Enzo Jannacci (Foto Ansa/Farabola)

Enzo Jannacci. La ferita che ho nel cuore

Cantante milanese, è morto il 29 marzo di dieci anni fa. Una vita tra musica e ospedali. Raccontata sempre, attraverso le sue storie. Lo avevamo incontrato un anno prima della morte, durante un incontro a Portofranco (da Tracce, gennaio 2012)
Paolo Perego

Non lo diresti mai. Due occhi piccoli piccoli. Sempre schiacciati fra le palpebre. Ci sono facce che sono così, con il sorriso scolpito. Ecco, non diresti mai che quegli occhi così piccoli dietro gli occhiali, possano vedere così tanto. Osservare, guardare. Presi da tutto quello che incrociano. Tutto. Marciapiedi, tram, volti, espressioni. Eppure è così. Lo dice lui stesso, Enzo Jannacci. Settantasei anni e qualche acciacco, dopo una vita a visitare pazienti, ma anche a scrivere, suonare e cantare canzoni che ributtavano fuori le abbuffate di vita quotidiana. «Mi piace fare lo stupido. Forse lo sono. Mi viene benissimo. Mio papà, quelle notti che andavo a fare delle performance, mi diceva: “Te vet in gir a fa’ stupid. Torna a casa a mangiare, che dopo la tua mamma si offende”. Stupid. Ma stupido viene da stupor, stupore».

Più di duecento ragazzi di Portofranco lo ascoltano e ridono alla faccia “stupida e stupita” che il cantante mostra, come una caricatura, sul piccolo palco dell’aula magna del centro di aiuto allo studio milanese. Ma non si accorgono che la loro non è diversa, a bocca aperta mentre gli stanno davanti. L’hanno invitato, a Porta Genova, per rivivere la bellezza di una cantata con lui, sconosciuto a tanti di loro, durante l’esposizione della mostra sui “150 anni di sussidiarietà” in piazza Duomo a Milano, pochi giorni prima. E lui, colpito a sua volta, è andato a vedere.

«Non immaginavo un posto così adombrato di luce e di mistero. Pieno di umanità. E se non vedo l’umanità negli occhi di una persona, io non capisco. Tanti non la vedono, e non capiscono; fanno finta di non vederla e passano oltre». Non loro, non quei ragazzini, tutti molto giovani, «mentre io sono tutto molto vecchio», scherza il cantante medico, prima di portarseli tutti a 50 anni prima, con il Gigi Lamera di Prendeva il treno: un tipo strano, che per inseguire l’amore si era messo ad andare a lavorare in treno «per non essere da meno», a tagliar fiori nelle lamiere, e poi fu licenziato, senza il coraggio di dirlo a casa. Amore assurdo, dice Jannacci. E pure la storia, in fondo. Ma tanto assurda quanto comprensibilmente umana. Vera.

No si-ga-retta
Sono così le sue canzoni: parlano di gente comune, di fatti. Vissuti, incrociati o immaginati. E io ho visto un uomo, Giovanni telegrafista, Andava a Rogoredo, Il panettiere, Faceva il palo, Il metrò, Maria me porten via... Jannacci racconta le sue storie per raccontare la sua. La sua Milano di bambino, con il padre nell’aviazione, che «poteva tornare una sera e l’altra no, e ci ero abituato». Un po’ come Vincenzina, davanti alla fabbrica: «Vincenzina si abitua. Tutta la vita. Alla fabbrica: che ci sia, non ci sia; e, se c’è, com’è». O Il cane con i capelli: «Canti cose che non esistono», gli obietta Abdel, uno dei ragazzi di Portofranco. E lui: «Nella vita succedono cose che non si riusciranno mai a spiegare. Ultimamente la canto spesso. È il diverso. Molti fanno fatica a capirlo, molti non hanno voglia di sentirmi parlare». Le mani iniziano a correre sulla tastiera. «Non si dà retta a un cane con i capelli. No si-ga-retta, non si-dà-retta. Esiste il cane con i capelli!».

E poi c’è la Milano dei primi passi in un mondo fatto di musica, cabaret e locali, insieme a gente come Tenco, Gaber, Celentano. La laurea nel 1967, la professione di medico, approfondita in Sudafrica, esercitata tutta la vita senza mai abdicare dalla musica. Una carriera fatta di alti e bassi, come negli anni Settanta quando la sua fama sembra scemare. I concerti, la televisione. Il cinema. Tutto raccontato di recente dal figlio Paolo, musicista affermato anch’egli, classe 1972, che ha raccolto in un libro la vita del padre (Aspettando al semaforo, Mondadori). Quando, per esempio, a piedi nudi davanti al portone di casa per accompagnare la famiglia in partenza, in un periodo difficile, inseguì per strada un tassista maleducato: «Non si arrabbiò, ma rimase profondamente triste», ricorda il figlio Paolo. Uomo sensibile, umile, Jannacci. Eccentrico, forse: «Il mio mattoidismo», come racconta ai ragazzi di Portofranco il suo modo di vedere la realtà. Per cui un marciapiede prende vita di scarpe che lo calpestano, che poi sono uomini, con i loro pensieri, le loro gioie, le loro preoccupazioni. O un tram, per lo stesso motivo, è la cosa più bella del mondo. «Il mondo è un tram». E ci sale Jannacci, su quel tram, per entrare di continuo in quello che ha davanti. La realtà. «Con stupore, che è una cosa che mi anima, mi fa camminare, mi fa vestire, male... Ma anche bene, eh eh».

«Nata grande, e non si chiude»
E proprio al tram è legato uno dei ricordi più intensi di Enzo. «Vidi la carezza del Nazareno, sul volto di quell’uomo. Una decina di anni fa». L’uomo era un operaio stanco, appisolato sulle lunghe panche di legno del tram. Gli caddero gli occhiali. E lui avrebbe voluto raccoglierli, ma passò oltre, verso il conducente. «Quando mi girai gli occhiali erano sulla sua faccia. Che ora era sveglia». Si chiese, Enzo, chi li aveva raccolti. «Solo Lui poteva averlo fatto. Solo Lui aveva potuto fargli la faccia così felice». Ne parlò in un’intervista al Corriere, nel febbraio 2009, commentando la vicenda di Eluana Englaro, la ragazza di Lecco in stato vegetativo che sarebbe morta di lì a pochi giorni per l’interruzione dell’alimentazione artificiale. Eppure, a sentirlo parlare oggi, davanti ai ragazzi, quella carezza è qualcosa che lo ha segnato per sempre. Insieme a una ferita, del cuore. «Che non so di che qualità sia», dice lui: «So che è grande. È nata grande e non si chiude. Tanti fanno finta di non averla, tirano dritti. Li guardo, e mi viene da sentirmi male...». Come quel tassista, forse.

«È giusto che quella ferita rimanga lì, che a volte sanguini e altre no. Ha ragione di esistere? Io dico di sì. È la stessa ferita del Nazareno». Ferita, cuore, carezze. Hanno sessant’anni meno di lui, i ragazzi che ha davanti. Tanti non sono neppure italiani: egiziani, marocchini, ucraini. E poi lui canta in milanese. Eppure parla la loro lingua. Li vedi gli sguardi rapiti, mentre Enzo racconta del quadro che ha vicino al letto, una rivisitazione della Crocifissione, dove c’è un ragazzo che abbraccia i piedi di Gesù. «Il Nazareno non può, come allora, dargli una carezza. È fissato coi chiodi. E mi dà fastidio. Il ragazzo è a torso nudo, coi jeans. E ha le scarpe come quelle di Gaber», l’amico Giorgio, cui Enzo ha voluto bene «come un fratello».

Il “cialtrone” di Gaber
È come se Jannacci fosse lì, in mezzo a quella scena a fissare il ragazzo: chi ha voluto la sua disperazione? «Lui si era preparato: aveva preparato le sue lacrime per quel ragazzo. E a quel ragazzo la madre avrà detto: “Ma cosa vai a fare da quello lì. Va’ me l’è cunscià”. E lui: “Ma Lui salva il mondo...”. “Ma no, lassa staaaaa”». Ma il ragazzo è lì, ai piedi della croce. «L’ha fatta Lui la ferita. L’ha scolpita. Ha tramutato la carezza, se stesso, in ferita. Per quel ragazzo... E bisogna andarci dietro alla ferita, se no non se ne viene a capo. Bisogna volere bene alle ferite». Detto da uno che è stato definito «ateo laico molto imprudente» (ma che in realtà ateo non lo è mai stato). «Un “cialtrone”, come lo chiamava Gaber», spiega il figlio Paolo, nel libro: «A suo agio in uno spazio fuori da ogni contesto, dove la luce crepuscolare accecava di solitudine, dove spesso, chiusi gli occhi, ci si poteva immaginare come su una piccola barca di legno, senza remi, in un grande lago di nulla. Eppure in questa solitudine, in mezzo a questo lago di nulla, Enzo (nel libro il figlio lo chiama per nome; ndr) trova nella barca una lanterna e, anche se lui vede solo nebbia, la agita senza sosta verso chi la può scorgere. È la fioca luce della speranza che nasce dall’umiltà e dalla fede, e anche se Enzo non può vedere gli uomini dall’oscurità del palcoscenico, il pubblico lo riesce a vedere e riesce a vivere la sua speranza...».

Li guarda così, anche quei ragazzi che ha davanti, con gli occhi semichiusi. Che forse di quella carezza iniziano a capirci davvero qualcosa, magari sentendola su di sé. «Va che sto guardando che scarpe avete, eh. Vi auguro tutta la felicità che ha promesso il Nazareno attraverso la carezza, e la ferita. La carezza, data quel giorno a quella persona, povera. E poi la ferita. Io ce l’ho da sempre, e non mi dispiace averla», dice Enzo, prima di intonare Ti te sé no, ma quand mi te caressi la tua bèla faccetta inscì nètta, me par de vèss un sciúr... «Perché non abbiate mai a dimenticare che tutto ve l’ha mandato Lui. Non dimenticatelo, mai».

Da Tracce, Gennaio 2012