Il germoglio della speranza
Il terremoto, i morti, gli sfollati... Ma che cosa sta succedendo in Abruzzo a un mese dalla ferita? Siamo andati a vedere. E abbiamo trovato volti e storie di un popolo che sta già ripartendo (da Tracce, maggio 2009)La giornata è splendida. Il sole è già caldo e sono le undici del mattino. Nella notte il termometro è sceso ancora verso lo zero. Daniela risale la strada con una cesta di vestiti. Li ha sciacquati poco più giù, lungo la via, dove sgorga una piccola fonte. Dietro di lei Carmine e Daniele, universitari di Teramo. Con due taniche d’acqua piene da scoppiare. Vogliono aiutare a bagnare i fiori nel giardino di Daniela. Si stanno seccando, quei germogli primaverili. Da quella notte del 6 aprile non li aveva più bagnati nessuno. Sono passati pochi giorni. Il rumore di quei 22 secondi in cui la terra ha ribaltato una città «ce l’hai ancora nelle orecchie», racconta Daniela.
Di Milano, moglie di Marco Gentile, chimico di un’azienda farmaceutica della zona. Tre figli, la più grande in America per studio. Sono di Cl. Da quindici anni vivono all’Aquila. La loro villetta è nuova, e sta a Sant’Elia, su un pendio che si affaccia sulla valle del fiume Aterno. Cinque chilometri dalla città. Dieci minuti in macchina dal centro. Che oggi non c’è più.
Per giorni le “prime pagine” sul terremoto hanno mostrato macerie e volti segnati, e si sono dette un sacco di cose: i 297 morti, i 1.500 feriti, le decine di migliaia di sfollati, tra le tendopoli e la costa teramana. Eppure c’è qualcosa che pochi hanno raccontato. Con il marito di Daniela, Marco, ci si era sentiti fin dal primo giorno: una marea di fatti, di storie. Un solo comune denominatore, a sentire Marco: «Una speranza impensabile, che tiene dentro tutto». Dolore, preoccupazioni, paura, letizia. Una cosa dell’altro mondo. Che nasce dalla fede, dalla certezza su cui questa mette le radici.
È quella speranza che ti viene in mente ora, quando arrivi da queste parti. Sulla strada principale di Sant’Elia c’è un camper. Lo ha portato da Milano Piero, cognato di Marco. Così Marco e Daniela possono stare vicino alla loro casa. La villetta ha solo qualche crepa qua e là. Ma le scosse continuano. E anche se i Vigili del Fuoco hanno detto che non ci sono pericoli, Daniela è guardinga, mentre apre la porta di casa. «Noi siamo stati fortunati…», dice, mostrando la cucina a pezzi. Per terra, un tappeto di cocci e calcinacci. E qui il terremoto è stato meno distruttivo. Pochi crolli, qualche casa inagibile. «Ma ora usciamo, che ho paura». Ritorniamo al camper, a fianco ce n’è un altro. Ci stanno i vicini dei Gentile. Anche questo è un “prestito”: dopo l’iniziativa di Piero, Marco e gli amici della Compagnia delle Opere dell’Abruzzo hanno pensato che poteva essere utile procurare delle case mobili per permettere agli aquilani di stare vicino alle abitazioni, in attesa dell’agibilità. Detto, fatto. Quello dei vicini lo porta Cristiano, di Tolentino. L’ha comprato l’anno scorso: «Ti lascio un pezzo di cuore», dice al vicino di Marco allungandogli le chiavi. Il vicino è commosso e butta lì una battuta: «Non è possibile. Solo Cristo fa le cose gratuitamente». «Cristo. Appunto», gli sorride Cristiano.
L’appuntamento con Marco è fissato per pranzo, in un centro commerciale che ha già riaperto. Lungo la strada, c’è da rimanere impressionati. Dalle case crollate, dall’idea di quei morti rimasti lì sotto. E dalla città deserta, con le case sul pendio della montagna tutte ricoperte di crepe, piegate, storte... Qui è tutto da rifare, tutto da ricostruire. Cominciando da un’economia che faticherà a ripartire. Dal 1908, a Messina, il terremoto non aveva mai colpito una grande città. All’Aquila su settantamila abitanti più di ventimila erano studenti, per la maggior parte fuori sede: tanta parte dei soldi che giravano venivano da loro, dai loro consumi, dai loro affitti. Ora l’università è crollata. Sono venuti giù quasi tutti gli edifici. E non ci sono più servizi: l’ospedale inagibile, la prefettura e il tribunale crollati insieme a quasi tutte le scuole del centro. Anche le parrocchie: la “città dalle cento chiese”, la chiamavano. Solo cinque sono agibili.
Ci si cercava... Al centro commerciale i negozi sono aperti, vuoti, ma aperti. Davanti a una pizza si sta seduti con una gamba fuori dalla sedia: «Se senti vibrare, inizia a correre. Bisogna uscire subito…», dice Marco prima di raccontare. Il viso è stanco, ha ripreso il lavoro in azienda. Non quello ordinario, bisogna rimettere in funzione la struttura. E poi c’è da aiutare tanta gente che ha perso tutto, dagli amici più cari ai semplici conoscenti, e non solo. «La prima preoccupazione, dopo aver preso coscienza di essere tutti vivi in famiglia, è stata quella di cercare tutti gli amici. Nessuno mancava all’appello, stavamo tutti bene».
Cercarsi. È la stessa cosa che poco prima ci aveva raccontato don Luigi, il parroco dell’università, che avevamo incontrato in mattinata. Ventotto anni, con tanti “parrocchiani” rimasti sotto le macerie del centro della città, dove sorgeva l’ateneo. «In mezzo alla polvere e al buio ci si cercava: è stato incredibile. Proprio nel momento in cui si pensa che uno dovrebbe preoccuparsi solo di se stesso... E invece viene fuori il bisogno dell’altro, che l’altro ci sia ancora».
Nozze in vista. Marco deve riprendere a lavorare. Si torna al camper con Francesco, dottorando in Fisica all’Aquila. A giugno si sposerà con Valentina. Sono di Pescara, ma il matrimonio sarà qui, dov’è la loro vita. La notte del terremoto erano sulla costa, dovevano andare in Comune per le pubblicazioni. La casa di Valentina è distrutta. «Vogliamo restare qui. Non siamo matti, né ci spinge l’orgoglio. Ma questo oggi è quello che abbiamo davanti e dobbiamo rispondere». Di nuovo a Sant’Elia, dove c’è quello che è diventato il cuore del movimento nella città. Quel caravan sempre aperto, un tavolo di plastica fuori… E un crocchio di gente che si ferma a parlare: adulti, universitari. Arriva Gino. Fa il medico del lavoro. Abbronzato, come tanti in questi giorni di sole, costretti all’aperto per le continue scosse. La sua casa in città si può riparare. Ma ora bisogna bloccare il mutuo. La moglie Grazia e i due bimbi, Paolo e Maria, sono a Termoli. Lui è rimasto, in camper con i suoi genitori a Poggio Picenze: «Erano giorni che ce l’aspettavamo. Quella notte Maria, quasi un anno, piangeva perché sta mettendo i dentini. Grazia l’ha portata nel lettone. Non lo facciamo mai... Siamo scappati, e al mattino rientrando per recuperare alcuni effetti abbiamo trovato il suo lettino ricoperto di calcinacci». Le preoccupazioni oggi sono tante. Gino e Daniela le tirano fuori tutte mentre raggiungiamo Onna. La casa, la scuola dei figli, il lavoro… Ma più ti aspetti che spunti un accenno di disperazione, più scopri che non lo vedrai. Non c’è orgoglio o ribellione per quello che è successo. Nemmeno rabbia. Te ne accorgi in tutta la gente che incontri: la domanda che hanno dentro non è solo sul perché sia successa questa cosa, ma su come starci davanti. Girando per le strade, per le tendopoli, preti e suore camminano senza che nessuno gli urli contro perché Dio ha permesso questo. Don Luigi pensava che sarebbe successo: «Avevo quasi timore a girare vestito da prete. Invece, la gente si avvicina, mi cerca. Ha cercato subito i suoi preti, la sua Chiesa. Quello abruzzese è un popolo che ha una fede ben radicata».
«Ti tolgo il giubbotto?». Racconta Grazia, la moglie di Gino, insegnante: «Mio figlio ha tre anni. Ora stiamo dai miei. Un giorno corre incontro a suo nonno, appena entrato: “Ti posso togliere il giubbotto? Posso girarti le pagine del giornale?”. Ecco: lui ha più presente di me cosa significa stare di fronte alla realtà. Il problema è servire Cristo nella forma che lui sceglie per te. Lo vedi nella tua giornata, nelle piccole e nelle grandi cose. Uno deve guardare quello che ha di fronte. E oggi a noi rimane solo questo “sì” che possiamo dire a quello che è accaduto».
Non sono parole. Quando vedi Onna... Qui non c’è nulla da fare, pensi. E invece. La Chiesa è rimasta in piedi. Non quella di mattoni, quella si è sbriciolata con il paese. Don Cesare, il parroco, dice messa sotto la tenda. È molto preso, gente da andare a trovare, cose da fare. Chiede di liberare lo spazio vicino alla tenda blu della nuova “chiesa”: i Vigili del Fuoco gli hanno promesso un campanile, una struttura di tubi dove appendere due campane tirate fuori dalle macerie. «Servono per chiamare la gente a messa». Finora ci aveva pensato un’anziana sopravvissuta del paese, due figlie morte nel terremoto e che girava con un campanello per ricordare a tutti l’ora della funzione. Qualcosa di simile accade a Sant’Elia, alla tendopoli. Dove, prima ancora che arrivassero le docce, nel mezzo del campo era già stata innalzata una grande croce di legno, con delle panche intorno.
A Paganica, invece, è rimasta Ada. I suoi genitori anziani hanno una stalla sotto la casa. Non è crollata, ma con le bestie lì non si può andar via. Si sono trasferiti in una rimessa di cemento armato, adattata alla meglio. Tra le balle di fieno e gli attrezzi da lavoro, attorno a un vecchio tavolo si scambiano due chiacchiere, contenti di esserci ancora per poterlo fare. Si può perfino scherzare, o pensare ai prossimi Esercizi della Fraternità: «Riesci a venire, Ada?». «Sì, sì», risponde subito. È chiaro ciò che conta ora. «Sì, perché che la vita è un dono ce lo dicevamo spesso. Ma ora quelle parole sono diventate carne», dice Gino mentre rientriamo al camper.
Ci sono anche Matteo e Graziella, la loro auto è parcheggiata vicino coi due piccoli, Giovanni e Andrea, che dormono nei seggiolini. Marco arriva insieme all’amico Paolo. Si deve decidere con Tonino e Pasquale della CdO di Pescara dove si metterà il container che arriverà l’indomani, per creare un punto di primo aiuto per le imprese della zona. A dare una mano verranno gli universitari del Clu, che presto saranno impegnati anche in un doposcuola nelle tendopoli. La riunione è a cielo aperto. Sullo sfondo le montagne innevate dell’Aquilano. «È deciso: si parte lunedì». Servendo Cristo là dove chiama, come diceva Grazia: «Oggi - dice Marco mentre, con Daniela, ceniamo alla tendopoli di Sant’Elia - io guardo Grazia. Seguo lei, perché ha più chiaro che cosa conta davvero. Ce lo ha detto anche un amico che è venuto a trovarci: il terremoto ha fatto piazza pulita non solo delle cose, ma soprattutto del fatto che Dio non può più essere un pensiero. Oggi la domanda più urgente è riconoscere la sua Presenza. Questo conta». E si vede. Perché questa gente è lieta. Come il vescovo Giuseppe Molinari, che abbiamo incontrato con Marco. Per un’intervista. Ma ti accorgi subito che più che fare domande, basta guardarlo. Trecento morti, trecento figli. Lui si è salvato per miracolo, non era nel letto per un malessere. La camera è crollata. Settantuno anni, questa è la sua terra, la sua gente. «Da dove si riparte, eccellenza?». «Da Cristo», dice portando una mano alla croce sul petto.
L’abbraccio di un padre. «È davvero un padre, “don” Giuseppe», dice Marco mentre rientriamo. Lo dirà anche del Papa dopo la visita, il 28 aprile: una grande paternità. E lo dirà anche Stefano, uno dei dodici universitari che hanno atteso Benedetto XVI davanti alla Casa dello studente, dove sono morti tanti compagni: «Non ha fatto promesse, non ci ha fatto discorsi. Si è interessato a noi, è stato con noi. “Cosa studi, di cosa ti occupi?”, ha domandato a ciascuno personalmente. Ci ha abbracciati». Proprio come un padre, scrive in una lettera Grazia: «Perché davanti ad un figlio che perde tutto, cosa fa un padre? Innanzitutto gli va incontro (è venuto da noi), lo abbraccia, prega per lui, cerca di aiutarlo a risollevare lo sguardo (ci ha indicato la Madonna) e poi gli dona la cosa più preziosa che ha (il Pallio)».
Un abbraccio che riconosci anche nella solidarietà scattata sulla costa abruzzese, dove la gente ha accolto più di 20mila aquilani sfollati, tra Giulianova e Francavilla. Tanta gente che si è messa subito all’opera. Dalla Protezione Civile ospitata a Giulianova all’interno del Centro Servizi per il Volontariato della provincia di Teramo, fino agli studenti delle scuole superiori, passando per opere di misericordia, associazioni, ultras di squadre locali... In mezzo, oltre ventimila persone di ogni età ed estrazione che si sono mosse spontaneamente. Quasi una per ogni terremotato, a far due conti. «Abbiamo aiutato un produttore di mozzarelle a vendere i suoi prodotti alla grande distribuzione nel nord Italia. Prima il suo principale mercato era all’Aquila», spiega Giuseppe Ranalli, presidente CdO Abruzzo-Molise, impegnata, oltre che nella ricerca di camper per gli sfollati, anche nel sostegno alle imprese. Mimmo, del Banco Alimentare di Pescara, racconta che il lavoro dopo il terremoto è senza sosta. Bisogna rifornire gli enti e sostenere le nuove richieste di quanti sono arrivati nei centri di accoglienza. In più raccogliere gli aiuti che arrivano, dai camion carichi delle collette in tutta Italia alle buste della spesa portate dalla gente comune. Lo stesso per i Banchi di Solidarietà di Teramo e Roseto, dove la gente fa la fila per un paio di scarpe o una tuta. Le facce dei volontari sono fotografie di giorni e notti in cui non ci si è potuti risparmiare. Si è dato tanto. Quello era chiesto. Tutto. Peppino, Marco, Marino, Gennaro, Mauro, Simone… fino ad arrivare a Guglielmo, 15 anni di Roseto. La realtà chiamava a servirla. «Dal primo istante - dice Marco, tra i responsabili del Banco di Roseto -. Mia moglie Loredana è stata tutta la notte con la vicina, che era scioccata dalla paura di aver perso i suoi parenti. E poi alle sette del mattino è stato ancora più chiaro, quando sono arrivati i primi trecento aquilani, in pigiama. Non sapevano neppure di cosa avevano bisogno».
«Io non ti lascio». «È come se fosse miracolosamente rifiorito un popolo; rifiorito soprattutto nell’evidenza di ciò che è essenziale, di ciò che sta veramente al fondo e al significato di tutto. È un piccolo germoglio. Una grande novità, venuta su tra le macerie». È il commento di Marco Gentile alla fine di una grigliata a Teramo, occasione per molti aquilani di Cl di rivedersi dopo quella notte. I bambini si abbracciano, si raccontano ancora di «quel mostro che ha sollevato la casa». Ognuno ha la sua storia. Si canta insieme: «Il nostro cuore non si è perduto... Della morte, della vita, del presente e del futuro la tua gente non ha paura, la tua rocca sta sicura». Fa venire i brividi, ma che sia vero è innegabile. Basta ascoltare questa gente. Basta guardarla. Senza fronzoli. Sta qui la speranza. In queste facce. Una speranza per tutti. Anche per chi ha perso tutto. Compreso un figlio.
Lucilla racconta di un suo alunno, Filippo, uno di quelli che faceva domande, che provocava. È morto nel terremoto. Al funerale si avvicina alla madre. Le dice delle domande di Filippo, e che gli ottomila ragazzi di Gs al Triduo di Rimini la sera avrebbero pregato per lui. La madre le si getta al collo: «Mi ha detto piangendo “Io non ti lascio” - continua Lucilla -. Ma non lo stava dicendo a me. Lo stava dicendo a Cristo».