Diventa grande a casa mia

Una vecchia cascina di Padova è diventata una casa d’accoglienza. Poi scuola-bottega. Tra chef, computer e Kafka, si impara a lavorare. Siamo andati a conoscere chi abita a Ca' Edimar. Da quando la piccola Anna... (da Tracce, giugno 2010)
Davide Perillo

«Prontiii!». La voce è piena, da baritono. Forte abbastanza da infilarsi tra le porte, su al primo piano, e tirar giù dal letto prima ancora che Mario arrivi a bussare. Oggi funziona. Non ci vuole molto a vedere le prime facce assonnate che spuntano in cima alle scale. «Certi giorni va peggio. Non si svegliano proprio. Mi tocca mettermi a cantare. Non è un bello spettacolo...». Risate. Caffè. Biscotti. E la giornata ha preso il via, tra il libretto di Andrea da firmare («ieri era malato»), Mehedi che scappa a prendere il bus e Michael che infila la tuta. Ce ne sono sei, di ragazzi, qui a Casa Fraternità. Altri otto vivono una porta più in là, a Casa Anna. Ad accoglierli, tre famiglie: Mario e Daniela, Riccardo e Michy, Gianpiero e Roberta, più figli e nipoti vari. Il totale fa Ca’ Edimar, strana casa di accoglienza nata e cresciuta alla periferia di Padova: un po’ focolare per adolescenti che a casa loro fanno fatica, un po’ scuola e bottega per altri ragazzi, che qui vengono ogni mattina a imparare un mestiere. E la vita.

«Accogliere perché c’è». Vista da fuori, ti dà un’idea di qualcosa di buono e robusto. Struttura a quadrato, come le vecchie cascine con l’aia in mezzo, dietro quella che una volta era il fienile e oggi è l’ala degli uffici. Sul lato destro le case. A sinistra e in fondo, altre mura gialle e travi a vista. Roba solida. Idea che ti torna in mente al volo quando Mario, finita la preghiera in cappella, butta lì: «Che bello quel brano del salmo: “Il Signore ci fa fortezza inespugnabile”. Ecco, Ca’ Edimar è questo». Una fortezza, ma senza arrocchi. Anzi. Il motto, qui, è semplice: «Accogliere perché c’è». A cominciare dalla vicenda all’origine di tutto, e che i lettori di Tracce conoscono bene: quella di Anna, la figlia di Mario e Daniela Dupuis (v. Tracce n. 4/1995). Cerebrolesa, morta a 15 anni, dopo aver generato una compagnia di amici che giorno e notte si occupavano di lei e, grazie a lei, scoprivano Altro.
Ca’ Edimar è nata da lì. «Anna aveva creato un luogo», racconta Mario: «Attorno a lei è sorto un cammino. Un’educazione a guardare la realtà come Mistero». Riccardo è più giovane di Mario. L’ha incontrato a scuola, quasi trent’anni fa. Era il suo prof. Sono diventati amici anche grazie ad Anna. «Quando lei è morta, ci siamo detti: vogliamo che questo posto continui. Per noi». Nel 1996 nasce l’associazione. Il nome arriva dal Brasile, è quello di un menino de rua ucciso dalla sua banda perché non voleva più uccidere. La casa apre cinque anni dopo. «L’idea era trovare un posto che fosse luogo di memoria e di perdono», spiega ancora Mario: «E siccome a segnarci era stata l’esperienza di una diversità da accogliere, abbiamo chiesto che continuasse così. Non avevamo in mente una casa per bambini handicappati, come mia figlia, ma l’accoglienza del diverso. Cosa fosse questa diversità, non era deciso».
Lo ha deciso Dio. Facendogli incontrare Nebosha, 14 anni, fuori da un supermercato. Stendeva la mano per la moneta del carrello, ma chiedeva molto di più: «Non ho nessuno che mi vuole bene...». «Gli ho detto di colpo: vieni a casa mia». Nebosha è stato il primo ospite. Poi è arrivato Elvis. Poi gli altri. Tutti sbarcati da situazioni difficili: famiglie rotte, scuola abbandonata, fumo, altro. Ma basta quello a spalancargli la porta di casa? «No», dice Daniela: «Non puoi essere istintivo. Volergli bene perché “ne hanno bisogno”. Il loro bene è altro. La sfida inizia lì».
È una sfida a cui Gianpiero non avrebbe mai pensato di prendere parte, fino a pochi mesi fa. Chioggiotto di nascita, spostato per anni altrove da un’inquietudine che lo portava ovunque, dai viaggi in mezzo mondo al brevetto da sub «perché volevo toccare le code agli squali a cento metri sotto», si è accorto che non bastava neanche quello. Bisognava andare più a fondo. Magari proprio in quei rapporti che riempivano le vite dei fratelli. Mario l’ha incontrato così: era un amico di famiglia. «Una volta facciamo un viaggio in macchina, verso Pesaro. Io gli dico tutto: la ferita, la ricerca». Silenzio. E la risposta, imprevista: «Perché non venite a vivere con noi?». Motivo? «Mi affascinava l’idea di qualcuno che venisse qui per sé, non per la “struttura”», spiega Mario: «E questo ha scatenato la possibilità di tornare all’origine della nostra storia». Eccoli lì, per sé. Gianpiero e Roberta, la moglie. Che mentre prende in braccio Michelle, la più piccola, sorride e ti dice soltanto: «Qui la vita è piena. A casa non era così».



Beethoven e Maria. Anche il cortile si sta riempiendo. Di vita e colori. Sono i ragazzi che arrivano a scuola. È stato il passo successivo: allargare l’accoglienza. Due corsi: cucina e panificazione. Settanta studenti, di quelli che altrove chiamerebbero drop out e qui hanno ripreso il gusto di imparare. Come Mehdi, che faceva l’alberghiero da altre parti ed è venuto via perché «lì si fa tanta teoria e la cucina la vedi dopo due anni. Qui è un’altra storia». O quell’altra ragazza che ti inchioda con una frase buttata lì ad un’amica, mentre le stai passando accanto: «Che bella giornata! In una giornata così possono succedere solo cose belle». Fai appena in tempo a vedere di sbieco un maglioncino fucsia e un sorriso con la sigaretta appesa, e spunta la voce di Mario: «Quando è arrivata qui non guardava nessuno. Faccia nera. Sempre. Ma vieni su: oggi è lunedì, facciamo l’assemblea».
È l’inizio della giornata di scuola, nell’aula grande al primo piano. Tutti insieme. Un centinaio di sedie. Travi a vista. Croce di legno massiccio alla parete in fondo. E Beethoven che accoglie sorrisi e t-shirt, i tre che ridacchiano e le due che si mettono in fondo, zitte, col cappuccio della felpa alzato. Mario si presenta con una bottiglia in una mano e un bicchiere nell’altra. Sottosopra. «Vedete? L’acqua arriva. Ma se il bicchiere è storto, non si riempie». Pausa. «Il bello arriva, nella vita. Ma bisogna essere nella posizione giusta per farsi colpire». Poi una lettera. Maria, che racconta un’esperienza strana. Una malattia, seria, ma che non è una condanna. «È semplice. L’uomo anche attraverso l’esperienza che l’offende di più - il dolore - percepisce che è fatto per qualcosa di più grande». Infine, la musica. Un pezzo della Quinta. «C’è qualcuno che bussa alla porta e vuole ridestarti. Ti dice: guarda che tutto è un bene. Ma devi girare il bicchiere...». Mezz’ora in tutto, anche meno. Poi, via verso le aule. Non prima di aver preso di petto un’altra questione: «Nel cortile ci sono un sacco di cicche di sigaretta. Segno che siamo ancora poco attenti. Per favore, facciamo che due volontari per classe vanno a raccoglierle. In attesa della gratuità, applichiamo la giustizia...».

Forchette e filetto. Sul retro, accanto al campo da calcetto, passi l’ingresso del padiglione nuovo, ed entri in un altro mondo: fatto di lievito, farina e di una quarantina di ragazzi che impastano e infornano sotto gli occhi di un paio di prof, artigiani del pane che vengono qui a trasmettere il mestiere.
Dietro c’è un altro capannone. È quello del progetto New Labor. Qui sono in due a lavorare, accompagnati da due adulti. Robe semplici, come togliere la pellicola che avvolge le ante dei mobili nuovi. Ma è lavoro, vero. E il lavoro si impara facendolo, affidando se stessi e il proprio tempo un passo alla volta. Lo ha capito anche il pool di imprenditori che ha deciso di coinvolgersi in quest’opera. Al progetto ci pensa Sonia, coordinatrice: «Mi sono innamorata di questo posto. Mi sfida. E sfida i ragazzi». Perché lo scopo è semplice e grande insieme: «Che arrivati a fine percorso si chiedano: “Ma io chi sono?”».
Porta a vetri. Salone. Le aule di cucina, dove altri ragazzi lavorano a gruppi tra pentole e taglieri. Poi su, in ufficio. Riunione di staff, doppia: prima i docenti, poi gli “amministrativi”. A Ca’ Edimar, tra una cosa e l’altra, lavorano in quaranta. Si discute della settimana di lezioni. Del nesso tra le materie. Di come accompagnare i ragazzi a scoprirlo, «perché è l’unico modo per capire lo scopo, anche se vuoi fare il cameriere», dice Riccardo. Kafka, Leopardi. C’entrano anche con chi vuol diventare cuoco. Così come per chi fa paghe e contributi è importante andare a fondo delle domande che spuntano nella seconda riunione. Tema, stavolta, il lavoro. L’opera. «Come si fa ad essere liberi dall’esito?». Mezz’ora di discussione fitta, libera. Esci, e Sonia ti dice: «Qui si valuta la persona. Da altre parti, se sbagli sei fatto fuori».
Ora di pranzo. A servire a tavola, gli studenti della seconda ristorazione. In cucina ci sono i loro colleghi. Escono, ti presentano i piatti. È una specie di compito in classe. A fine pranzo ti chiedono di compilare una scheda di giudizio. Livello sul medio-alto: si faranno. Anche grazie a gente come Urbano Manfrin, patron che ha passato una vita tra cucine e ristoranti. Ora è lì a consegnarla a loro, perché l’educazione passa anche da una forchetta messa bene in tavola e da un filetto di persico impiattato come Dio comanda. «Il rapporto con i ragazzi affascina. Te ne accorgi quando hai voglia di rivederli e capire se hanno fatto dei passi».

Il mondo dietro la fatica. Ne fanno, eccome. E non solo tra queste mura. Un incontro dopo l’altro, Ca’ Edimar si è allargata. È diventata una rete. Un paio di chilometri più in là c’è il 2You, un centro dove arrivano giovani usciti dal percorso di scuola ordinario. Li trovi in aula a gruppi, età varia, un tutor a seguirli. Imparano - o reimparano - a studiare. Seguono vie tracciate su misura. E trovano una strada. Ne sono passati almeno un migliaio, da qui, in cinque anni. E altri vanno e vengono da un’altra palazzina. La targa, stavolta, è più anonima: “Centro difficoltà di apprendimento”. Davanti a uno schermo, due bimbi e una maestra fanno esercizi di logica al pc. Ridono. Non lo diresti, ma stai assistendo a una piccola battaglia: «Quella contro chi scambia le difficoltà per patologie, e mette in mezzo farmaci e assistenza», spiega Giada, una delle operatrici: «Qui passano una ventina di bambini all’anno, molti dislessici. Li aiutiamo a recuperare. Ma soprattutto scopri il mondo che c’è dietro la loro fatica ».

L’autobus di Simone. In fondo, è il cuore della casa. Le ferite della vita possono diventare una ricchezza, non un limite. Qualcosa da accogliere, «perché c’è». Sei arrivato che era uno slogan. Ora sono le facce dei ragazzi, seduti attorno al tavolo di Casa Fraternità. Mehedi, 16 anni, qui da due, ti racconta la frase di Riccardo che gli si è stampata dentro e ha iniziato a scavare: «Non ti sperperare». Chiedi a Simone la cosa più bella capitata negli ultimi tempi e ti parla di un viaggio in autobus, qualche mattina fa: «A un signore è caduto il cellulare. Nuovo di pacca. L’ho preso. L’ho guardato. Stava per scendere. Gliel’ho dato. Un anno fa non l’avrei fatto». E cos’è cambiato? «Ho provato a mettermi nei suoi panni». Il suo, di cambiamento, Andrea lo racconta così, indicando padri e madri: «Qui ci sono persone che ti aiutano a vedere il quadro. Quando sei arrabbiato, è come se ce l’avessi a due centimetri dal naso: non vedi niente. Ti serve qualcuno che ti aiuti ad allontanarlo, per vedere meglio». Qualcuno che faccia quello che dice Giovanni, 16 anni, in una manciata di parole: «Cosa mi hanno dato? Un rapporto vero. Non mi sento mai solo. E mi sento voluto». È in quell’abbraccio che si può spiccare il volo. «C’è un altro slogan, qui in casa: “Con noi per sempre, da noi il meno possibile”», dice Riccardo: «Quando se ne vanno, è uno strappo. Ma vuol dire che sono diventati grandi».
Ormai è sera. Fai appena in tempo a vedere lo studio di registrazione dove Daniele, figlio di Mario e musicista, ha aiutato i ragazzi a registrare un loro cd, ed è tempo di cena. Le due case allo stesso tavolone: succede una volta a settimana, ed è un altro spettacolo di semplicità. Battute. Scherzi. Ma non passa niente di serio senza essere giudicato insieme.
Anche la fine della serata ha la stessa impronta. Qualche canto, poi - per chi vuole - Compieta in cappella. I ragazzi vanno a letto. Noi, verso la macchina. Con Mario, che il bilancio della giornata lo tira così: «Guarda, la gratuità è solo di Dio. Arrivi a sera, hai fatto tutto e ti accorgi che non sei capace di gratuità. Aspetti sempre che i conti tornino. Chiedi a Cristo un sacco di cose: aiutami di qua, fai di là... Ma non chiedi mai Cristo». Silenzio. «O quasi mai». Altro silenzio. «Qui non è che sei educato a riconoscere il Mistero. Per quello, basta una fabbrica. Qui sei richiamato al fatto che se non Lo riconosci, scappi». E invece domani si riparte. «Prontiii!».