Dove il cuore non muore

Delfino, Malick, Celia... persone bloccate su un letto dalla Sla. Diario di un pomeriggio nelle corsie del Centro clinico Nemo dove la malattia avanza prendendosi tutto. Tranne il desiderio di vivere. E di essere felici (da Tracce, gennaio 2011)
Paolo Perego

«Metallina?». Neppure il tempo di aspettare la spiegazione della moglie. Delfino solleva la maglia del pigiama. Una smorfia, da sotto la maschera dell’ossigeno che gli ricopre tutta la faccia. Mi prende la mano e se la porta sulla pancia nuda. La “metallina” sta lì, contorna il buco appena sotto lo sterno, alla bocca dello stomaco. Dove la cannula si infila nel corpo per portare il cibo. La “pappa”, giallina, dalla sacchetta appesa in fianco al letto, giù lungo il tubo, direttamente nell’addome. È un flash. Quel dito appoggiato a pochi millimetri dalla ferita. E i suoi occhi spalancati parlano al posto di mille parole che dalla bocca non riescono più a uscire. «Guarda», dicono. «Guarda qui, questo è il mio dolore, la mia paura, la mia angoscia. Ma anche la mia vita». È questo il motivo, la ragione per cui bisognava venire qui. Non per dovere di cronaca, non per rispondere a chi butta sul piatto una rispettabile e ben confezionata opinione pro eutanasia. Ma perfino una ragionevole posizione pro life non basta. No, bisogna arrivare fino a lì, al dito nella ferita di una peg, il sondino per l’alimentazione, perché ogni idea o pregiudizio sia fatto fuori.

Parole silenziose. Un pomeriggio passato tra i corridoi del Nemo, un centro clinico nel mezzo di uno dei più grandi ospedali italiani, il Niguarda di Milano. Qui si curano i malati di Sla, i distrofici, o gli affetti da amiotrofie spinali... Si curano. Non si guariscono. Perché da queste malattie non se ne esce. “Degenerative”. Ti prendono, spesso da un giorno all’altro. Latenti per anni. E poi di colpo... Delfino, per esempio, ha 63 anni. Faceva l’assicuratore. Nel 2007 inizia a biascicare quando parla. Non se ne accorge neppure. La moglie e il figlio sì. Qualche visita, accertamenti in un ospedale dell’hinterland milanese. Poi la diagnosi: «Sclerosi laterale amiotrofica, una patologia che colpisce i motoneuroni». Tradotto: hai una malattia che a poco a poco ti porterà a essere paralizzato, alimentato e ventilato artificialmente, incapace di parlare, e poi potrebbe giungere una complicazione, un colpo di tosse, e allora morirai anche prima che la malattia finisca il suo decorso.
Così, a distanza di due anni, Delfino è sdraiato su un letto del Nemo. Uno dei ventiquattro che dal 2008 hanno accolto oltre mille malati, di cui più della metà con la Sla. Domani a lui faranno la tracheotomia. «Spero di stare un po’ meglio dopo», dice, componendo parole silenziose con una tastiera stampata su un foglio. L’anno scorso l’avevano rimandata, ma ora non si può più aspettare. «Poi torneremo a casa, alla nostra vita», spiega la moglie. Ai campanelli sparsi per la casa, perché Delfino non parla, e se c’è da andare in bagno... Agli amici che vanno e vengono, tra chiacchierate via computer e partite del Milan guardate insieme. Giornate intense, faticose, scandite da gesti che ai più sono sconosciuti: pulire i filtri dell’ossigeno, cambiare metalline, bere una Coca-Cola sparata da un siringone direttamente nello stomaco. Tra infermieri, logopedisti, psicologi, apparecchi per la ventilazione e il monitoraggio... Fino al prossimo ricovero qui al Nemo, per vedere fin dove la malattia è arrivata, quanto è andata veloce, che cosa “si è mangiata” nel frattempo.

La cicatrice sul petto. Funziona così. Per la maggior parte dei malati. Brevi periodi di ricovero, a volte in day hospital. Poi si torna a casa, con le proprie famiglie. «Saranno tutti disperati», ti viene da pensare quando le porte del reparto si aprono. Gente che, in fondo, sta morendo. E invece. Tra i corridoi gialli e azzurri, tra le stanze illuminate da un sole pallido, nulla è come ti eri immaginato. Carrozzine parcheggiate ovunque, infermieri e parenti che camminano avanti e indietro, fermandosi spesso in capannelli a parlare. L’idea è quella di un disordine discreto, non chiassoso. Paradossalmente, ordinato. Bello. E frenetico. Di una frenesia strana. Febbre di vita, è la parola giusta. Roba che quasi ti dimentichi dove sei.
È la cicatrice sul petto di Yliana a riportarti alla realtà, preso com’eri ad appuntarti la sua storia a un passo dal lieto fine. Peruviana quarantenne, da cinque in Italia, con i tre figli Pietro, Paolo e Giovanna lasciati oltreoceano per cercare fortuna. Poi una polmonite, che scatena una miastenia che la paralizza in pochissimo tempo. «Non respiravo, mi hanno tracheotomizzata». Solo che ora, dopo sei mesi di ricovero, e fisioterapia, si sta rimettendo in piedi: «Tornerò dai miei bambini...», dice commossa mentre finisce il “giro” in cyclette sotto gli occhi del fisioterapista Paolo. E mentre porta una mano a quel solco ricucito appena sotto la gola. «In casi come il suo ci si può riprendere. E la fisioterapia aiuta parecchio. Ma per altre patologie serve solo a tenere i muscoli in movimento», spiega Paolo indicando Marco, veronese diciottenne, con una distrofia diagnosticatagli quando ne aveva tre. Intorno tanti attrezzi, spalliere, lettini. E i famosi “comunicatori”, gli schermi che con vari sistemi riescono a captare i movimenti del viso o degli occhi e a trasformarli in parole. Una terapista occupazionale insegna come usarli a quei malati di Sla che ormai non riescono a muovere più nulla se non le pupille.

«Ci deve essere una cura». Malick almeno la testa riesce a muoverla ancora. E riesce ancora a parlare, tra una pompata di ventilatore e l’altra. Arriva dal Senegal, ma abita a Bergamo da nove anni. «Sono un decoratore», dice con orgoglio d’artista. Un metro e novanta, immobile nel letto con le lunghe braccia distese sopra le coperte. Oggi non sta bene, è un po’ stanco. Angel, di origini peruviane, è un “Oss”, operatore socio-sanitario, e cerca di metterlo comodo, «perché la testa gli penzola troppo, e dopo un po’ dà noia». Perché, altra “fregatura” della Sla, solo i movimenti sono bloccati: se uno ti schiaccia un piede il male lo senti. E per quanto il cervello dica al piede “spostati”, quello non si muove. Così Angel per dieci minuti, paziente, sposta cuscini, lenzuola. «Così? Ora? Prova. Adesso?». «Pensare che è cominciato tutto poco più di un anno fa», spiega Malick. «Prima la schiena. Poi la gamba. Mi facevano male. Ma io ho la speranza. Non mollo. Sulla terra per ogni malattia ci deve essere la cura. La troveranno. Anche se magari non per me», dice, mentre a ogni respiro fissa la foto della sua bambina di venti mesi, che verrà a trovarlo con la mamma nel pomeriggio. «È un posto per me, questo», dice. Perché hai la Sla, perché è fatto apposta per quelli come te... «No. Perché sono uomo».

Ricerca e dignità. «Permettere di vivere anche con la malattia», dice Mario Melazzini, medico e “padre” del Nemo. Affetto da Sla, da anni si consuma tra convegni, raccolte di fondi e ricerche. «Un’avventura cominciata nel 2003, quando mi diagnosticarono la patologia». Un mondo che crollava, per il medico di Pavia. «Uno che arrampicava sui monti, che giocava a tennis. E poi venivo da un ambiente medico dove le terapie esistevano, dove sapevi con cosa avevi a che fare. Dove potevi guarire». Arriva la depressione, lo sconforto. La rabbia. «Dovevo capire quello che mi stava accadendo, quello che potevo ancora fare». Così piano piano, racconta, ha iniziato a scoprire che quella malattia era una condizione della vita, che lui non era solo “ciò che era prima”. «In questa ricerca ho conosciuto Alberto Fontana, presidente dell’Unione italiana per la lotta alla distrofia muscolare. Da quell’incontro, nel tempo, è nata la Fondazione Serena, e nel 2008, grazie anche alla Regione che ci mise a disposizione alcuni spazi a Niguarda, è partito il Nemo». Con l’idea di curare, cioè di prendersi cura degli affetti da queste terribili patologie. «Secondo due linee principalmente, ma che poi si intersecano. La prima è quella della ricerca. Non solo di una terapia. Occorre anche studiare bene questo genere di malattie di cui si sa pochissimo. Per esempio la malattia colpisce in maniere diversa le diverse persone. Più o meno velocemente, ad alcuni attacca la parola, per altri i primi sintomi riguardano gli arti. E poi non se ne conosce la causa scatenante. Il secondo aspetto riguarda la possibilità di mettere chi è malato nelle condizioni di vivere una vita dignitosa». Curarlo, appunto. Creando dei centri come il Nemo. Cercando nuove tecnologie di supporto, terapie che possano rallentare il decorso. «E poi informare, che è il primo modo di accompagnare un malato: che sappia che cosa gli sta succedendo, e cosa gli succederà».
Quello che succederà. Demetrio lo sa bene, quando guardando la sua Celia parla di Paradiso. Sono sposati da quarant’anni, da quando dal Friuli arrivarono a Milano con due valigie piene di pochi vestiti e tanti sogni. Aprirono una piccola bottega, dove anche di notte confezionavano capi di pelle. E poi due bambini, arrivati subito. Celia, sessant’anni, è sdraiata quasi immobile nel lettino del Nemo, e Demetrio le tiene la mano. Ricordano i sacrifici, il lavoro. Felici. «Abbiamo vissuto la vita, non abbiamo perso tempo», dice Celia come può, contorcendo le labbra che non smettono mai di sorridere. E poi continuano insieme a snocciolarti la loro vita, fino alla pensione, al ritorno in Friuli. Sempre impegnati in un sacco di cose. Dall’università della terza età per lui, che «ho sempre avuto desiderio di studiare, ma ho solo la quinta elementare», al tombolo e alla cura della madre per lei. Con in mezzo gite sui monti friulani, e vacanze coi nipotini. Proprio durante una di quelle estati, in Trentino, Celia si sente male. «Il medico voleva vederci chiaro. Le disse che doveva andare a fare degli esami, ma lei rispondeva che non poteva, che i nipoti la aspettavano a casa», racconta Demetrio. Era il 2009. Gli occhi dei due si riempiono di lacrime. «Tu vai in Paradiso, moglie». E lei si gira: «Ma quando vedo san Pietro, prima cosa gli chiedo di vedere il Principale. Perché non sono arrabbiata... Ma me lo deve spiegare. Mi deve spiegare perché “così tanto”. È troppo».

Aggrappati al desiderio. Perché così tanto? Cosa “tiene” davvero a questo punto? Perché la speranza l’hai vista negli occhi di tutti. Uno accetta la malattia, ha dei valori, magari, una famiglia che lo sostiene. O la fede. Come Roberto, padre di due ragazze ventenni, inchiodato da 5 anni alla sua sedia a rotelle e alle parole che faticano a uscire dalla bocca: «Accanto a me c’è Gesù. Lo vedo. Questa è vita. E questa vita ha una bellezza. Anzi, se devo dirla tutta, mi sento un uomo migliore di prima, più uomo». O Maurizio, tassista napoletano, con tre figli e ormai senza lavoro. Non ha la Sla, ma una distrofia che peggiora sempre di più: «Mi prenderai per pazzo. Ma il malato è scelto da Gesù, è un premio... È più vicino a te, perché le tue sofferenze sono più simili alle Sue. Ma insomma, Lui è andato in croce, e io non posso portare questa malattia?». Detto da uno a cui basterebbe un bicchiere d’acqua troppo liquida, «non adeguatamente addensata», per morire. È troppo?
La domanda non va via. Così te la rigiochi con chi, pensi, è abituato a stare davanti a questa gente. E nella sala infermieri non fai sconti. Quanti ne muoiono? «Qui capita, ma cerchiamo di mandarli a casa prima, a morire... E di tanti lo scopri quando magari li chiami per il ricovero periodico», spiega Pietro, infermiere. Rilancio: ma allora ci convivete con la morte, voi. «Beh, magari ti ci abitui, dopo un po’...», parte Gisella. «Ma perché sei professionale», aggiunge Angel. Davvero? «No la verità è che non ti abitui. Solo che magari trattieni le lacrime, per chiuderti poi da qualche parte a sfogarti, lontano dai parenti».
Professionalità. Umanità. Perché è troppo anche per chi dovrebbe essere assuefatto a vederli morire. Per un colpo di tosse, magari, o per altre complicazioni. O perché la malattia fa fino in fondo il suo “mestiere”. «Nella Sla il corpo si blocca piano piano. I muscoli si fermano uno dopo l’altro, privi di impulsi che li facciano lavorare. Gli arti, la parola, poi il collo. E anche gli occhi alla fine non riescono più a muoversi bene. E alla fine, così, anche senza motivo apparente, il cuore si ferma…», spiega Pietro.
Il cuore si ferma per ultimo: non te lo levi dalla testa mentre te ne torni a casa la sera. Perché è la chiave di quella sproporzione, di quel “troppo” di Celia. Lo vedi, ora, il suo desiderio, di bellezza, di verità, di giustizia. Aggrappato alla possibilità che quella felicità per cui è fatto sia realizzabile ancora. In quel letto, vicino al marito. «Non abbiamo sprecato nulla della nostra vita». Neppure adesso lo stanno facendo. Fino all’ultimo battito.