Tu sei me. La legge dell’io

Si comincia per tanti motivi. Ma «qualcosa in atto» scavalca i pensieri. Italia, Spagna Scozia... Esperienze di ragazzi e adulti tra malati ed emarginati. Condividono gratis il poco tempo libero, che «redime tutto» (da Tracce, dicembre 2010)
Alessandra Stoppa

«Bellissimo». «Ma bellissimo cosa?». Marina non sbaglia a chiederlo. Seicento pazienti, gravi. Gente ricoverata anche da quarant’anni: la maggior parte non si alzerà mai dal letto. Come Concettina, che è in camera con Teresa, ma non fanno grandi chiacchierate visto che Teresa muove solo le palpebre. Il Paverano di Genova è una cittadella così, ventisette reparti per handicap fisici o mentali incurabili. Però i ragazzi escono di lì, guardano Marina e la ringraziano: bellissimo. «Ma cosa c’è di bello?», insiste: «Qui c’è solo dolore». Il bello è che è stata lei a portarceli. È la loro prof, ma la cosa le è sfuggita di mano.  
Il progetto era chiaro: far vedere a quei ragazzi che è vita anche la vita sofferente. Non ne avevano idea, lei lo capiva dalle discussioni in classe. Così ha deciso di andare al Paverano e loro hanno voluto tornarci. Una, due, tre volte. E ai primi si sono aggiunti altri. È diventata la loro caritativa. «Io non avrei mai pensato di farla, neanche per me», dice Marina. Faceva già tante cose gratis. E le faceva servendo il movimento. Ma andare in caritativa ha fatto la differenza, non ha più potuto farne a meno. «Io ho bisogno di vedere le facce dei miei alunni con quei malati». Di vederli commuoversi di un ragazzina che passa le giornate in un box a darsi botte in testa e strappare fogli. E di vederli tornare la volta dopo in tuta per stare con lei. O di guardare Giulia, mentre imbocca Fulvia. Che è cieca, sorda, muta e cammina scalza perché è il solo modo per sentire la realtà. «Giulia era lì, con lei, con uno sguardo d’amore che mi ha sconvolta». C’era qualcosa in atto.
Che non svanisce. Un fatto penetra: «Quando vado a casa dal Paverano, mi rimetto a studiare, sto con mia mamma. Ma mi sento diversa», dice Alessia. Lei e i suoi compagni sono andati lì per “capire” la vita di altri e hanno iniziato a farsi domande sulla loro. «Non mi penso più come prima», racconta Alessandra: «Non dico più “sono contenta, sono scontenta...” nel modo in cui lo dicevo prima». Anche i rapporti in classe sono cambiati. In un anno di caritativa, hanno visto che quello che ognuno ha dentro «è desiderio di darsi», continua Marina: «La gioia che nasce tirandolo fuori è il segnale che si vive, coscienti o meno, la legge dell’io, della vita. Che è l’amore». Per la felicità che ha avvertito in loro, li ha invitati a raccontare quello che stavano vivendo ai ragazzi di Gs: «Il gesto si è allargato anche a loro e agli adulti della comunità». Quest’anno, appena è iniziata la scuola, i suoi alunni le hanno chiesto di riprendere. E non per portare a quella gente un po’ di carità: è quel posto uno spettacolo di carità. «Noi - dicono - andiamo ad allenarci». Ad imparare la legge della vita. Anche se lo si capisce solo dopo, facendo.



Adagio, adagio. O, perfino, cominciando per un motivo qualsiasi. Daschya ha iniziato la caritativa perché ci andavano i suoi amici. Alla casa di accoglienza Golubka di Novosibirsk, Siberia. «Non facciamo niente di speciale: cantiamo, ogni tanto parliamo con gli ospiti». Ma ogni volta, quando finisce, non vede l’ora che arrivi quella dopo. «Mi mette la nostalgia dell’infinito». Non sa dire altro, Daschya. Ma fino a quando non si saprà con chiarezza il perché, «non bisognerà mai stare quieti», richiama don Giussani ne Il senso della caritativa. L’itinerario non importa, non è importante il modo in cui si comincia: a cominciare è sempre Dio. Come nella vita di Aleksandra, che sentiva il bisogno di fare qualcosa di buono e si è imbattuta nelle suore di Madre Teresa, che accolgono bambini down.
La prima mossa accade: a Genova come a Novosibirsk. O a Mosca. Dove l’idea di Aleksandra si è sciolta il primo giorno: «Il nostro aiuto è insignificante, per quei bambini e anche per le suore. Sarebbe ridicolo pensare di fare del bene».
Ma lei continuava ad andarci, pensando di dover trovare un senso a quel dolore ingiusto. «E a tutti i momenti della vita di apparente sofferenza senza esito», dice: «Poi ho scoperto che il mio problema era proprio questa domanda di senso: che cosa la mantiene viva in me?». Strappando la sua vita e i suoi giudizi dall’automatismo, dall’abitudine. «Che cosa rinnova sempre le fondamenta della mia fede? E rende il mio cuore capace di amore vero? L’ho capito andando in caritativa, poco a poco». Adagio adagio, come dice don Giussani: «Adagio adagio il piccolo tempo libero redime tutto il resto». La presenza di quei bambini e di quelle suore «mi fa cercare il senso nella mia vita», dice Aleksandra: «Mi fa cercare conferma che c’è Colui che sa le ragioni di tutto. Per il quale non c’è niente di insensato». E lei ama quei bambini perché il suo destino è inconcepibilmente legato al loro: «Non sono io ad abbracciarli, ma mi sono dati per abbracciare tutta la mia vita». La condivisione di poche ore al mese scavalca ogni intenzione, e affonda nella vera misura del bisogno. Una misura che nessuno possiede.
Scoprirlo fa soffrire. Ed Eugenia ha sofferto e pianto davanti a quella donna marocchina, vedova e con due figli, per cui si era fatta in quattro. Aveva iniziato portandole, insieme ad altri, il pacco del Banco di Solidarietà, in una vecchia cascina.

«Voleva darlo anche a me». Alcune ex stalle senza riscaldamento, dove vive una decina di famiglie rom e straniere a Foiano della Chiana, vicino ad Arezzo. «Mi sono così legata a quella donna e ai suoi figli, che desideravo solo trovare una casa dignitosa per loro». Ha trovato molto di più: un buon lavoro, vitto e alloggio garantiti, la scuola a due passi. Ma quella donna ha rifiutato tutto, è rimasta in cascina. «Volevo abbandonare tutto», racconta Eugenia: «Poi d’impulso ho preso Il senso della caritativa e ho letto che Cristo avrebbe potuto rivoluzionare le situazioni, invece ha condiviso. “Si è fatto misero come noi”. Lui aveva uno sguardo diverso su tutto e su tutti. E voleva darlo anche a me». Fra gli odori aspri di quella cascina in cui manca tutto. Allora ci è tornata.
Appena arrivati, lei e Antonio si trovano circondati da tutti i bambini: vogliono stare con loro. Improvvisano una tavolata dove disegnare tutti insieme. E questa bellezza si ripete altre mattine, sotto lo sguardo sorpreso delle madri. L’impotenza di prima ha rischiarato il modo di stare con loro, un coinvolgimento nuovo.
Un giorno, la mamma di un ragazzino si avvicina a Eugenia, risoluta: «Cos’hai fatto a mio figlio?». Si allarma: «Che ho fatto?». «Non lo so. Va tutte le mattine a scuola: mette due sveglie, si alza un’ora prima per prepararsi, si dà il gel, prende il pullman. Che cosa gli hai detto?». Lei lo aveva solo sostenuto nel preparare l’esame di ammissione all’anno scolastico. E Daniele, giovane ingegnere, lo aveva portato a fare matematica in notturna nel suo studio. «In questi anni è cresciuta una storia che mi commuove», dice Eugenia: «Ha avuto tanti frutti, momenti difficili, cambiamenti continui di modalità e tempi. I problemi, spesso, al posto di risolversi si sono complicati».
Non sa come andrà avanti. «Ma ogni volta che faccio il passo di tornarci, sono liberata dai pensieri, dai bilanci: mi nasce sempre una nuova disponibilità, nel veder riemergere potente lo sguardo di Dio su di me». E su quella umanità che poco Lo conosce. Nell’inseguire il bisogno dell’altro, è esploso il suo: «Stare con loro è stare con il Mistero in atto, che fa le cose, che smuove i cuori».



Senza misura. Se questa misura del Mistero vince in te, puoi dare senza misura. E ricevere di più. «Mi è stato subito evidente che non andavo lì per un tornaconto, un “ritorno”». Nemmeno d’affetto. Javier Prades, preside della Facoltà di Teologia San Dámaso di Madrid, in sette anni è mancato solo una volta.
Quando lo senti parlare della casa delle Suore della Carità, è come vederlo. Entra a mani vuote, senza portarsi nulla di quel che sa, in quelle camere quasi da ospedale. Lì ci sono degli uomini, con la loro sofferenza, e ci sono le sue mani. Con tutta la loro incapacità di toccare e lavare dei corpi inguaribili. «Lo sentono subito se non sai “prenderli”. E te lo fanno capire. A volte hanno modi aspri». Il rapporto con loro è all’osso. Spesso, del tutto silenzioso. «Ma quando li vedi abbozzare un sorriso, sei misteriosamente ripagato cento volte tanto». Erano anni che lui aveva una domanda sulla carità, sul vivere la carità: «Nella formazione di un prete, si fanno decine di esperienze di solidarietà. Ma un cammino che fa crescere la mia umanità, l’ho scoperto solo nella fedeltà a questo gesto».
La casa ospita anziani e malati di Aids. Gli amici della comunità madrilena ci vanno una volta al mese, dicono l’Angelus, leggono un breve pezzo da Il senso della caritativa, poi si dividono in due gruppi: chi con gli anziani, chi con i malati. Alla fine si ritrovano per dire un Gloria e raccontarsi cos’è accaduto. Le prime di cui parlano, sono le suore. Guardarle servire e lavorare, in modo umano ma perfetto, «è il primo fatto educativo per noi», dice Rafael, avvocato: «Vederle sempre così liete ti scuote: loro che vivono in quel posto tutti i giorni, tutto il giorno». La visita all’istituto è diventato uno dei gesti più curati della comunità madrilena. «Per la mia vita è fondamentale», continua Rafael: «La fedeltà a un aspetto del cammino educativo mi ha spalancato l’esperienza cristiana. Ho iniziato a comprendere tutto il resto». È una bellezza che si rovescia sulla vita e sugli altri.
Quando esce di casa per la caritativa, la figlia più grande, che ha dieci anni, vuole andare con lui. «Attrae». Così alle feste e alle gite con i malati, hanno iniziato a voler andare anche le famiglie: «Siamo andati allo stadio, allo zoo, al museo dell’aviazione», racconta Ramón. Un sabato dopo l’altro, questi anni hanno scavato in lui. Lo scopre ora in ufficio, di fronte ai torti di due colleghi. È dura con loro, ma li guarda e vede in controluce un fatto: «Loro sono me, fatti e bisognosi come me. E mi sono dati. Allora siamo insieme». È grandioso per uomini adulti vedere che la strada è concreta. «È la genialità di Giussani, questa», spiega Prades: «C’è un metodo da percorrere per verificare il cuore della fede». Per imparare a concepire tutta la vita come un condividere. Come la viveva Gesù. Come la guardava Lui.

Gesto e pensiero. Vai per dare, e ti raggiunge questa tenerezza. Lo sa Jeong-Yon, che è saltata al collo di sister Aelred, in lacrime: «Avrei dovuto conoscere prima un posto così». Era la prima volta che andava in caritativa nel convento delle Sisters of Mercy di Edimburgo, Scozia. Non sapeva nulla del cristianesimo. Ha semplicemente seguito Maria e Giacomo, che una volta alla settimana davano il loro tempo in questa mensa per i senzatetto della città, dove a uomini che non sanno nemmeno come si chiamano viene dato conforto e un nome. Alcuni della comunità di Cl servono ai tavoli, lavano frutta e verdura, puliscono la cucina. «È un grande gesto educativo per noi», racconta Giacomo, in Scozia per un dottorato: «Qui chi è cattolico, spesso, lo è diventato per un percorso intellettuale». Mentre questo è un gesto talmente semplice che non si può scambiare per un pensiero. È la vita che c’è, che dà spessore alla propria. Come per Michael, convertito dal protestantesimo, sempre con la Bibbia sottolineata e la testa zeppa di citazioni: «Facendo caritativa ha iniziato a parlare di sé», racconta Maria. O come per Jeong-Yon. Che quel primo giorno ha tagliato carote tutto il tempo. A fine servizio, come ogni volta, sono andati in cappella con le suore, che hanno pregato per i barboni e per loro, i volontari. È lì che Jeong-Yon è scoppiata a piangere: «Non avevo mai visto un amore così». Un amore che è entrato nel mondo, fino a prendere casa, indirizzo, facce e mani.

L’attesa del Natale. Che sia di Cristo questo amore, Prades lo vede nelle mattinate di caritativa madrilena. Stando con quegli anziani. Se non fosse così, loro non si commuoverebbero quando lo ascoltano leggere il Vangelo. «Sono state le suore a chiedermi di farlo. Vado e leggo qualche pagina: quelle parole parlano al loro cuore come al mio. Per loro, sentire cosa dice Gesù e ricevere ogni giorno l’amore di quelle suore è la stessa cosa». Un amore concreto, allo stesso modo. Totale. «È quello che ricevo io, ogni secondo, come sono. La carità di Dio a me». Dio che incombe all’orizzonte, come nell’attesa del Natale. Solo questo apre la vita. E fa godere dell’impensato: tu sei me.