggerì di lasciare il Paese. Non ho seguito quello che ora ritengo un buon consiglio, visti i problemi che ho avuto con il Kgb e l’impossibilità, per me, di pubblicare opere scientifiche che mi avrebbero permesso di insegnare in università. Non è stato facile, almeno fino agli anni della Perestrojka.

Chersonskij al Meeting 2022 (©Archivio Meeting)

Che cosa nascondevano le sue poesie?
Non me lo ha detto. Ma penso si riferisse alle mie radici ebraiche e ai miei sentimenti cristiani. Io sono cresciuto in una famiglia atea di medici e i miei genitori hanno cercato di nascondermi le mie origini, ma non ci sono riusciti.

Perché?
Perché il regime era ufficialmente antisemita. Per dire: è per questo che non ho potuto iscrivermi subito alla facoltà di Medicina di Odessa. Ma questa avversione ha iniziato a farmi sentire ebreo.

E i sentimenti cristiani da dove le venivano?
Quando finalmente ho potuto frequentare la facoltà di Medicina, ho studiato Genetica e ho capito che la teoria di Darwin non valeva niente. Nello stesso periodo ho iniziato a leggere i Vangeli e parte dell’Antico Testamento, pubblicati prima della rivoluzione. Quando ho letto il Vangelo di Giovanni, dopo la prima pagina ho capito che quel che c’era scritto era vero. Così ho iniziato a cercare persone che mi mettessero in connessione con queste cose. E sono stato molto fortunato. Sono stato battezzato a 24 anni e il mio padrino è stato il direttore del coro ortodosso di Odessa. Era compositore di musica sacra, un uomo molto colto e affascinante. Come del resto sua moglie e suo figlio, che era un professore al conservatorio, appassionato di musica bizantina. E la musica sacra era una delle mie passioni da quando ero adolescente. Avevo imparato a memoria il Credo in latino: «Credo in unum Deum, Patrem omnipoténtem, Factorem cæli et terræ, visibílium ómnium et invisibilium…». Non conoscevo la differenza tra cattolicesimo e ortodossia. Ma ero diventato molto curioso, non potevo ascoltare quelle parole senza capirne il significato.

Però è stato battezzato nella Chiesa ortodossa.
Sì, nella Chiesa del Patriarcato di Mosca. Sono stato allievo di Nikolay Poltorackyi, che era stato segretario del grande Nicolaj Berdjaev, rientrato in Unione Sovietica da Parigi, e di Galina Kuznetsova, anche lei proveniente dalla comunità ortodossa francese. Il loro era un approccio molto ecumenico. Certo, conosco le controversie teologiche tra cattolicesimo e ortodossia, come l’esistenza del Purgatorio, che l’ortodossia non riconosce. Ma a me basta che esista nella Divina Commedia di Dante. Comunque, quando la Chiesa era perseguitata mi trovavo a mio agio. Da quando si è legata al potere politico e ne è diventata dipendente economicamente, mi sono allontanato un po’. E viste le ultime posizioni del Patriarcato di Mosca rispetto alla guerra in Ucraina, non posso esserne un figlio obbediente. Così sono passato al Patriarcato di Kiev. Detto questo, so che il capo della Chiesa non è un Patriarca o un Metropolita e nemmeno un Papa. Il capo della Chiesa è Cristo.

Ora che cosa sta scrivendo?
Io e mia moglie viviamo in un posto meraviglioso che si chiama Civitella Ranieri, in provincia di Perugia. È un castello del XV secolo in mezzo alla natura. La nostra vita è come sdoppiata. Attorno a noi c’è tutta questa bellezza, ma la mattina ascoltiamo le notizie che arrivano dall’Ucraina. Se dieci poesie sono dedicate a quello che di bello vedo attorno a me, cento riguardano la guerra.

Che cosa dicono?
Sono soprattutto sul rapporto stretto che c’è tra menzogna e violenza. Alcune sono riflessioni sulla Storia. Altre, ritratti surrealisti di Putin, che purtroppo è diventato l’eroe negativo di tante mie poesie. C’è anche il tentativo di dire che nessuna religione può giustificare la violenza. Certo, è lecito difendere se stessi e il proprio Paese. Ma l’aggressione non è, come ha detto Dmitrij Medvedev, una forma di difesa preventiva. Questa è una menzogna. Dare la vita per i propri amici è diverso che dare la vita per una bugia.

Qual è la cosa a cui un poeta non dovrebbe rinunciare per essere tale?
La sincerità. E la libertà. Se hai la preoccupazione di come verrà recepito ciò che scrivi, allora non sei un poeta. Una volta mio padre, quando ero ancora molto giovane, mi portò da un suo amico che era un poeta ufficiale e gli lesse alcune mie poesie. Quello rispose: «Prima di scrivere qualcosa pensa se potrà essere pubblicato. Perché se non è così, è qualcosa che potrebbe far male alla tua anima e metterti in pericolo». È un consiglio che non ho mai seguito. Un mio professore di letteratura provò a farmi entrare all’Istituto di Letteratura di Mosca. Io gli dissi: «No, grazie. È una vergogna essere un poeta in questo Paese».

Boris Chersonskij (©Luca Fiore)

Che funzione ha la poesia oggi? Ha ancora un ruolo sociale?
In Ucraina e in Russia, ma penso anche nel resto del mondo, la poesia ha perso il suo valore sociale. Ma conserva il potere dell’espressione di sé. Ha anche una funzione di comunicazione internazionale, in quella che io chiamo “la grande diaspora dei poeti”. Ma ciò che è più importante è che la poesia è un dialogo con la propria anima più profonda e con Dio. Le preghiere sono spesso poesie in rima, soprattutto in latino: (Si mette a cantare) «Puer natus in Bethlehem, alleluia. / Unde gaudet Jerusalem, alleluia…».

La sua poesia che preghiera è?
Venticinque anni fa ho tradotto in russo i Salmi, cercando di riprodurre la metrica dell’originale ebraico. Oggi la mia poesia è una preghiera per il mio Paese. Poi ho scritto diversi componimenti legati al Natale.

Perché il Natale?
È uno dei temi preferiti dei pittori e degli iconografi. E io spesso paragono il mio lavoro a quello di un iconografo che ripete sempre lo stesso soggetto, ma ogni icona è unica. C’è poi una poesia geniale di Borys Pasternak, La stella di Natale, che ha avuto un grande impatto su di me. Anche Josef Brodskij tutti gli anni scriveva qualcosa sul Natale.

Il titolo del Meeting di Rimini è tratto da un testo di don Giussani che dice: «Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo». Che cos’è per lei la passione per l’uomo?
Dio si è fatto uomo. E Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. E dire questo sarebbe già abbastanza. Occorrerebbe custodirlo. E io credo che nell’umanità ci sia sempre, anche quando è corrotta, l’immagine di Dio. Ho lavorato molti anni negli ospedali psichiatrici e guardare in questo modo mi ha permesso di entrare in rapporto con i miei pazienti, capirli meglio e anche imparare da loro. Ricordo il caso di una donna schizofrenica che aveva perso un figlio, morto cadendo da un albero di mele su una staccionata. Mi disse che il ragazzo era caduto dall’albero della conoscenza del bene e del male sulla barriera che divide la gente. Un caso tragico si è trasformato in una grande metafora.