Le suore di Carità dell'Assunzione

L’oro di Napoli

Un appartamento a Forcella, per ragazzini con situazioni particolari. L’aiuto alle famiglie, il doposcuola... E i bisogni che si incontrano per i vicoli. Racconto di una giornata con le suore di carità dell'Assunzione (da Tracce, giugno 2011)
Paola Bergamini

Carmen ha 16 anni, due occhi neri, neri che brillano. Quando parla, ti incanta. Penso: «Sembra Filomena Marturano». Dopo pranzo mi recita una scena di una commedia di Eduardo De Filippo. Dice: «Il teatro è la mia passione. Suor Pi’ (che sta per Pina) mi ha portato a vedere i Promessi sposi alla prova. Bellissimo! Oggi studio con lei, ma la mia suora è un’altra: è suor Elvì (che sta per Elvira). Noi siamo una famiglia. Windya canta E se un giorno di Mina. Giornalista, sentirai che voce che tiene questa». È vero. Poi tocca a Jennifer cantare, ma lei fa fatica, la voce è un suono sottile che incespica e allora Marianna, stessa età di Carmen, le si avvicina, la guarda negli occhi, una mano sulla spalla e poi: «Calma. Iniziamo insieme. Ce la fai». Le sussurra le parole. Le note forse non sono perfette, ma alla fine tutti applaudono. Tutti sono Bonny, Sachinta, Rosa, Antonio, Matteo, Gaetano e altri ragazzini dai 6 anni in su, che ogni giorno vengono a Casa Luisa, un appartamento lindo e ordinato, nel quartiere Forcella, nel cuore di Napoli. Mangiano, fanno i compiti, giocano, stanno insieme fino a sera. A casa nessuno li può accudire. Hanno situazioni familiari difficili, a volte drammatiche, ma qui per loro la vita è un abbraccio forte che li ha fatti rifiorire. L’abbraccio che passa nello sguardo di suor Pi’, suor Luisa, suor Lavinia e le altre cinque suore di Carità dell’Assunzione, la congregazione nata dentro l’esperienza del movimento. Te ne accorgi dopo un po’ che stai con loro e guardi. C’è qualcosa che viene prima dell’ordine, della pulizia, della simpatia. Che non dipende dalla bravura o efficienza di queste donne. C’è Qualcuno che qui è carne e ossa e dà senso a ogni gesto, a ogni parola. Forse è per questo che uno struggimento prende al cuore: è un regalo questa carità. Per me. E questo è solo un anticipo.
Mentre i bambini sparecchiano, Susanna, educatrice, racconta: «Ho iniziato otto anni fa come servizio civile, dopo la laurea mi sono fermata. Le suore mi hanno insegnato a guardare i bambini per quello che sono, non per le patologie, per i drammi che vivono. A volte basta uno sguardo per capirsi. Non si scandalizzano di nulla. Non condannano. Anzi: non prendono nessuna decisione senza consultare la famiglia, fosse la più scalcagnata, la più disastrata. Per questo tutti si rivolgono a loro. Vedrà».

Il convento in sagrestia. Lo vedo quando insieme a suor Pina, la superiora, percorriamo il breve tratto di strada per arrivare al convento. Appena imbocchiamo lo stretto vicolo dove fai fatica a vedere il cielo perché i palazzi, per lo più fatiscenti, sono collegati dai fili dei panni stesi, da un balcone una donna chiama: «Pina, allora il bambino per la visita lo porto lunedì?». «Sì, puntuale». Poi spiega: «L’arciconfraternita dei Pellegrini ci ha offerto le cure odontoiatriche per i ragazzini del doposcuola e di Casa Luisa». Mentre camminiamo, altre persone salutano, ci fermano, chiedono. Capisco le parole di Susanna.
Il convento in Vico Paparelle è stato ricavato dalla sagrestia e dai locali attigui alla chiesa di San Camillo de Lellis, che i camilliani stessi, nel 1990, hanno messo a disposizione delle suore. È un continuo salire e scendere scale e percorrere stretti corridoi. E Pina racconta: «Sono arrivata nel 1990. E all’inizio per me, nata e cresciuta a Lecco, non è stato semplice. In un mese mi hanno scippato tre volte. Nel ’91 abbiamo iniziato il doposcuola. Nel ’98 abbiamo vinto una gara d’appalto con il Comune, così abbiamo potuto assumere le educatrici. Oggi sono quasi 70 i bambini - tra medie ed elementari - iscritti. C’è di tutto. Non vogliamo creare un ghetto». E Casa Luisa com’è sorta? «Nel 2006 una signora ci aveva fatto una donazione in denaro per dar vita a un’opera per ragazzi in difficoltà. All’inizio pensavamo di non avere forze adeguate. E invece uno via l’altro sono arrivati dei segni inequivocabili. Dopo qualche mese la fondazione Oliver Twist, che cercava a Napoli un’associazione per aprire una casa di accoglienza, ci contatta. I fondi ci sono, ma mancano i locali. Cominciamo a guardarci intorno perché li volevamo vicino al convento. E una mattina, ecco il cartello “vendesi” proprio a 20 metri. Casa Luisa è stata inaugurata nel 2008». E i bambini come fanno ad arrivare a voi? «Spesso sono i servizi sociali a segnalarceli e più spesso sono le famiglie stesse o le scuole. Alcuni ci sono stati inviati per il periodo estivo quando ci “trasferiamo” al mare. Dalla mattina alla sera».

A Casa Luisa, dove i ragazzi arrivano per il pranzo e si fermano fino a sera

Sui tetti di Napoli. A un certo punto sbuchiamo su un terrazzo. A noi si è unita suor Albertina. «Vieni», mi dice indicandomi una scala a pioli attaccata a un muro. Salgo e mi ritrovo sui tetti di Napoli. Le due suore mi seguono. Non sono due ragazzine: Pina ha 67 anni. Mi legge nel pensiero: «Io sono un “ragno di Lecco”. Mi arrampico ancora in montagna. Guarda che spettacolo». Iniziano a indicarmi le case, chi vi abita, e poi il convento delle suore di Madre Teresa, la chiesa dove c’è il quadro di Caravaggio... Pina, sei contenta di essere qua? «Mi sono innamorata di Napoli per il dono della vocazione. Perché è lì che Gesù mi vuole, in quel luogo, in quelle condizioni. Altrimenti... mi ci vedi? Adesso andiamo, devi conoscere Tonia».
Tonia è la mamma di Rosa, la ragazza down incontrata a Casa Luisa, che praticamente durante il giorno vive con le suore da quando era piccola, dovendo la madre andare a lavorare. Al mattino aiuta suor Luisa a far la spesa e a preparare il pranzo. Tonia abita in uno di quei palazzi cadenti per cui il tempo sembra essersi fermato al Dopoguerra. Potrebbero girarlo oggi Sciuscià, non è cambiato nulla. E invece la casa di Tonia è tirata a lucido. Tutto pulito. Ci teneva a incontrarmi, vuole raccontare: «Le ho conosciute attraverso mia figlia grande, Lia, al doposcuola. Si sono prese cura di Rosa e di me. Non mi hanno mai mollato. Quando ho avuto bisogno sono venute di notte, hanno interrotto le loro vacanze. Hanno il dono di guardare le persone per il bene che sono. Io attraverso di loro ho compreso perché Rosa è nata: per farmele incontrare. Oggi la mia vita senza questa figlia non varrebbe nulla. Ti ricordi, Pina, quando abbiamo fatto la festa della Prima Comunione solo per lei nella vostra chiesa? Sembrava un matrimonio». Si ferma e poi ricomincia: «Il rapporto tra me e Pina è quello di madre e figlia. Da qualche anno faccio Scuola di comunità con loro. La vita è più semplice se la comprendi». Ci fermiamo quando arriva il compagno di Tonia. Che prova a battibeccare con Pina su spazzatura, Governo e dintorni. Ma il “ragno di Lecco” risponde a dovere. Tonia mi dice: «È sempre così. Non si scandalizza di niente».
Torniamo in tempo per vedere i ragazzini del doposcuola. Suor Giovanna coordina. Prima il gioco e poi i compiti. L’aiuto degli educatori e del servizio civile è importante. Non solo per i bambini. Alessandra lavora con le suore da dieci anni: «Non cambierei mai. Non si è mai lasciati soli. È diverso il rapporto che si instaura con i bambini, impari ad accettarli per quello che sono». Via via ritornano le frasi ascoltate a Casa Luisa. L’esperienza di carità ricevuta è la medesima. «Le suore sono amiche», «Qui sono a casa». E sempre: «È uno sguardo diverso». Spesso sono le suore a tenere i rapporti con maestre e professori. «Ormai sono loro a chiamarci direttamente quando c’è bisogno», spiega suor Giovanna. «La direttrice della scuola elementare del quartiere ha dato l’ordine ai bidelli che le porte per noi devono rimanere sempre aperte... Anche se siamo di Cl e lei tende a sinistra». Anche questo dice di una stima acquisita senza grandi discorsi, ma che lascia una traccia nei cuori. Perché è gratuita: un dono.

Quella frase sul muro. All’imbrunire, nella minuscola cappella la recita dei Vespri. Ascoltarle e pregare è un altro regalo di questo giorno. Mi viene in mente una frase di sant’Agostino: «Concedi quello che comandi e poi comanda ciò che vuoi». È un abbraccio. Per loro e per me.
A cena le vedo tutte insieme. Suor Anna è la più anziana, 86 anni. Innamorata del suo Paese, l’Irlanda, si sente però ormai «al cento per cento napoletana». Ha difficoltà a muoversi, eppure conosce la storia di ogni bambino, di ogni famiglia. Da qualche anno fa conversazione in inglese con alcuni universitari. Suor Anna, è contenta? «Come una Pasqua. Questa è la mia vita, ringrazio Dio di vivere a Forcella. Qui ho trovato una grande compagnia e una felicità». Ognuna racconta di sé. Per tutte, con accenti diversi, per strade a volte impensate, l’incontro con don Giussani e il movimento è stato lo svelarsi della propria vocazione: la totale dedizione a Dio. Che regala ad ognuna un amore impensabile. Regala a loro, che hanno fatto voto di verginità, il fatto di essere madri di chi gli viene affidato. Come Emilia: «Tutte le mattine vado in una famiglia. Sveglio la mamma, i figli e porto i bambini a scuola. Con suor Lavinia da alcuni anni cerchiamo di mettere pace all’interno di una famiglia divisa da tanti problemi. Quando la figlia più grande è rimasta incinta è venuta da me. Non sapeva cosa fare. Io l’ho accompagnata alla prima ecografia. Piangevamo entrambe».
Lavinia, una laurea in Filosofia, per 14 anni a Milano ha servito a tavola don Giussani: «Guardando lui ho imparato cosa significa accogliere. Per dodici anni ho seguito una famiglia segnalata dalla Curia. Oggi il rapporto, pur cambiando come modalità, continua. Uno dei figli è iscritto a Scienze motorie e gli esami viene qua a prepararli, l’altro si porta la sua ragazza per fare i compiti». Luisa, una delle due napoletane, dice che la sua è una vocazione adulta: «Avevo già 30 anni. Appena arrivata mi hanno “accollato” Jennifer. Dormiva sempre, era una difesa per sopravvivere in una famiglia piena di problemi. Seguivo lei e il fratello autistico. All’inizio mi ammazzavo di lavoro e pensavo di risolvere tutti i loro problemi. E invece era necessario un sano distacco. Tutte le mattine dico al Signore: “Fai tu”. E poi io seguo».
Albertina è l’economa, l’idraulico, il falegname. «È l’uomo di casa», mi dicono ridendo. «È la nostra pi-erre», spiega suor Pina: «Segue i bandi, i concorsi, i progetti per avere fondi e convenzioni». Albertina è infermiera. «Ho seguito un signore ammalato di tumore, fino alla morte. Per un anno la famiglia non l’ho più sentita, poi un giorno mi chiama la moglie: si sente sola, è triste. L’ho invitata a venire da noi. Oggi fa Scuola di comunità con il gruppetto delle mamme del giovedì».
Elvira è la più giovane. Era la suora di Carmen prima... «Prima di riprendere in mano i libri per conseguire la seconda laurea in Scienze dell’educazione, come richiesto dal Comune. Con Carmen il rapporto è stato subito strettissimo: chiedeva certezza, la possibilità di costruirsi. L’amore ricostruisce. Ma questo vale per ognuno di noi». Giovanna, oltre al doposcuola, segue i Cavalieri (la proposta di un’esperienza cristiana per i ragazzi delle medie; ndr): «Per alcuni adulti del movimento questa è stata l’occasione per una rinascita. Il legame con i bambini rimane anche quando diventano grandi. A volte, dopo anni, ti vengono a trovare. E vedi miracoli impensati».
Al termine della serata, suor Pina mi dice: «Hai letto la frase sulla parete? È del don Gius». Non aggiunge altro. E io leggo: «L’essenzialità della vostra origine sta nell’unità profonda tra missione e vita religiosa. E la missione è che il cuore vada incontro ai bisogni degli altri, perché anche loro vivano con Lui come con qualcuno che si ama». Napoli, per me che non l’avevo mai vista prima, è questo dono.