La comunità "Pinocchio"

Non è una favola

Fidel è passato dalla droga alle lacrime davanti al figlio. Walter non se ne vuole più andare... Siamo andati a vedere Pinocchio, un’opera che da 26 anni non smette di crescere. Rimanendo sempre fedele a ciò che l’ha generata (da Tracce, settembr
Paolo Perego

Piange. È che parla pochissimo in pubblico. Ma questa volta si è alzato sulla sedia è ha rilanciato. «Domande, desideri... Io voglio risposte», ha detto balbettando. Poi gli occhi di Fidel, cileno adottato a Milano, ragazzone di 25 anni, scivolano sul figlio di otto anni seduto davanti a lui, che è venuto a passare un po’ di tempo col papà. Sul lungo tavolo si fa silenzio. Solo il rumore delle posate nei piatti. Intorno, una ventina di ragazzi pranzano, nel refettorio della comunità, uno stanzone al piano terra della cascina ristrutturata di Rodengo Saiano, nella Bassa bresciana. Di questo si parla, davanti a una pastasciutta. Di desiderio buono. Di felicità. Del fatto che a volte capita che si trovi una risposta sbagliata. Come la droga. La “sostanza”, la chiamano qui. È per questo che quei ragazzi sono a Rodengo, alla comunità di recupero per ex tossicodipendenti “Pinocchio”.
Una storia nata nel 1986, da tre agrari neodiplomati, cui interessava lavorare insieme per continuare l’esperienza di vita cristiana che avevano incontrato in università con Cl. «Ora con me è rimasto Massimo Piva», racconta Walter Sabattoli, co-fondatore e ora dirigente dell’opera. «Ci infilammo nella gestione di una piccola azienda agricola a Mompiano, sopra Brescia, per accogliere i carcerati che potevano godere di misure alternative alla detenzione. Coltivavamo, raccoglievamo. E poi vendevamo al mercato. Una quarantina di accoglienze in sei anni». E intanto quel desiderio prendeva forma. «Nel 1991 abbiamo comprato un casale con del terreno, qui a Rodengo. E l’anno dopo, siamo partiti con la comunità terapeutica».
Erano i primi passi di quello che è Pinocchio oggi: un gruppo di cooperative, in cui si inseriscono le attività dell’opera. «Dalla cura delle aree verdi, al settore agricolo, con la produzione di mele e vino, all’azienda cartotecnica, alla falegnameria».
«Non solo droga», dice Sabattoli: «Ci sono anche altre dipendenze patologiche. Alcol, farmaci. E l’accoglienza si estende anche a persone con problemi psichiatrici e in situazione di disagio sociale». È un’altra ala della cascina quella che accoglie gli ospiti della casa-famiglia Il Brutto Anatroccolo. «Depressi, psicotici. Alcuni non sono autosufficienti, altri recuperano».

Cip e L’eternauta. Come? «La questione vera, scoperta in anni di esperienza, è che non basta fare compagnia e insegnare un lavoro», spiega Sabattoli guardando il meleto, senza lavoratori perché in questo periodo richiede meno cure. «Dietro al recupero di un ragazzo c’è il lavoro di tante persone, educatori, medici, psicologi, assistenti sociali». Con quasi 40 ospiti, per i quali ci sono 29 posti accreditati e 10 nella psichiatria accreditati dalla Regione, le cose si devono fare per bene: «Poi è chiaro che non dipende solo da te. Ci devi essere tutto, certo. Ma sei umano. E sono umani quelli che accogli». Così, qualcuno può scappare, o fatica a entrare in rapporto. «La questione è che ti devi porre davanti a loro leale con quello che desidera il tuo cuore. Se non ami la tua libertà, te stesso, allora come ti possono credere quando lo dici a loro?».
I primi che incrociamo, al mattino, sono proprio i sedici dell’Anatroccolo, mentre con Mauro Gavazzi, responsabile della casa, fanno il planning della giornata. «Alberto deve sistemare le sue cose, Pietro fa lavanderia». C’è Claudio “Cip”. Il pittore-poeta. Ti spiega che ha appena scritto dei versi, L’eternauta, e ti fa vedere un disegno, con una campagna. «È quotato?», gli fa Mauro. «Be’, questo sì. Cinquanta euro, questo». E c’è Alberto, di Milano. Ama la sua città, la sua Porta Romana. Ma non ci vuole tornare, anche potendo. Sarebbe solo.
Alla comunità terapeutica dei tossicodipendenti la scena è la stessa. Una ventina di ragazzi, a cerchio in una sala al pian terreno. Si leggono le vite dei santi. «Perché sono quelli a cui guardare ogni giorno», ti dicono. E poi l’Angelus. Dalle pareti partecipano foto e ricordi di chi di lì ci è passato e ne è uscito. Poi la lettura del diario, di quello che è successo il giorno prima. La difficoltà di Nicola sul lavoro, o la discussione tra Roberto e un operatore: «Perché tutto quello che accade non scivoli via», dice Walter. Quindi, si distribuiscono i compiti. Qualcuno andrà alla cartotecnica, altri alla falegnameria. Oppure nel vigneto.

L’unico metro. Accoglienza, riabilitazione e reinserimento nella società. «Alla fine del loro percorso i ragazzi vengono reintrodotti al lavoro nelle nostre cooperative, fino all’autonomia lavorativa e abitativa», spiega Sabattoli.
Può bastare? I ragazzi a tavola parlano di altre scoperte. Di cosa vuol dire amicizia, famiglia. «Di che cosa avevo davvero bisogno quando mi facevo», spiega Giuseppe, 31 anni, di Bergamo, in comunità da più di un anno: «Volevo essere all’altezza di quelli che frequentavo. Essere qualcuno. Ma poi la vita inizia a ruotare intorno alla droga, da quando ti alzi al mattino. Tutto. Anche i rapporti. Li distruggi. L’unico metro è farti», spiega. Per poi raccontare di aver ritrovato, oggi, anche la fede. Di sentirsi salvato. Federico di anni ne ha 36. È di corvée in cucina, con Michele. «Cosa facevo prima? Il delinquente. Cosa sto scoprendo qui?». Qualche secondo. «Vedi, ho un figlio. Di cinque anni. Mi hanno dato il permesso di incontrarlo. Non lo vedevo da quando aveva due anni. Mi avrebbe riconosciuto? E invece mi è corso incontro gridando “Papà!”. Ero il suo papà!». Insomma, qui iniziano a scoprire cosa desidera il loro cuore. E che il loro desiderio di felicità, in fondo, non è mai stato sbagliato.
Ti inondano con le loro storie i vari Aziz, Roberto, Nicola. Giuseppe, 23 anni, arrivato da pochi giorni. E Alan, veronese di 19 anni, adottato, appassionato di mountain bike, in comunità solo per gli spinelli. O ancora Fabrizio, primo anno di Lettere a Brescia, che sta studiando per gli esami.

Il Campo dei Miracoli. Qualcuno è a lavorare con Luigi Galluzzi, dei Memores Domini, storica presenza di Pinocchio, tra le viti di Merlot e Groppello, che servirà a riempire le bottiglie etichettate “Campo dei Miracoli”. Gianni, per esempio. Dal Sud all’hinterland milanese, un lavoro da commerciale, faticoso. E la droga. Poi una ragazza, il sogno di vivere insieme. Un mutuo. Ma lei se ne va, e nella solitudine torna la “sostanza”: «Oggi sto diventando libero. Ho anche detto ai miei che sono un drogato. E loro mi hanno abbracciato...»
Anche un altro Gianni ha cambiato vita incontrando Pinocchio. Ora guida la cartotecnica, dove si assemblano cataloghi, si tagliano cartoncini, si lavorano cartellette piegando e incollando. Tutto in conto terzi. «Una volta, per l’azienda dove lavoravo ero io a passare i lavori a Pinocchio...». Quelle facce erano liete, felici. Lo voleva per sé. Così lascia il lavoro, «un gran bel lavoro». E va da Walter: «Voglio stare con voi». Eccolo ora nel capannone a capitanare la squadra di una decina di ragazzi. «Coi vecchi colleghi che mi chiedono ancora se sono matto. No, non sono matto».
Al piano di sopra, c’è il laboratorio di falegnameria, dove si fanno oggetti in legno lavorati col traforo. Orologi, attaccapanni, giocattoli. Cinque ragazzi armeggiano con pennelli e colla. «Li vendiamo nelle fiere», dice un altro Walter, ex ospite della comunità, che oggi fa il responsabile di questa attività: «Facevo il pizzaiolo. Ora voglio stare qui tutta la vita», dice trafficando con dei legnetti pitturati.
«E questa è l’ultima nata, ormai è finita», dice Sabattoli entrando nella nuova struttura che ospiterà la comunità psichiatrica. Una costruzione su due piani, con decine di camere, sale. Perfino un teatro. «Tutta eco-compatibile, ad autonomia energetica», spiega. «La inaugureremo il 6 ottobre. Un frutto inaspettato. Abbiamo presentato il progetto e, nonostante il prestito fosse ingente, le banche ce l’hanno concesso. E poi l’aiuto di tanti amici legati alla Compagnia delle Opere, nel progetto, nella realizzazione...». La garanzia per le banche? Una gestione della cooperativa molto curata, bilanci sempre in attivo, la capacità di sostenersi con le entrate ordinarie, usando lo straordinario, raccolte fondi o donazioni, per gli investimenti.
Tanta parte dell’ordinario arriva dall’attività di cura del verde pubblico a Rodengo e Brescia. Una ventina di uomini, quasi tutti usciti dalla comunità o segnalati dai servizi sociali. Divisi per squadre, tagliano aiuole, falciano l’erba ai bordi delle strade. O curano giardini botanici, come quello della Montagnola nel centro di Brescia. A guidarli da anni c’è Gianluigi, tuta da lavoro e occhiali da ciclista. «Un padre», ti diranno i ragazzi a fine giornata durante una ghiacciolata, nel magazzino delle attrezzature.

Nessun progetto. «L’inserimento lavorativo è una parte fondamentale della nostra mission», spiega Massimo Piva, oggi responsabile della sezione lavoro di Pinocchio: «Non solo perché li aiuta a uscire dal loro problema, ma perché li responsabilizza e li fa lavorare insieme. Devono avere cura dei mezzi, devono essere attenti alle regole. Fare bene. E si richiamano gli uni con gli altri. Sono lavori in cui se uno fa male, gli altri lavorano il doppio».
«La libertà, il desiderio: si giocano nella carne, ogni giorno. Per loro, davanti a quello che devono fare. E per noi, chi guida, davanti ad ogni faccia che incontriamo appena arriviamo al mattino», dice Sabattoli davanti ai membri del direttivo della Pinocchio.
«Qui nessuno tiene la bandiera: il carisma dell’opera è lo stesso di quella compagnia che l’ha generata», dice Massimo Montesano, direttore generale arrivato a Rodengo Saiano dopo anni di lavoro nel sociale. «Vero», incalza Sabattoli: «Ventisei anni sono passati per la cooperativa, non per me. E questo è possibile solo per un lavoro su di te ogni giorno, non per una volontà di fare». Come a dire, che se fosse stato un problema di capacità, non sarebbe venuto su nulla di così durevole, forse. «E infatti sono nate cose impensabili. E sei disposto anche a cedere il passo a chi è più bravo di te nel fare le cose», continua Walter. Come Matteo Olerhead, 25 anni, chiamato a fare l’amministratore. O Giovanna Lobba, la moglie di Mauro, nominata presidente dalla Cooperativa. «Lo puoi fare perché non hai il problema di salvare nessuno se non te stesso. È Gesù che mi interessa, quella origine da cui è partita questa cosa. E davanti ai ragazzi ti accorgi che hanno a cuore ciò che hai a cuore tu. Anche se non lo sanno». Devi essere credibile: guardano tutto di te, e ciò che sei deve “tenere” davanti a loro: «Non vogliono il pietismo, cercano qualcosa che gli interessi». Questione di coerenza? Di ruolo? «No. E il ruolo te lo sbattono in faccia, se prevale», risponde Sabattoli. «La quotidianità è dura, ma non è mai l’ultima parola. In questo viene fuori il punto di origine di tutto. Il mio rapporto con Gesù si gioca lì, nella comunità. Questo ha reso entusiasmante il compimento del sogno con cui eravamo partiti, non grandi progetti».
Oggi accade attraverso volti diversi. «E continua a cambiarci la vita. La nostra, e quella dei ragazzi», dice Walter guardando un gruppetto sotto il portico mentre, tra due chiacchiere e qualche sigaretta, si attende la cena. E poi dentro, al lungo tavolo. Con quello di turno che deve servire gli altri. Li guardi e pensi che non è una favola, Pinocchio. Rimane giusto il tempo di dire grazie a Walter «per quello che fate». «Facciamo poco, noi. E quel poco stiamo ancora imparando a farlo».