Adriana Mascagni (Foto: Fraternità di CL)

All'origine del canto

«Non si usava nessuna canzone senza che ci venisse indicato il significato». Adriana Mascagni, in un'intervista a Tracce (novembre 1993) racconta come si cantava nei primi anni di GS e come sono nati i brani importanti per la storia del movimento
Renato Farina

«Qualcuna è nata di notte, in una di quelle notti dove vedi il tuo niente e gridi. Qualcuna è sgorgata piano piano e ce la trovavamo lì, più grande di noi, che però diceva la nostra esperienza, e non era mia o tua, era mia e tua, diceva la bellezza della nostra unità, come un miracolo». Adriana Mascagni racconta le prime canzoni del movimento. Si mostra stupita che qualcuno vada da lei a chiedergliene conto: sono come figlie che hanno camminato ben presto da sole. Cara Adriana, non sottrarti: tu sei autrice con Maretta Campi di Povera voce, e sei tu che ce l’hai cantata. E ci sono Miserere, Al mattino e poi ancora Non son sincera, La Pietra, Grazie Signore... Da quale vita sono nate? Adriana comincia: «Non so se sono canzoni: sono meno e sono di più. Sono punti espressivi di quel che ci accadde allora, agli inizi. E in ogni inizio c’è dentro tutto, come in un seme. Per questo, come le profezie, dicono ancora la verità della nostra esperienza oggi. Ma non voglio teorizzare. Preferisco dire che queste canzoni sono nate per fissare momenti di esperienza autentica, erano passi di una mia verifica che era una verifica comune». Che tempi erano quelli! Dice Adriana: «Scoprimmo che il cristianesimo era la cosa più bella, più grande, più vera, per ciascuno di noi in un contesto che stava crollando». Anche allora? «Ma sì. Era una facciata che si stava sgretolando. C’era un formalismo cattolico che non diceva niente alla nostra disperazione, era tutto dogmi, verità, doveri. Allora almeno sapevamo dare un nome a questa disperazione: era la noia, l’inconsistenza di tutto, si diceva “gioventù bruciata” e voleva dir tutto. Adesso questa disperazione non ha neanche nome... Comunque sia, a me è capitata una rivoluzione. Il cristianesimo era qualcosa di nuovo, esaltante».

Adriana racconta i suoi passi. Don Giussani era insegnante di Religione al liceo classico, una scuola privata, non il famoso Berchet. «Una mia amica mi disse: “Vieni con me a Gioventù Studentesca”. Non sapevo c’entrasse don Giussani. Ci incrociammo, entrambi sorpresi. Mi disse: “Che ci fai qui?”. Ed io: “Che ci fa lei!”. Per i primi tempi mi limitai a guardare. Osservavo e basta. Ero curiosa. Vedevo che era una realtà incredibilmente diversa da quella cui ero abituata, ma stavo sulle mie. Finché mi proposero gli Esercizi spirituali per la Settimana Santa a Varigotti, in Liguria. Ne avevo già fatti tanti. Mi dissi: questi sono gli ultimi. Furono i primi! Ebbi la netta intuizione che lì c’era la risposta esauriente a tutto e per sempre. Non poteva essere diverso il sapore della verità: tutto e per sempre; per me e per il mondo! È stato il momento dell’alleanza. Posso dirlo? Della conversione». E le canzoni? «Ci arriviamo. Io vengo da una famiglia di solide tradizioni musicali. Sin da adolescente componevo canzonette, che non erano poi male. Quelli di GS le ascoltavano volentieri. Finché andai alle prime vacanze, a Penia di Canazei, e don Giussani lo seppe e volle che intrattenessi con le mie canzonette d’amore la compagnia. Si valorizzava anche quella robetta lì! E mi chiese di cantare in chiesa, durante la liturgia, De la crudel morte del Cristo». E le tue canzoni che conosciamo? Come nacquero? «Un giorno ascoltammo a scuola un disco con le canzoni di padre Duval, che con padre Cocagnac, aveva inaugurato un altro modo di cantare a Dio: gli dava del Tu, con semplicità. Questo mi fece presagire che forse... Intanto, tra noi, in GS cantavamo le canzoni di montagna o quelle scout, come La Visaille e La traccia… Per le liturgie don Giussani ci insegnò i canti che lui aveva appreso in seminario come Vero amore è Gesù, O Cor soave. Arrivavano tra noi anche i Salmi nella versione musicale di padre Gelineau. Non si usava nessuna canzone senza che ci venisse indicato il significato. Scoprivamo che ogni parola, ogni sillaba, era madida di senso: era sempre tutto una scoperta enorme. Qualsiasi frase musicale ci veniva mostrata come espressione di un significato vissuto, amato, condiviso. Ecco: condiviso. Un’amicizia così, dentro il significato. Dentro questa comunione è potuta nascere Povera voce. È ritenuta quasi impossibile una creatività che nasca da più persone. Invece fu possibile. Io scrivevo già canzoni, e sapevo che Maretta Campi aveva un modo di scrivere espressivo e forte. Le chiesi se potevamo fare qualcosa insieme. Non fu una collaborazione esterna. Non è che lei scrisse le parole che musicai. Fu un modo di parlare insieme della stessa cosa: nacque così quella canzone». Povera voce non fu la prima canzone, però. «Alle vacanze di Costalunga, era il ’61, eravamo tutti insieme. Dissi che avevo scritto una canzone. La cantai. Sono andata avanti. Qualche volta da sola, qualche volta con Maretta e Guido Clericetti. Non è che dessimo tanta importanza a queste cose: si facevano, era bello farle insieme». Che canzone era? «”Mio Dio mi cercavi? Che volevi da me? Non ho niente da darti, non ho niente da parte per Te... ‘Offri a Me’”. Si intitolava Comunione. Mi avevano dato un’immaginetta, come si usava allora, con le parole di una poetessa francese. Le rielaborai».

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Eppure eri una ragazzina... Come purità poetica Il mio volto è straordinaria. «Ricordo perfettamente come andò. C’era un raduno. Era un brutto periodo per me, di crisi. Ricordo l’esperienza di quei momenti, dove arrivavano quelle parole. Ecco che cos’è una canzone, che cos’è un’ispirazione: è come vedere, c’è un momento in cui tu vedi. Allora esprimi: ma non esprimi qualcosa come fossero tue vaghezze, bensì è qualcosa come una testimonianza, come un riconoscimento di una evidenza, ecco».
Dicci di quel raduno. «Ero andata lì piena del mio vuoto, non avevo nulla, non ero niente. Sentii don Giussani parlare di Dio, di Cristo. Mi sono accorta che prendevo consistenza, che il mio essere prendeva forma mano a mano che il mio sguardo si posava lì. Ho appuntato subito quella cosa: quella sofferenza, e quell’accadere».