Monsignor Paolo Martinelli il giorno del suo insediamento ad Abu Dhabi

Paolo Martinelli. «Per la vita di tutti»

«La missione non è eseguire un copione, ma seguire il Mistero». L’infanzia a Milano, l’incontro con GS, il dolore, la musica. E ora una nuova chiamata. Parla il frate cappuccino, nuovo Vicario Apostolico dell’Arabia meridionale (da Tracce di settembre)
Davide Perillo

«Guardi, mi rendo conto che qui c’è in gioco anzitutto qualcosa per me. E credo sia una cosa semplice, in fondo: la possibilità di conoscere di più il mistero di Cristo. Grazie alla scelta del Papa, posso scoprire di nuovo chi è Gesù per me». Alla fine, è l’unica cosa che conta. Perlomeno, è la cosa più importante per lui, monsignor Paolo Martinelli, 63 anni, frate cappuccino, già ausiliare di Milano e dal 1° maggio Vicario Apostolico per la regione dell’Arabia meridionale. Ovvero, tre nazioni (Emirati Arabi, Oman e Yemen) e una giurisdizione che copre 930mila chilometri quadrati e 43 milioni di abitanti. I cattolici sono più di quanto ci si aspetterebbe: poco più di un milione, il 2,3% della popolazione. Quasi tutti immigrati: Filippine, India, Libano, qualche fetta di Africa…
Un mondo nuovo per Martinelli, che prima di tornare a Milano, la sua città di origine, ha insegnato a Roma e lavorato a lungo in Vaticano (è consultore per la Vita consacrata e per la Dottrina della fede, oltre che consigliere del Sinodo dei Vescovi). «Del Medioriente conosco abbastanza la Turchia, dove c’è una presenza forte dei cappuccini e dove c’era monsignor Luigi Padovese (il vescovo ucciso nel 2010, ndr). Poi sono stato più volte in Terrasanta e in Egitto. Ma nella penisola araba, no».
La nomina è arrivata a sorpresa: «Mi sono chiesto: perché io? Ci ho messo un po’ a realizzare che quella sede è affidata ai cappuccini da un secolo». L’insediamento è avvenuto a inizio luglio, con un primo viaggio ad Abu Dhabi e la messa celebrata nella cattedrale di Saint Joseph. La partenza definitiva è stata ad agosto, poco dopo questo dialogo. Intanto, c’è stato il passaggio di consegne con monsignor Paul Hinder, svizzero, «uomo di fede e di grande saggezza: la sua presenza lì è preziosissima. In 18 anni ha accumulato un tesoro di esperienza spirituale, umana e di relazioni che per me è imprescindibile. Mi sta introducendo in tutto».

Com’è stato l’impatto?
Anzitutto, mi ha colpito la realtà sociale. Avevo in mente il Medioriente che conoscevo io, lì è molto diverso: 45 anni fa era solo deserto, e adesso ci sono infrastrutture enormi, accoglienti, pensate in modo intelligente. Hanno creato una realtà di interesse globale. Ed è un crocevia di culture: ci sono duecento nazionalità nell’area. Poi, certo, Dubai ha questo carattere maestoso, a volte sorprendente: l’albergo in cui puoi sciare, i grattacieli... Abu Dhabi mi sembra più a misura d’uomo.

E la Chiesa?
Ho trovato un’accoglienza commovente: i bambini che lanciavano i fiori, la presenza delle varie comunità… Un bel momento. È una Chiesa viva, partecipata. Pluriforme, composta da migranti che si portano dietro il loro patrimonio culturale e spirituale. La Chiesa lì raccoglie mondi diversi. Il Vicariato ha 17 parrocchie e 15 scuole, e sono due punti di forza.

Perché?
Le parrocchie sono un luogo di incontro fenomenale. A parte la domenica, dove ci sono messe una dopo l’altra, c’è la catechesi, il volontariato, una grande cura delle celebrazioni… Venendo dall’Occidente, la differenza fa impressione. È una Chiesa giovane, attiva. Mi ha colpito anche questa capacità di tenere insieme persone con culture diverse e in certi casi anche di riti diversi: oltre ai latini ci sono i siro-malabaresi, i siro-malankaresi, i maroniti...

E sono comunità che si integrano, hanno rapporti reali tra loro?
In qualche caso ci sono fatiche ancestrali. Ma l’indirizzo che ha dato Hinder è stato molto acuto. Se i fedeli sono di un certo rito, si cerca di dare la possibilità di celebrare secondo quel rito: ma i sacerdoti sono presenti per tutti. Non si tratta di assemblare gruppi diversi, ma di capire che siamo un’unica comunità, un’unica Chiesa. E lì è così: c’è gente che vive la fede come qualcosa che sostiene la vita. Fa impressione vedere al mattino presto la chiesa che si riempie di persone che poi vanno a lavorare...

Ma questa presenza interagisce anche con la società?
Direi di sì, soprattutto sull’educazione e sul dialogo interreligioso. Le scuole cattoliche sono molto apprezzate. In tanti casi, più di metà degli studenti sono musulmani. Vuol dire creare la possibilità di una conoscenza reciproca e di una crescita comune. Mi sembra un punto fondamentale in cui la Chiesa mostra la sua pertinenza con la vita di tutti.

E il dialogo, invece?
Negli ultimi anni sta crescendo tanto. Tradizionalmente il rapporto della Chiesa soprattutto con gli Emirati è molto buono. Siamo benvoluti. Per esempio, noi siamo in un compound di Abu Dhabi dove accanto alla cattedrale e alla casa del vescovo c’è una moschea ed è dedicata a Maria, Madre di Gesù: mi pare un grande segno di ospitalità. Poi, c’è stato il punto di svolta del febbraio 2019: la visita del Papa e il Documento sulla fratellanza umana firmato assieme ad Ahmad al-Tayyeb, il Grande Imam di Al-Azhar. Un evento storico. Ha lasciato un’impronta significativa, si capisce subito.

Una strada di Abu Dhabi

Da cosa?
Per esempio, si percepisce una simpatia forte per il Papa. È evidente, anche tra la gente. Mi è capitato di parlare con qualche autorità, e ti rendi conto che il gesto di Francesco ha fatto crescere la stima. Poi, certo, quel testo bisogna approfondirlo: e il fatto che sia stato firmato proprio ad Abu Dhabi mi fa sentire una forte responsabilità.

Perché?
Quelle pagine tracciano un orizzonte ampio per il dialogo religioso. Da una parte si sottolinea l’importanza di conoscersi meglio: rispettarsi a vicenda, capire che cosa crede veramente l’altro, al di là degli stereotipi e dei pregiudizi. Poi, la prospettiva del Papa è anche di chiedersi: attraverso il dialogo, che contributo possono dare le religioni a questo mondo per renderlo più umano e fraterno? Questa è la grande domanda.

E lei cosa risponde?
Secondo me è un percorso da fare concretamente. Non si tratta tanto di un dialogo sulle dottrine, che pure va fatto: occorre anche mostrare come ogni religione può offrire in concreto un contributo alla vita buona di tutti, al bene comune. Perché alla fine ogni religione è legata alla realtà umana: alle domande che ogni persona sente, alla famiglia, al lavoro… Questo è il lavoro da fare.

Ha visto accadere dei fatti che, in qualche modo, esemplificano questo dialogo partito da Abu Dhabi?
Ho incontrato gli ambasciatori e le autorità civili. Ci siamo messi a parlare della Fratelli tutti: ho trovato interesse in loro, anche in alcuni musulmani, per come il Papa relazioni la fede alla vita, per come consideri l’organizzazione sociale, l’economia, la vita a partire dalla fede. Erano colpiti. Ovviamente per loro è una cosa significativa: che la fede sia qualcosa che c’entra con la vita, nel mondo musulmano è evidente. Al punto da mettere un po’ in crisi il nostro mondo. Hinder lo ha sottolineato spesso: se guardiamo all’Occidente con le lenti della loro mentalità, ci rendiamo conto di più che la secolarizzazione e la privatizzazione della fede non sono risposte adeguate.

C’è un’espressione che le ho sentito usare, e che ha usato anche Hinder: «Lì la Chiesa è pellegrina». Che cosa vuol dire?
Una Chiesa di migranti, come quella, in qualche modo esprime una verità che è propria di tutta la Chiesa. Ed è la consapevolezza di essere pellegrini, cioè di abitare questa terra dentro un cammino verso un destino più grande, verso il compimento. Dovremmo tutti concepirci così. E attenzione: l’essere pellegrini non relativizza quello che stiamo vivendo. Al contrario: se io sto camminando e lo scopo ultimo è un compimento, vuol dire che ogni passo che faccio è in relazione ad esso, quindi è preziosissimo. Ogni istante che vivo ha un destino eterno. Ma l’altro fattore cruciale per una Chiesa dei migranti è che è anche una “Chiesa dalle genti”, come diremmo a Milano con le parole dell’arcivescovo Delpini. Cioè una Chiesa composta da tradizioni spirituali e da carismi differenti. La Chiesa ambrosiana è sempre più così. Ma è un altro dato che riguarda tutti: la Chiesa è tanto più se stessa quanto più riesce a rendere fecondo il dialogo tra le differenze che la costituiscono.

Nel Vicariato c’è anche una piccola presenza di CL. Qual è il contributo che una realtà come il movimento può dare in quel contesto?
Mi viene in mente proprio il rapporto tra la fede e la vita. Abbiamo bisogno di alimentare questo legame, di approfondire la capacità della fede di sostenere e rendere bella la realtà di tutti i giorni. Credo che il movimento possa dare un contributo su questo.

Lei quando ha incontrato CL?
A scuola. Io sono milanesissimo, famiglia borghese: abitavo in centro e l’infanzia l’ho vissuta tra il desiderio di spazi ampi e i palazzi di città. Quando ho potuto scegliere, ho deciso per l’istituto agrario a Treviglio. Facevo il pendolare all’incontrario: tutti venivano a Milano, e io ogni mattina prendevo il treno in senso opposto. È stato il mio primo modo di essere un po’ alternativo… Gioventù Studentesca l’ho incontrata lì, in terza superiore. Il primo gesto importante a cui ho partecipato è stato il pellegrinaggio del 1975 a Roma, per l’Anno Santo: la famosa Domenica delle Palme con Paolo VI. Io c’ero.

Che cosa l’aveva colpita?
Era un cristianesimo che c’entrava con la vita, aiutava a vivere.

E la vocazione? Quando è maturata?
È stato decisivo l'incontro con padre Emmanuel Braghini (frate cappuccino molto legato a don Giussani, ndr). Incontro casuale: cercavo un confessore, ho cominciato ad andare da lui e sono rimasto coinvolto. Ero all’ultimo anno delle superiori.

Che cosa la attirava?
Il suo modo di vivere. Aveva una capacità di affezione molto bella: libera e profonda nello stesso tempo. L’introduzione alla vocazione, per me, è stato proprio il fascino con cui lui celebrava la messa, pregava, incontrava la gente… Poi il tutto è coinciso con l’ultimo anno delle superiori: per me stava diventando chiaro che il motivo per cui avevo scelto agraria non era perché volessi fare il contadino, ma perché cercavo qualcosa di più ampio, capace di abbracciare tutta la vita. E questa cosa si è concretizzata nell’incontro con lui.

E don Giussani lo ha conosciuto da vicino?
Veniva spesso a confessarsi da padre Emmanuel, e quindi lo incrociavo lì in convento, in via Kramer. Poi ho frequentato la Cattolica, e ho potuto seguire i suoi corsi. Fondamentali. Dopo, da quando sono andato a Roma, non è più capitato di vedersi spesso. Anche se ho avuto la gioia di seguire per anni i ritiri dei Memores Domini, tenuti spesso da monsignor Giussani: di questa realtà mi ha sempre affascinato il rapporto profondo tra il Battesimo e i consigli evangelici (obbedienza, povertà e castità). A Roma poi è stato decisivo l’incontro con Angelo Scola, che ho avuto come professore.

Visto l’inizio, forse si aspettava una carriera accademica più che pastorale, no? La Gregoriana, l’Antonianum, la Lateranense…
Però appena sono diventato sacerdote mi hanno mandato a Cesano Boscone, alla Sacra Famiglia, l’istituto che ospita persone fragili e disabili. Ho fatto il cappellano per quattro anni, e mi trovavo benissimo: mi sono buttato a capofitto. Per esempio, ho cominciato a inventare canzoni per far cantare i ragazzi che non riuscivano a seguire la Messa. E le cantano ancora adesso.

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Ho visto che su YouTube si trovano due dischi suoi…
Tre. E sono nati tutti lì, sostanzialmente. Strimpellavo la chitarra e scrivevo canzoni anche prima, ma quella è musica pensata per coinvolgere i ragazzi: se parlavo, non capivo se mi capivano. Allora mi sono detto: proviamo a vedere se ci sono parole a cui corrispondono dei gesti che riescono a seguire. E assieme agli operatori abbiamo iniziato a scrivere l’atto penitenziale, lo scambio della pace, l’offertorio… Un lavoro appassionante. Lì per me c’è stato il grande tema dell’impatto con il dolore, che mi è rimasto dentro. Ho studiato questi argomenti anche dopo, ho fatto la tesi sulla morte in Von Balthasar. Il tema della malattia è una domanda molto forte, mi ha dato un certo imprinting. Anche nello studio, non ho mai avuto un’impronta intellettualistica. E mi aiuta pure nella vita pastorale.

Di questi anni a Milano cosa si porterà dietro?
Qui ho lavorato molto con la vita consacrata. Entrare in questo mondo è stata un’esperienza preziosa. A Milano ci sono 4mila suore e un migliaio di religiosi. E stanno crescendo gli arrivi da altri Paesi: anche nella mia comunità, metà dei frati non sono italiani. Come dice l’Arcivescovo, la vita religiosa milanese è una specie di laboratorio della “Chiesa dalle genti”. Ecco, questa consapevolezza di lavorare per una Chiesa che sa integrare idee e visioni diverse l’ho approfondita molto, qui. E poi, l’idea di valorizzare la dimensione carismatica della Chiesa – di cui la vita religiosa è un aspetto peculiare –, di riconoscere e dare valore ai doni che lo Spirito Santo distribuisce. È qualcosa che mi accompagnerà anche nella nuova missione.

Che cosa si aspetta per lei, lì?
Una nuova conoscenza di Cristo. È questo che desidero: vedere qualche tratto del Mistero che è possibile solo attraverso questa missione. Vorrei che per me fosse la possibilità di un nuovo inizio, nella fede e nella vocazione. Mi aspetto di convertirmi. La missione non è qualcosa da fare. Non si tratta di eseguire un copione, ma di seguire il Mistero.