Un viaggio indelebile

È il 1962. Quattro universitari partono per il Brasile. Dopo di loro, tanti altri andranno nel mondo. Oggi Giancarlo Conci, tra quei primi, si volta indietro: «Io cosa ho fatto? Sono stato preso e ho detto sì»... (da Tracce, ottobre 2012)
Paola Bergamini

«Lo rivedo lì, il don Gius, seduto sul divano di casa perfettamente a suo agio con quel sorriso da lobo a lobo a chiedere ai miei genitori di lasciarmi partire per un anno in missione in Brasile». Sono passati cinquantuno anni da quella sera di novembre del 1961, ma per Giancarlo, oggi avvocato, quell’immagine è stampata in modo limpido e preciso nel cuore e nella mente, tanto da ricordare i particolari. Ma non è un ricordo chiuso dal tempo. È un po’ come quando ci si innamora della persona con cui si passerà tutta la vita e c’è quel momento in cui si ha la percezione che deve essere un «per sempre». «È ancora di più», dice. «La memoria di quel sì, detto forse un po’ inconsapevolmente, ma certo per quello che stavo seguendo, dei luoghi, dei visi conosciuti è per me attualissima. Posso dire che la dimensione della missione vissuta in quell’anno è stata un mattone portante della mia vita perché era la conferma che ciò che ci dicevamo era un’esperienza, non un’ideologia, prendeva carne giorno per giorno. Oggi ne ho tutta la consapevolezza e ne capisco l’importanza. Forse è difficile da spiegare, ma lì è avvenuta la mia conversione, la mia formazione. Un po’ come gli apostoli con Gesù. Dopo hanno compreso. Oggi nelle parole di don Carrón vedo il compimento, il cammino di quell’esperienza».
Giancarlo Conci quell’autunno è iscritto al terzo anno di Legge alla Cattolica di Milano. L’incontro con l’esperienza di Gs era avvenuto tra i banchi del Berchet. Quelli della III A lo avevano invitato in via Statuto al raggio che teneva don Giussani, quel suo insegnante di religione così rigoroso e così affascinante «che quando ti guardava sembrava ti leggesse dentro». Giancarlo in quel periodo frequenta un gruppo di spiritualità. Ricorda: «Si pregava molto, forse era un po’ misticheggiante per come ero fatto io. Avevo bisogno di un ambito».
Dopo alcuni incontri in via Statuto, parla con don Giussani per capire cosa fare e a chi far riferimento. «Va dove ti senti più libero», è la risposta. Decide di rimanere con i nuovi amici. «Ho cominciato a seguire. Non sono mai stato uno dai grandi interventi, dai facili entusiasmi. Ma sono grato di questo: di essere stato fedele a quell’attrattiva». Il raggio, la caritativa e poi la “Scuola Gs” alla domenica mattina in via Sant’Antonio, dove Giussani mette a tema le tre dimensioni della vita: caritativa, cultura e missione. Proprio in quegli anni comincia a delinearsi la possibilità concreta di partire, di incontrare altre realtà.
Nel 1960 Giussani conosce monsignor Aristide Pirovano, vescovo del Pime a Macapà, nel territorio di Amapà nel Nordest brasiliano, e, attraverso di lui, Marcello Candia, industriale milanese che sta pensando di lasciare l’Italia per andare missionario in Brasile. Da incontro a incontro, Candia fa conoscere suor Raffaella della Congregazione dello Spirito Santo di Lucca, che a Belo Horizonte dirige un collegio femminile. Quell’anno Giussani parte per il suo primo viaggio in Brasile. Comincia ad aprirsi una strada missionaria in Sud America. Nel 1961 un giovane brasiliano, Marco Aurelio Velloso, leader della Uec (Unione degli studenti Cattolici) di Belo Horizonte, incontra a Milano l’esperienza di Gs. I rapporti si infittiscono fino all’invito che alcuni giessini si fermino un anno ad insegnare nel collegio diretto da madre Raffaella. Il 7 gennaio 1962, Giancarlo Conci, Lidia Acerboni, Italo Quillico e Franca Ferrari, accompagnati in treno da Giussani a Roma perché a Linate a causa della nebbia il volo era stato dirottato sulla capitale, partono per Belo Horizonte. «A Milano la proposta era stata subito ben chiara: si era presentata questa occasione come testimonianza concreta della categoria della missione. Noi andavamo in quanto movimento e ci si metteva a disposizione. Eravamo lì come Gs e Gs era con noi. Non eravamo soli. Non dovevamo fare, dovevamo essere. Questa è stata la grande intuizione di Giussani. Non andavamo a salvare il mondo, eravamo lì per la Chiesa, a testimonianza di ciò che avevamo di più caro: Gesù Cristo». Nell’agile librettino Intercambio studenti scritto da Gioventù Studentesca, in vista del viaggio in Brasile, nelle prime righe si legge: «Non può essere educazione veramente cristiana se la cattolicità della Chiesa non diventa fattore costitutivo della mentalità stessa del giovane. D’altra parte è solo attraverso l’impegno con dei fatti che il giovane viene educato più facilmente e più precisamente».
Ad attenderli all’aeroporto di Rio, suor Raffaella. Il trasferimento a Belo Horizonte, dove le ragazze sono ospitate nel collegio, mentre Giancarlo e Italo nella canonica della vicina parrocchia di Sant’Antonio. A pochi giorni dall’arrivo vanno a trovare il vescovo della città, monsignor Serafin, per parlargli delle loro intenzioni e della vita di Gs, come regalo gli donano il libretto rosso Gioventù Studentesca in Brasile e un crocifisso che era stato regalato a Lidia dagli amici del suo raggio.

Viaggi notturni. I primi due mesi imparano il portoghese e a marzo iniziano ad insegnare nel collegio delle suore. Tranne Italo, che per problemi fisici, è costretto a rientrare in Italia.
Quasi ogni giorno si vedono con i ragazzi del movimento cattolico, condividono e giudicano quello che succede. Più volte tornano a Rio de Janeiro per partecipare a incontri organizzati da un ordine di suore francesi con cui erano entrati in rapporto e che a loro volta vogliono approfondire la conoscenza dell’esperienza italiana. Accade la stessa cosa con una comunità di monaci benedettini. Quando il pittore William Congdon viene a trovarli, noleggiano un furgone e girano il Paese. Non perdono nessuna occasione. «Cercavamo contatti», continua Giancarlo: «Perché Gs era un movimento universale e lo scopo per cui eravamo andati in Brasile era quello di far conoscere la nostra esperienza e incontrare la loro. Questa per noi era la cattolicità».
Insieme ai nuovi amici brasiliani vanno nelle favelas e una sera alla settimana fanno la “ronda”: in macchina portano termos e coperte ai senzatetto, ai più poveri, che vivono sotto i ponti delle grandi arterie della città. È una goccia in un mare di bisogni. Don Giussani in una lettera aveva loro scritto: «Padre Beduschi, uno dei primi missionari in Africa, ci rimase tre anni facendo un battesimo e morendo di peste nera. Amici miei, ricordiamo che Dio è vero, e che la realtà è amarLo. E basta. In conclusione, tutte le difficoltà, tutta la mancanza di risposta, tutta la tentativa amarezza per non poter fare, tutta la mortificazione per uno sbaglio, altro non è che richiamo all’essenziale, Dio e il suo Cristo». Dopo questi “viaggi” notturni o al ritorno dalle favelas, si ritrovano insieme agli amici brasiliani per comunicare impressioni, esperienze. «In quelle riunioni, che erano come i nostri raggi, partendo da ciò che era successo si andava al fondo del significato per cui eravamo lì. Il significato della vita. Quasi vent’anni fa uno di quei ragazzi, in Italia per lavoro, è venuto a cercarmi. Segno che qualcosa di indelebile anche per lui era accaduto».

La decima e la “particella”. Ogni settimana a turno scrivono a Giussani, agli amici, raccontano la loro giornata, chiedono di pregare. È una corrispondenza fittissima. Sono stati mandati e la loro esperienza è per tutti.
Nella lettera di fine febbraio, a firma di tutti e quattro, si legge: «Carissimi, vi assicuriamo che il sentimento dell’unità con voi continua e diventa sempre più profondo, nella misura in cui il tempo è vissuto come occasione di una consapevolezza sempre maggiore. Il ricordo di ciò che abbiamo lasciato e la vostra presenza attraverso le lettere ci richiamano che appartiene in certa maniera anche a voi quello che facciamo qui. Di fatto noi non stiamo facendo niente di eccezionale; il miracolo vero che può accadere qui è che noi riusciamo ad adeguarci totalmente alle persone con cui viviamo. E questo richiede molta pazienza. Preghiamo perché questo avvenga».
In Italia per tenere ancora più stretto questo legame, viene istituita la raccolta delle decime. Ogni studente dà una piccola percentuale della mancia che riceve in famiglia a sostegno della missione brasiliana.
«Proprio per educarci alla dimensione della missione, Giussani ci aveva chiesto di scrivere, di ricordarci nelle preghiere del movimento, degli amici in Italia. Così esprimevamo questo senso di appartenenza comunitaria. La nostra comunità era “particella” - come aveva scritto Giussani - della comunità di origine. Stavamo sempre insieme, una novità per alcuni tanto che ci chiedevano se eravamo fratelli. Questo ha salvato la nostra esperienza anche dopo la grande confusione del ’68. La novità, allora come oggi, non è determinata dal fare, ma dall’essere, cioè riconoscere un’unità nel seguire una persona: Gesù Cristo. Nel lasciare fare un Altro, che ti ha incontrato, che fa. Essere nella favela di Belo Horizonte o nelle cascine della Bassa a far giocare i bambini era la stessa cosa. E ti rimane per tutta la vita. Anche per chi poi ha abbandonato. Qualche anno fa, ho rincontrato una persona che aveva vissuto la nostra stessa esperienza e che ha preso tutt’altra strada, ma sono convinto che comunque ciò che abbiamo vissuto assieme sia stata per tutti noi una esperienza indimenticabile».
Prima di Natale, rientrano in Italia e per alcuni mesi “girano” nei vari raggi per raccontare l’esperienza vissuta. Dopo di loro altri ragazzi partiranno per la missione in Sud America e in tutto il mondo. «Se mi volto indietro e ripenso a tutto quello che è avvenuto dico: “Ma io cosa ho fatto?”. Sono stato preso e ho detto sì. A volte quasi mi spavento pensando che dobbiamo rispondere di questa abbondanza di grazia e tenerne viva la memoria nella vita di ogni giorno. Perché è difficile trasmettere questa pienezza. Ma per me è stato e rimane come un secondo termine di paragone alla luce del quale capisci sempre quando sbagli o ti tiri indietro davanti alla realtà». È il Signore che fa.