(Foto: Gary John Norman/Getty Images)

La novità di dire: «Tu vali»

Da "Tracce" di maggio un dialogo con Cesare Pozzoli sulla “società della prestazione” e la sua esperienza di avvocato del lavoro: come vivere la professione raccogliendo le sfide di una realtà che cambia
Stefano Filippi

Indossava giacca e cravatta. «Lo conobbi a Taranto qualche anno fa: si presentò come “assistente personale”», racconta Cesare Pozzoli, avvocato del lavoro e vicepresidente della Fraternità di CL. «Aveva perso un buon posto all’Ilva e poi ricominciato in una cooperativa di assistenza per anziani. Era un badante, insomma, ma lo faceva con grande dignità perché sapeva che ogni lavoro è dignitoso, fino a usare quel suo particolare “job title”. Pochi mesi dopo il suo nuovo inizio, i parenti degli anziani domandarono al presidente della cooperativa che cosa fosse cambiato, perché vedevano i loro congiunti ringiovaniti. Era cambiato solo questo assistente, che non li trattava come gli altri. Con la sua giacca e cravatta era come se dicesse loro: “Voi valete, non siete gente finita”».

Non fu l’unico insegnamento che il badante gentiluomo lasciò a Pozzoli: «In quel periodo una delle sue figlie si stava lasciando andare. Lui ne soffriva, ma non sapeva cosa dirle, vergognandosi pure della propria condizione. Un giorno si fece coraggio e le parlò anche del nuovo lavoro, senza prediche. Lei capì e riprese a studiare: il sacrificio del padre l’aveva rimessa di fronte alla realtà. Quello che a noi può provocare imbarazzo ha invece un valore educativo: il lavoro non è solo performance, prigionia nella gabbia dove il criceto corre sempre di più. È il luogo dell’io, dove si può sempre ricominciare: costruendo in modo invisibile o eclatante un pezzo di mondo più bello e più umano».

La storia dell’ex manager guida Pozzoli nel riflettere sul senso del lavoro. Dal suo studio legale, fondato con Angelo Chiello, da tanti anni assiste lavoratori e aziende confrontandosi con un mondo in continuo cambiamento. Ci sono state stagioni in cui la parola d’ordine era ristrutturare, razionalizzare, e quindi licenziare. La globalizzazione e la rivoluzione tecnologica hanno lasciato a casa migliaia di persone. Oggi accade l’opposto: imprenditori e artigiani non trovano maestranze, molti disoccupati non cercano uno stipendio ma un sussidio. Oppure, ed è l’altra faccia della stessa ideologia, domina il nuovo idolo: la performance, l’obbligo di essere sempre all’altezza.

«Non è soltanto l’idea del successo. È diventata un’ossessione», spiega Pozzoli: «Fino agli anni Ottanta il lavoro era concepito a tempo: si timbrava il cartellino. Poi si è iniziato a puntare sul risultato. Non è necessario lavorare otto ore ma raggiungere l’obiettivo», con riflessi diretti anche nella busta paga: «Un tempo, la parte variabile era il 10-15% della retribuzione e riguardava solo i manager, ora la quota legata agli obiettivi c’è quasi per tutti e può arrivare al 50 e persino al 100% della parte fissa. Ha ragione il filosofo coreano Byung-chul Han: dalla società della disciplina, fatta di doveri e divieti imposti dall’ordine costituito, siamo passati alla società della prestazione in cui l’unico obbligo è dimostrare di saper fare la differenza».

Le possibilità offerte dalla tecnologia e la necessità – indotta – di avere più tempo libero in cui spendere soldi ed energie spingono verso la cosiddetta “settimana corta”. Pozzoli esemplifica: «Un grande istituto bancario ha già ripartito unilateralmente le 36 ore di lavoro settimanali in 4 giorni di 9 ore e in molti Paesi europei, dal Belgio al Regno Unito, si assiste alla stessa tendenza. La vecchia impresa di stampo fordista è sempre più lontana». Ma oltre che dal tempo, il lavoro è sempre più scollegato anche dallo spazio. Oggi Uber, la più grande azienda di trasporto privato, non possiede nemmeno un’auto, la prima società di locazioni al mondo (Airbnb) non è proprietaria di nessun alloggio, e la più grande azienda commerciale (Amazon) non ha negozi. Tutto è sempre più fluido e dematerializzato. Lavorare da casa è un fenomeno irreversibile: più della metà dei dipendenti lo vuole e nelle grandi città accade uno o due giorni alla settimana.

Anche questo contribuisce a fare coincidere il lavoro con il risultato? «Certo», conferma Pozzoli, «tutto è focalizzato sull’obiettivo piuttosto che sul tempo passato sul luogo di lavoro. Viene esasperata una verità che però è parziale, come è parziale l’egualitarismo statalista». Smartworking bocciato, dunque? «A giuste dosi può essere una buona conciliazione con la famiglia e anche con il territorio. Ma il lavoro spersonalizzato acuisce la solitudine, occorre condivisione perché il lavoro è anche rapporti, sguardi».

Un fatto inedito è il fenomeno battezzato negli Stati Uniti great resignation: chi lascia il posto, ma non per un altro impiego né necessariamente per esaurimento. Basta essere insoddisfatti. «Secondo indagini autorevoli, nel 2019 il 25% dei dipendenti in Europa soffriva di stress correlato al lavoro e dopo la pandemia alcuni studi ritengono che la percentuale sia raddoppiata. Gli imprenditori cercano di reagire per trattenere e motivare i dipendenti introducendo le più diverse strategie, spesso tratte da idee e studi anglosassoni: employer branding, smartworking, welfare – palestre, asili, biblioteche aziendali fino al maggiordomo “tuttofare” dedicato a gruppi di lavoratori –. Poi, per frenare l’individualismo esasperato e rafforzare lo spirito di gruppo, non mancano le politiche di team building, sustainability, well being, inclusion e compliance, corredate da codici etici che stanno diventando le nuove bibbie aziendali, anche dal punto di vista della mole, e che ne scolpiscono la mission – il termine sembra quasi messianico –. Si tratta certo di fenomeni nati Oltreoceano e importati nell’Europa dei manager, ma è una mentalità che affascina e investe tutti, arrivando fino agli operai. Ma sono risposte parziali che di fatto abbelliscono la famosa gabbia dove il criceto continua a girare in modo autoperformante». Nessuno dice quel “tu vali” che ha mosso il badante pugliese.

Qual è l’esperienza di lavoro che fa un avvocato del lavoro? Pozzoli sorride. «Il mio maestro fu, negli anni Novanta, l’avvocato Fabrizio Fabbri, uno dei pionieri del diritto del lavoro e professionista esigente, colto e curioso, ma soprattutto uomo di fede profonda. Passavo giornate intere accanto a lui, redigevo bozze di atti, ma poi lui teneva buona solo l’epigrafe e riscriveva tutto il resto. Dopo pochi mesi la mia autostima crollò, pensai di avere sbagliato tutto, di non essere all’altezza. Una sera a casa mi sfogai con mia moglie con gli occhi lucidi. Eravamo sposati da poco. Lei mi disse semplicemente: “Cesare, guarda che tu vali”. E non lo diceva per consolarmi. Attraverso di lei un Altro mi diceva: “Tu hai un valore perché c’è Qualcuno che ti fa, ti vuole, e ti vuole bene, al di là della tua performance”. Dentro quelle semplici parole c’era la mia vita e la mia storia: l’incontro cristiano fatto a 18 anni, la mia libertà riscoperta, gli anni entusiasmanti e pieni di promessa dell’università, alcuni amici del movimento che facevano la mia stessa strada e altri più grandi ai quali ci aveva indirizzato don Giussani. Fui molto aiutato in quel periodo anzitutto a guardare in un modo diverso la realtà. A volte, quando si fa fatica, ci si chiude a riccio mentre è proprio in quel momento che c’è più bisogno degli amici».

«Quando iniziai», approfondisce Pozzoli, «era nata da poco l’esperienza dei Giovani lavoratori e don Giussani mi propose di parteciparvi e seguire la comunità di giovani avvocati e praticanti. Cominciammo a trovarci partecipando alla Messa ogni settimana, nella chiesa davanti al Tribunale di Milano, poi iniziammo ad aiutare i nostri amici a cercare lavoro, come eravamo stati aiutati noi. Quindi, vedendo ciò che ci stava succedendo, costituimmo, su suggerimento di un amico più grande, la Libera associazione forense (Laf), che dopo 30 anni c’è ancora, si è diffusa in altre città e ha portato nei mesi scorsi a Palazzo di Giustizia la bellissima mostra su Rosario Livatino e negli anni ha organizzato eventi sui temi più vari del nostro lavoro: dalla situazione carceraria alla giustizia secondo… Dante Alighieri, incontrando tanti colleghi e persone stupende. Insomma, quel “tu vali” è stata per me e per noi una chiamata per il mondo e un invito a giudicare insieme il mondo, e non un abbraccio intimistico o consolatorio. Questa gratuità ricevuta e, per come abbiamo potuto, “condivisa” – talvolta difendendo chi non poteva permetterselo – ci ha aiutato anche a crescere nella professione».

Questo “tu vali”, perciò, è un punto di generazione e un compito? «“Generare”, anche nel lavoro, è una parola bellissima. Ricordo, nei miei inizi, quando un alto dirigente di un colosso industriale fece i complimenti a me anziché al mio “capo” Fabbri per una importante causa vinta. Ero a disagio quando andai a riferirglielo: gli elogi andavano fatti a lui, che in effetti si rabbuiò. Il giorno dopo chiamò Angelo e me e ci disse: “Ragazzi, state crescendo in fretta. La cosa più bella per me, che mi dà più soddisfazione, dopo avere avuto dei figli, è generare qualcuno nel lavoro”. Dopo solo due anni ci propose di diventare soci. Nel nostro mondo i grandi professionisti sono spesso narcisi, difficilmente ti coinvolgono e ti insegnano: c’è il rischio che gli allievi diventino troppo bravi e che poi ti rubino i clienti o ti oscurino la scena. Questa sua paternità, sofferta e umanissima, mi ha sempre colpito. Quell’uomo era un maestro».

Dunque, sbagliare sul lavoro è lecito... «Puoi fallire perché non sei il tuo errore», dice Pozzoli. «La vita non è una linea retta, è fatta anche di tentativi. Fallisce l’azienda, non fallisci tu». Liberarsi dalla performance rende più liberi? «De Gregori cantava che non bisogna aver paura di tirare il calcio di rigore. Se non sei ricattato dall’esito sei più capace di sprigionare risorse e di scoprire nuove strade, altrimenti sei rattrappito. E i capi devono dare il margine di errore a chi lavora con loro, perché è un’occasione di costruire e di insegnare. Devono “per-donare” così come, in fondo, ciascuno di noi è ridonato a sé ogni istante».

Gli è capitato di assistere persone licenziate che si vergognavano di dirlo a casa: «Un amico, Luigi Ballerini, ha scritto un libro, Centoventi giorni che ti cambiano la vita, sul suo licenziamento da una multinazionale di cui era top manager. Racconta il suo progressivo scivolamento verso il baratro. Si è accorto di avere attorno due categorie di persone. C’erano quelli che lui credeva amici, dai quali era stato scaricato perché ne apprezzavano soltanto il potere e la performance; viceversa ha riscoperto affetti e amicizie più profonde che l’hanno aiutato a ripartire. Il libro finisce con questa domanda: che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso? È una consapevolezza da riconquistare sempre: noi siamo perché Qualcuno ci vuole e ci fa, e allo stesso tempo occorre qualcuno con la “q” minuscola che ti guardi così, con questa gratuità. L’uomo è fatto per generare e aiutare, partendo da un positivo che lo rende partecipe di una creazione misteriosa e gratuita. Occorre più che mai ripartire dall’io e da uno sguardo presente su di lui che lo può far sempre ricominciare».