Benedetta Bianchi Porro

La stanza di Benedetta Bianchi Porro

Una giovane romagnola muore dopo una lunga malattia. Una testimonianza che rincuora nel sopportare le circostanze drammatiche della vita e nella fatica della fede. Il cammino verso la santità, per tutti un ideale concreto (da Tracce, luglio-agosto 2001)
Paola Bergamini

Entra a passi veloci nella stanza piena di luce di questa giornata di inizio giugno. Si siede sul bordo del divano, prende la copia di Tracce lì appoggiata: «Bella copertina! È il suo giornale?». «Sì». Lo sguardo corre veloce su Corrado, sulla moglie Pia. Sorride: «Lui era il preferito di Benedetta. Io lo sgridavo perché perdeva tempo a scrivere poesie e lei lo difendeva dicendomi che non capivo. Aveva ragione». «La Benedetta aveva pazienza, un amore paziente per le persone...». Solo per un attimo alla mamma di Benedetta la voce si incrina e gli occhi s'annacquano. Ma chi era Benedetta Bianchi Porro, morta a 27 anni dopo una lunga malattia che negli ultimi sei mesi l'aveva resa sorda, cieca, semiparalizzata e immobile nel letto, e di cui è in atto la causa di beatificazione?

Si riprende subito la signora Elsa, la voce torna ferma e squillante, tradendo l'origine romagnola. «La Benedetta... la Benedetta era una bella ragazza, molto intelligente - se la malattia non glielo avesse impedito, si sarebbe laureata in Medicina a 23 anni -, serena, allegra, con una capacità straordinaria di raccogliere intorno a sé le persone. Fino all'ultimo. La sua stanza era sempre piena di amici, di religiosi, che venivano a trovarla. Era un andirivieni continuo. Perché lei aveva qualcosa da comunicare: una fede concreta, vissuta in quella situazione di sofferenza. Ne ho visti tanti uscire da quella stanza con le lacrime agli occhi per quello che lei aveva detto loro. Ma su questo era molto schiva, non voleva essere elogiata. Spesso mi diceva: "Mamma, io non ho nessun merito. Il Signore mi ha dato dei doni. Bisogna solo ringraziarlo". Un fatto, forse, spiega meglio. Era Pasqua. L'ultima sua Pasqua. A tavola c'era stata una discussione molto animata. E lei, pur essendo sorda, se ne era accorta. Quando la portai a letto mi chiese il perché di tanta animazione. "Parlavamo di te. Dicevamo che tu sei santa. Per questo accetti tutto". E lei, di rimbalzo: "Finitela con questi discorsi. Se lo dite e non è vero, siete degli ipocriti. Se è vero, poche chiacchiere e cercate di imitarmi". Il giorno dopo riferii l'accaduto a un frate commentando: "La Benedetta è anche orgogliosa!". "Questo non è orgoglio. Se la segni, questa frase, perché è da santi". L'ho segnata nel mio cuore».

Una stanza piena di gente. Ma come era possibile comunicare con lei, cieca e sorda? «Noi eravamo la sua penna - spiega Corrado -. All'inizio, quando era solo sorda, usavamo l'alfabeto muto; poi, quando è subentrata anche la cecità, lei appoggiava la sua mano sulla nostra per "leggere" le lettere dell'alfabeto. Così era un dialogo continuo. Carmen, l'altra sorella, era velocissima. Benedetta ci ha fatto toccare il paradosso della croce. Che salvezza può dare una malattia che via via ti fa perdere la possibilità di comunicare? E invece no. Più la malattia progrediva, più la stanza si riempiva di gente. Benedetta ha accettato questa croce come dono per sé e per noi». La signora Elsa non riesce a stare zitta: «Mio marito non capiva come mai tanta gente venisse a trovarla. "Il Signore le ha tolto tutto. Cosa vengono a fare?". E io: "Non ti domandi perché?". "Sì, e non ho risposta. L'artista che recita, che scrive, che balla, raduna attorno a sé la gente. Ma lei non è neppure più bella!". "È lo Spirito Santo che parla in lei!". Abbassò gli occhi e disse: "Forse hai ragione". Lui che stravedeva per questa figlia definendola "un cervello unico". Lui che ha capito che la vita era una cosa seria quando Benedetta si è ammalata tanto da cambiare la sua stessa vita. Tutte le mattine entrava nella sua stanza a fumare una sigaretta senza dire niente, non ha mai voluto imparare l'alfabeto».

La signora Elsa prosegue: «Ci fu un periodo in cui io e lui eravamo molto tesi. Benedetta, quando seppe il perché, mi disse che voleva parlare con il babbo. Per giorni tergiversò fino a quando lo affrontai: "Guarda che se Benedetta muore senza che tu le abbia parlato, avrai per sempre il rimorso". La mattina seguente venne in camera e lei, prendendogli le mani, disse: "Babbo, le tue manone grandi che lavorano per noi". "Sì, lavoro, ma sono contento di farlo per voi". Se ne andò piangendo. Io ero in un angolo. E sbottai: "È un mese che lo cercavi e poi cosa gli dici: buon lavoro. Sono senza parole!". "Anch'io mamma". "Siamo in due!". "No, mamma, io sono senza parole perché sono molto meravigliata di te". "Di me? Io di te, Benedetta". "Mamma, quando tu preghi rimetti a noi i nostri debiti... non sai cosa dici. Ma cosa pensi, che il rimprovero agisca molto? Quando la persona sbaglia falle sentire di più che le vuoi bene. Forse così si vergognerà". Ammutolii. Parlava senza parole. E vedeva ciò che noi non vedevamo. La sua sensibilità si era affinata nella malattia. Ricordo che una volta le dissi che Manuela, l'altra sorella, piangeva per niente. Mi redarguì: "Quando uno piange non è mai per niente. Soffre. Anche se è per una sciocchezza, soffre". Tappò la mia linguaccia».

Ma la paura? «In una lettera - interviene Corrado -, ricordando il passo evangelico della tempesta sul lago, scrisse: "Non bisogna aver paura di dire: 'Ho paura'. Solo così Dio saprà trarre il bene anche dal male"». La signora Elsa si alza di scatto: «È tardi. Devo andare. Mi lascia la copia del giornale? Bene. Facciamo il viaggio insieme?». Certo. Sul treno che da Como ci riporta a Milano mi racconta di sé, della sua gioventù, dei figli e, ricorrente, una parola torna sempre: Benedetta. Anzi, non una parola, una presenza. Benedetta era lì. Alla stazione di Cadorna, ci salutiamo. Mi prende le mani e mi bacia. Come se ci conoscessimo da sempre. Di getto le dico: «Preghi Benedetta anche per me». «Certo. Ma lo faccia anche lei». Già, Benedetta ora è diventata anche per me una presenza. Succede così con i santi: invadono la vita e non ti lasciano più stare.