Giampiero Neri (Foto Luca Fiore)

Giampiero Neri. «La poesia non va a capo»

È morto lo scrittore lombardo. Su Tracce di gennaio 2018 aveva raccontato di sé e della sua opera, dei quarant'anni di lavoro in banca e di quel desiderio che il tempo non resti «oscuro, senza ricerca»...
Luca Fiore

Il professor Fumagalli «si era proposto come educatore di un gruppo di ragazzi, usciti malconci dalla guerra. Chi mancava di un piede, o di un braccio, ma al falegname che gli aveva chiesto se doveva fare dei banchi speciali, aveva detto: “No, faccia dei banchi normali, perché poi Lei mi darà un mondo speciale?”». Il professor Fumagalli è uno degli “eroi” dell’eccentrico mondo di Giampiero Neri, probabilmente il poeta più importante tra quelli di cui non avete mai sentito parlare.
Neri, classe 1927, che all’anagrafe fa Pontiggia (è fratello del romanziere Giuseppe e padre della storica dell’arte Elena), è un fenomeno tutto particolare nel panorama letterario italiano: la sua prosa poetica difficilmente troverebbe posto nelle categorizzazioni delle antologie scolastiche. L’opera di Neri, per nulla interessata ai sobbalzi interiori dell’animo dell’autore, è andata in una direzione fieramente opposta rispetto a quella dei suoi colleghi. Il che non ha impedito al poeta nato a Erba e milanese d’adozione di essere considerato un maestro. Dieci anni fa, compiuti gli ottanta, la Mondadori gli ha dedicato un Oscar con un’antologia delle sue poesie. Da allora non ha smesso di scrivere, torna in libreria con altri due libri: Il professor Fumagalli e altre figure (2012) e Via provinciale (2017), nell’anno del suo novantesimo compleanno.
Ascoltare la voce di Neri offre la possibilità di guardare la realtà da uno strano tipo di periferia (così come consiglia di fare papa Francesco): un mondo letterario che non appartiene ai salotti che contano e la poesia stessa, che è ai margini della comunicazione di oggi. Da qui le cose, se non meglio, si vedono indubbiamente in modo diverso. E inatteso.

L’hanno definita un “maestro in ombra”. Se dovesse dire lei chi è Giampiero Neri, che parole userebbe?
Uno scrittore, innanzitutto. Che scrive in prosa, ma cerca la poesia della prosa. E l’ha trovata in Manzoni, Tolstoj, Svevo, Melville... Lì c’è la poesia. Ma Paul Celan diceva anche: «Io non vedo alcuna differenza di principio tra una poesia e una stretta di mano». Dopo un’affermazione del genere, tutta la grammatica poetica va a farsi benedire. Non può essere quella cosa per cui a un certo punto si va a capo. È altro. La poesia non va a capo. È un momento soprattutto di verità. E chi scrive cerca la verità, la sua verità... Che non è poi così lontana. Ma non è sui libri, di storia soprattutto. Non è sui giornali. Non è nei discorsi politici. Lì ognuno tira l’acqua al suo mulino. Ma noi? Verso dove andiamo? Verso quale mulino? E da chi andiamo? E per che cosa? Per chi e perché?

«Delle figure e dei fregi si osservano sulle ali delle farfalle e in altre specie diverse ornamento e difesa insieme, simili a cerchi e disegni detti anche macchie ocellari, sono una varietà di mimetismo l’immaginario occhio di Dio che guarda»
(da Armi e mestieri, 2004)


E lei come la cerca questa verità?
Io ho fatto l’impiegato di banca per quarant’anni. Avrei voluto occuparmi di etologia, che è lo studio del comportamento degli animali. È affascinante. Sono stato un lettore precoce di naturalisti come Jean-Henri Fabre. Le sue sono pagine anche di poesia, perché sono illuminate da un certo senso di trascendenza. Osservando gli animali ci avviciniamo all’idea di creazione. Lì avrei cercato la mia verità. Ma purtroppo dopo il liceo ho dovuto iniziare subito a lavorare.

Come è arrivato alla scrittura?
Tornavo a casa la sera e mi veniva da piangere a pensare che il tempo passasse solo per sostentarmi. Sa, l’uomo non vuole morire, come dice Puskin nell’Evgenij Onegin: «Vuole lasciare qualcosa che di sé attesti». E anche io mi ribellavo a questa idea di un tempo oscuro, senza ricerca. Quindi ho cominciato a scrivere.

Che cosa ha capito di sé attraverso la sua opera?
Hemingway, autore che io non amo, aveva fatto leggere a sua moglie uno dei suoi ultimi libri in cui parlava di Parigi, Festa mobile, un romanzo, nel quale si racconta di alcuni autori: c’è Ezra Pound, James Joyce... Lei gli disse: «Ma tu non ci sei!», e lui rispose: «Io ci sono di rimbalzo». Potrei rispondere la stessa cosa. Io pensavo agli animali. Pensavo agli altri. Non ho puntato i riflettori su di me. Pasternak diceva: i fanali del treno sono indirizzati verso la strada, non verso i vagoni. Non ho nessun interesse per la psicologia che, in fondo, ci è ostile, perché chiude. L’idea antica di “tempio” era quella di limitare la divinità nel sacro recinto. Ma Dio non è nel tempio. Lì lo celebriamo, per non farlo per strada. Ma Dio è dappertutto.

In che senso la psicologia “chiude”?
Studia se stessa, si avvita attorno a sé. Per dire: io passo per la strada e un bambino mi dice: «Come sei brutto!». E a me dà fastidio. Eppure dovrei dire: «È un bambino, cosa ne sa?». Invece ci rimango male. E questa è la psicologia. La religione ci porta all’oggettività, la psicologia no. Ma quello che conta sono i fatti.

E dai fatti che cosa scopre?
La necessità del male, ad esempio. Gesù si rivolge a Giuda e dice: «Quello che devi fare, fallo presto». E Giuda era stato scelto nei dodici, non erano dodicimila. Si potrebbe dire che Gesù, nello sceglierlo, è stato poco psicologo. La verità è che la figura del traditore era necessaria alla Redenzione. Noi siamo partecipi di questo male. È un mistero. Siamo partecipi del male, quindi non dovremmo considerarlo come un mostro. Si chiama peccato...

Il male sarà necessario, ma non aiuta la ricerca della verità.
Il punto è la continua ricerca del bene. Non possiamo accettare il nostro errore come definitivo. Guardi il buon ladrone, è l’unico a cui Gesù dice: «Oggi sarai con me in Paradiso». È una cosa che non dice neanche a sua madre. Il ladrone è un condannato a morte, quasi certamente per reati gravi. Eppure in lui c’è questa ricerca, fino all’ultimo respiro.

Prima diceva che la poesia non va a capo. Che cosa intende?
È un portato del Novecento, che è stato un periodo di disastri e che, proprio per questo, ci ha dato la libertà di pensare che certe regole non davano la misura di quello che volevamo. La poesia non può più stare nella struttura formale. È qualche cosa di misterioso, perché se sapessimo in anticipo che cos’è arte, tutti potrebbero scrivere poesia. Ma così non è. È un mistero. Non è la rima che fa la poesia, non è la quantità di sillabe che fa la poesia. Se no sarebbe stata arte anche quella del Gazzettino Padano: «Anche per oggi abbiamo finito prego la rima buon appetito».

La poesia non è nelle rime, ma Dante la fa nascere dalle rime...
D’accordo, ma sono passati settecento anni. Nel frattempo abbiamo continuato a scrivere, a pensare, a cercare l’arte. E continueremo a farlo.

I critici notano della sua poesia «l’abbassamento dell’io lirico, la tendenza alla prosasticità, il procedere oracolare». Giorgio Luzzi la definisce «il meno obbediente dei poeti italiani ai ricatti della tradizione lirica».
Sì, mi hanno sempre trovato originale.

Alessandro Rivali, il suo biografo, dice che il suo scrivere è «reticente».
Sì.

Che cosa c’è di non detto nelle sue poesie?
È come nell’iceberg, quello che emerge è la punta. Ma i quattro quinti non si vedono. Le faccio un esempio: Lucio Fontana ci mostra la sconfitta della pittura, dell’arte. Ma lo fa creando una nuova opera d’arte. Sembra una contraddizione ma non lo è. Le parole sono il nostro mimetismo, quindi bisogna rispettarle, perché dicono molto di più di quello che dicono. Uno scrittore fa una scelta di parola, non dice una parola... Cerca quella adatta. Il Parini scrive della poesia «che sol felice è quando/ l’utile unir può al vanto/ di lusinghevol canto». L’utile. Qualcosa che serva alla vita. Diceva il teologo ebreo Jacob Taubes: il mondo non è stato fatto perché un paio di intellettuali ci si dilettino. È l’utile che cerchiamo, è la verità.

Utile, verità, poesia. Sembra un triangolo impossibile da immaginare.
È attraverso queste parole, la poesia, che raggiungiamo un utile. È il mistero del Vangelo. Perché è così affascinante? Perché c’è un utile. «Va’ e non peccare più». «Va’», gli dice. Non c’è una condanna, c’è uno sprone a continuare. L’importante è la prima parte della frase. Si potrebbe dire che la seconda è contenuta nella prima. È un invito, un’esortazione. Questo è l’utile. E sono parole, parole di vita. E anche Lui parlava di verità: io sono la via, la verità e la vita. Ecco cosa sono le parole.

Sta scrivendo qualcosa di nuovo?
Sì, l’ultimo lavoro riguarda Lord Jim di Joseph Conrad. È un personaggio difficile da definire: sfuggente, fisicamente prestante, bello. C’è qualcosa di oscuro nella sua vita, che ha a che fare con l’onore perduto. Lo stesso Conrad, figlio di un eroe dell’indipendenza polacca, in patria era considerato un traditore, perché aveva lasciato il Paese e aveva iniziato a parlare e scrivere in inglese. Lui non affronta questo tema. Ma nel suo lavoro c’è. E io dico: chi è Lord Jim? Penserei che Conrad avrebbe voluto dire dal profondo del suo cuore: «Lord Jim sono io». E invece lui, nell’introduzione, scrive un’altra cosa: «Era uno di noi». Conrad ci butta addosso questa verità. Ecco, questa è poesia. Non è questione di bearsi di qualche assonanza. Lì c’è qualcosa che squarcia il nero del mistero della vita. Lord Jim è un mistero che resta attraente.

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In che senso?
Io l’ho scritto in una poesia: perché è così bella la tigre? Poteva essere ripugnante, una macchina per uccidere che colpisce alle spalle, pur avendo molta forza. La natura non ama il combattimento leale, ama la sopraffazione. La tigre è forse l’animale più bello. Eppure è spietata, non ha alcun commercio con noi, non c’è nessuna possibilità di intesa. È un nemico.

Dice che il male ci affascina? Quindi non stiamo parlando di animali...
No, no (ride).

Che cosa ha di più caro oggi Giampiero Neri?
(Lungo silenzio). Non so. Potrei dire certi ricordi famigliari. Il professor Fumagalli. Persone gentili. O persone che mi hanno voluto bene. Altro non saprei. Io penso di essere stato caro a... Ma certo, Dio è nostro padre, quindi... Ecco, tutto questo amore verso la mia persona che mi ha investito dall’inizio: mia madre, mio padre, i miei fratelli, mia moglie, i miei amici. Ho avuto molto dall’amicizia, dalle persone gentili verso di me. La gentilezza era al centro del Dolce stil novo. La bellezza della gentilezza. L’arte della gentilezza. Di amore si parla sempre, ma di gentilezza no. Invece sarebbe una cosa da riscoprire, come una nuova categoria di rapporto. Forse la gentilezza potrebbe salvare il mondo. Perché è propedeutica a tutto il resto, a un altro modo di essere e di vedere.


Da Tracce, gennaio 2018