Volti che hanno fame di realtà

«Subire la vita è come essere già morti», scrive Aida. Ma si può vivere da uomini a sedici anni? Siamo andati a vedere cosa succede nel mondo di Gioventù Studentesca. Cronache di un’amicizia che ridà respiro alla vita (da Tracce, aprile 2010)
Paolo Perego

«Subire la vita: è come se fossi già morta, e morire è l’ultima cosa che voglio», scrive Aida al suo insegnante. «Quelli che mi stanno vicino dicono che non ho niente di cui lamentarmi perché ho tutto quello che mi serve... Quante cavolate! Ogni tanto penso di essere pazza, che sia un problema che riguarda solo me e che sia frutto dei complessi che mi faccio». Anche Paolo di domande ne aveva tante. Aveva voglia di parlare con qualcuno della sua vita, di come stava. Ma con quegli amici, quella compagnia a base di alcol e canne, non si poteva. Forse era meglio non farsi troppi problemi. Poi un incontro «con due persone splendide». Paolo torna dagli amici: «L’ho visto, c’è un altro modo di vivere». Risposta? «Basta con queste scemenze, filosofo!». Ma intanto una strada si è aperta. Come per Marianna, che dopo anni rivede un’amica e alla domanda «come stai?» si sente rispondere: «Sono felice di vivere». La ragazza le racconta degli amici incontrati, di come la sua vita è cambiata. Marianna tace. E poi, di schianto: «Voglio stare con te, con i tuoi amici. Quello che tu dici lo voglio per la mia vita».

«Non siamo pazzi». Sono decine le storie come queste in cui ci siamo imbattuti in un anno di lavoro passato a “dragare” il mondo dei ragazzi di Gs (alcune le troverete sul sito). Lettere e racconti di fatti che dalla “banalità” di un’ora di lezione alla drammaticità della morte di un amico o di una persona cara, hanno dentro tutte un comune denominatore: che sia possibile vivere da uomini quello che accade. Da uomini. Prendendo sul serio se stessi. Anche a sedici anni.
«Non sei pazza Aida. Non siamo pazzi». Dice Franco Nembrini, insegnante e responsabile di Gs dal palco del Teatro Dal Verme di Milano. Più di mille giessini riempiono la platea. Domenica mattina, 7 marzo. È il primo appuntamento di una serie di incontri su Si può vivere così?, il libro di don Giussani. «Il tuo desiderio, il nostro desiderio è ciò che tien su tutta la vita», incalza Nembrini. «Il problema è trovare qualcosa o qualcuno che porti in sé una diversità umana eccezionale, che ti corrisponde». Mille facce incollate al palco, in silenzio ad ascoltare uno che dice di sé e allo stesso tempo sembra parlare al loro posto: «Avevo la vostra età. E a un certo punto mi sono accorto che tutto quello che facevo e mi piaceva non teneva. Sentivo e vedevo le cose “morire”. Qualcosa le divorava e mi portava via tutto», continua l’insegnante. Poi l’incontro, una tre giorni di Gioventù Studentesca, primi anni Settanta. «Non ho capito tutto, ma il giovedì successivo sono tornato dai giessini del mio paese. Era un presentimento, che lì ci fosse ciò di cui avevo bisogno: “Fatemelo vedere”, dissi».
A Tatiana, liceale milanese, è accaduto lo stesso. La scuola, gli amici, il ragazzo. E quella prof strana, che in classe parla di felicità, di desiderio, di cuore. Di Dio. Questioni che si possono rimandare, forse. Ma il suo ragazzo muore in un incidente. E lei scrive, poco tempo dopo, a quella prof che non l’ha mollata un attimo: «La morte è per me ora la concretezza di una Presenza. Non ho paura di soffrire troppo, perché so che anche quando mi scoppierà il cuore e mi bruceranno gli occhi per le troppe lacrime, io non sarò sola. E questa è una certezza che mi conforta ogni giorno di più. Sono nelle Sue mani. Grazie per quello che fa tutti i giorni entrando dalla porta della nostra piccola classe: amarci. E sì, lo so, lei dirà che devo ringraziare Dio. Lo faccio, continuamente». Tatiana, ora, ha chiesto di essere battezzata.
Quando ciò che accade ha dentro tutto questo, non se ne può più fare a meno: «Siamo ingordi di realtà, ne faremmo indigestione», diceva Nembrini al Dal Verme. E ingorda di realtà è quell’amicizia che ha iniziato a unire alcuni ragazzi di città diverse, di scuole diverse. Chilometri macinati in treno o in macchina, spesso accompagnati da prof affascinati quanto loro, per andare a trovare uno solo perché «ha lo stesso nostro desiderio». Così da Abbiategrasso e da Milano i sabati sera si vanno a trascorrere a Cassano d’Adda, a Bergamo... Magari raggiunti dai ragazzi di Crema. E si può partire dalla Romagna per essere una sera a cena a Bardonecchia alla vacanza estiva della comunità dell’amico, giusto per vederlo, per una cantata insieme. Oppure si possono andare a trovare i nuovi amici di Carrara, alla Casa Rossa, dove da pochi anni è nata una comunità praticamente dal nulla. Chilometri di amicizie. Che sostengono la vita.



Gli amici di Mariachiara. A Forlì per esempio, tempo fa hanno organizzato una festa, per poter invitare tutti i compagni. «Cosa desidero da questa serata?», aveva pensato Mariachiara. Poi le viene in mente una frase letta alla Scuola di comunità: «Abbiamo bisogno di uomini che incarnino nella loro vita una possibilità reale di vivere oggi la vita da uomini...». «Voglio che chi verrà alla festa veda chi mi ha cambiato la vita». Partono le mail, le telefonate. In tutta Italia. A quegli amici conosciuti poche settimane prima al Meeting. E poi l’invito ai compagni di classe, alla sua prof. «E così la festa ero io con i miei amici». Arrivati da Milano, Udine, Palermo... O da Siracusa, come Agnese, che dopo un inizio d’anno vissuto «da spettatrice» descrive la serata forlivese come «una scarica elettrica che mi ha ridato il respiro. Adesso ogni mattina quando entro a scuola, quando studio, ho chiaro che tutto è davvero un’occasione per me...».
Mariachiara parlava del Meeting. Nella scorsa edizione i ragazzi si sono presi uno spazio tra due padiglioni della fiera. “Piazza Majakovskij” l’hanno chiamato. Un punto di ritrovo per i giessini di tutta Italia. E di incontro, anche con i tanti ospiti del Meeting che si fermavano a farsi “massacrare” di domande dai ragazzi. Cleuza e Marcos Zerbini, padre Aldo Trento, John Waters... E qui è nata anche l’amicizia tra Gianni, professore di Storia e Filosofia di un liceo di Abbiategrasso e responsabile di Gs, e Maddalena, di Modena. Lo spunto? La mostra sulle reducciones sudamericane e le vicende legate ai conquistadores spagnoli: «Ma non è come l’ho studiato in classe. Chi dice la verità? Come faccio a sapere chi mente?», chiede Maddalena. Gianni la sfida: «Studia, lavoraci sopra. Poi ti vengo a trovare e mi racconti cosa hai scoperto». Tre settimane dopo, a Modena, sono in cento: «Ha preso sul serio questa sfida», racconta l’insegnante: «Ha fatto un lavoro impressionante. Ma la cosa affascinante è che alla fine tra chi era lì si è scatenato un dialogo intenso su cosa significhi gustare di più la vita e appassionarsi a ciò che accade a scuola».

Battaglie tra i banchi. Appassionarsi. Tanto che diventa difficile tacere di fronte a frasi o fatti che stonano con quanto si sperimenta in quest’amicizia. Allora, ecco Stefano alle prese con una pagina del libro di geografia in cui, nei giorni della sentenza della Corte europea sul Crocifisso, trova scritto che in Europa, rispetto all’America, si è «più attenti all’identità di ogni popolo e alle diverse tradizioni». All’intervallo dibattito con la prof: «Quello che sta succedendo grida il contrario», e giù a discutere. «Ne ho “prese” tante», dirà poi il ragazzo. Contento, di non essere stato a guardare. Succede anche a Mario. Stessa vicenda: via il Crocifisso dalla scuole italiane. «Mi sono confrontato con il prof di Italiano (ateo e anticlericale). Ma nonostante mi abbia “asfaltato dialetticamente” sono andato a fondo della cosa, documentandomi e chiedendo un parere al prof di Diritto e a quello di Religione». ?È un nuovo giudizio. E vale per tutto. Per lo studio di Manzoni di Noemi, che nell’entusiasmo dell’«incontro» con lo scrittore milanese («un uomo, come me, coi miei desideri») si trova a desiderare la stessa passione nelle materie più ostiche: «Perché se la cosa finisse con Manzoni, questa corrispondenza sarebbe una fregatura». E vale nel rapporto coi compagni. Come tra Marco e la sua nuova amica Cecilia, avversaria politica alla Consulta degli studenti di Pesaro. Perché a lui non bastava averla bollata col marchio di nemica da cui stare alla larga. «Era come far fuori un pezzo di quello che ho incontrato». Come a dire: «No, per lei non è vero». «Così ho pregato, di poterLo riconoscere anche nel rapporto con lei». E quando Marco e l’amico-collega Luca, appoggiano (unici) una sua iniziativa e decidono di aiutarla, Cecilia non capisce: «Ma cosa vi interessa?». «Mi interessi tu», le risponde Marco, lasciandola ancora più sbalordita.
Poi c’è Chiara, di Roma, che racconta di Raniero, suo compagno. Un rompiscatole di prima categoria. Ma pieno di domande, che da sempre sfida lei e i suoi compagni di Gs su qualunque cosa: «Ci obbliga ad essere svegli, a non lasciarci sfuggire niente. Sia per rispondergli a tono, sia perchè ci richiama a non essere passivi, ma a rischiare giudizi, a dare ragione di tutto. “Ma perché tu, Riccardo e Adriano siete così amici?”, mi ha chiesto qualche tempo fa. E ora stiamo diventando amici anche con lui. Perché ciò che ci interessa è vivere, tutto».
Storie, episodi. E facce. Che arrivano da ogni parte. Da Hassina di Milano, musulmana, che incontra Gs a Portofranco, a Maria Teresa della provincia di Matera, unica giessina del suo paese che si deve “accodare” alla Scuola di comunità degli adulti, da Vittorio di Acqualagna, nelle Marche, alle prese con un compagno più che incuriosito dal suo leggere il libretto degli Esercizi del Clu in classe, a Marco di Bergamo, che della grande amicizia con due colleghi studenti dice: «Mi ha salvato la vita», ed è così vero che tutti a scuola sono affascinati dal loro cambiamento e dal loro stare insieme...

«Sono loro l’Avvenimento». Sembra di rileggere, perfettamente declinate, le parole di don Giussani, quando nel 1964 spiegava, in un breve testo, che cos’era Gioventù Studentesca, quando parlava della necessità che Cristo si possa incontrare nelle aule «come principio capace di illuminare le coscienze e i problemi», come qualcosa che spinga chi lo incontra ad «agire e affermare se stesso, come qualcosa che non sia così strano da non poterne parlare o così dimenticato da vergognarsene». E, continuava, «tocca agli studenti stessi rendere presente ed efficace il cristianesimo nel loro ambiente. Ma questo non vuol dire forse che la presenza di Cristo nella scuola dipende dalla loro testimonianza comunitaria?».
«Sono loro l’Avvenimento», diceva Gianni Mereghetti, il professore di Abbiategrasso di cui sopra. Lui, questa amicizia, questa nuova dinamica nel mondo di Gs, l’ha vista nascere. Era fra i motori di quel gruppetto di ragazzi e professori da cui è partito tutto, un anno fa. «È una prospettiva che ha ribaltato il mio modo di stare in classe». Oggi Gianni sta facendo una lunga riabilitazione dopo un aneurisma cerebrale. Leggete la lettera (vedi pag. 6) di un suo alunno, Jaio, giessino nell’anno della maturità, in cui racconta anche della grande amicizia con Giovanni e Giulia. Per capire quale cammino può fare chi è guardato così, come Avvenimento. Uno che guarda un ragazzo in questo modo gli è padre. Ma Gianni è solo un esempio. Potevamo parlare di Valentina, prof di Italiano in un liceo statale di Milano. Come in ogni classe, alla mattina fa l’appello. Ma Valentina non solo chiama per nome. Fa domande, chiede ai suoi studenti come stanno, li provoca. «In quel momento siamo chiamati a guardarci veramente in faccia», racconta un’alunna, Giulia: «Possiamo tirare fuori tutte le domande sulla nostra esistenza, tutte le nostre esperienze: siamo chiamati a raccontare di noi». E Valentina si è sentita libera di invitarli tutti in caritativa il sabato pomeriggio, a visitare dei vecchietti. In 23 su 25 hanno accettato la proposta. E la stessa passione ce l’ha Matteo che insegna in un liceo privato di Bergamo, per cui ogni spunto che nasce dai ragazzi a lezione, che sia storia o filosofia, diventa occasione di lavoro e di studio, e magari di incontro con qualcuno che può aiutare in un approfondimento. Centinaia di nomi, da tutta Italia, di gente che insegna, che sta in classe in questo modo: Alberto, Cinetta, Laura, Raffaella... Era così anche don Giorgio Pontiggia, per tanti anni responsabile di Gs, realtà a cui ha dedicato più di metà della sua vita. Fino alla morte, nell’ottobre scorso. E di don Giorgio tanti di questi insegnanti sono “figli”.

Chi risponde al vuoto? «Subire la vita è come morire, l’ultima cosa che voglio», scriveva quella ragazza a Nembrini. A Portofranco un ragazzo studia con una compagna. «In tutte le cose che faccio non sono mai davvero contenta», dice la ragazzina: «È come se sentissi un vuoto dentro per cui non mi sento totalmente soddisfatta. Non ho voglia di fare niente». Il suo vicino la guarda e ironizza: «Perché non ti suicidi?». Sofia è lì, seduta davanti a quei due. È venuta in caritativa, ma non c’è nessuno da aiutare, così studia le sue cose. Testa china sul libro, ma quelle parole origliate sono sassate: «Scusate se vi interrompo, ma non ho potuto fare a meno di ascoltarvi. Anche io a volte mi sento insoddisfatta, però ho trovato un gruppo di amici che mi aiuta a non ignorare il vuoto che spesso sento dentro. Con loro non mi vergogno di questo mio disagio. Mi piacerebbe farveli conoscere». La reazione? Stupore. E interesse. I tre parlano: chi sei, cosa studi... Poi i saluti: «Allora ci rivediamo?». «Sì, ci rivediamo presto».