Qui non si fanno sconti

Una comunità di famiglie alle porte di Como, da cui è nata una realtà che va dall’affido all’aiuto allo studio. Siamo andati a vedere come l’origine sta rinnovando il cammino di adulti e ragazzi (da Tracce, dicembre 2012)
Paola Bergamini

Su un foglio, prima di partire, me li ero segnati, per non sbagliare: Erasmo e Serena: 2 figli naturali, 6 in affido; Cente e Marina: 8 naturali, 6 in affido; Mirella e Lorenzo: 3 naturali e 5 in affido; Paolo e Marilena: 2 naturali e 6 in affido; Elisabetta e Marco: 3 naturali e 5 in affido. Alla stazione di Como, dove mi viene a prendere Mirella, lo metto in tasca. Può servire come promemoria.
Quando arrivo, Susy mi viene incontro. «Vieni su un momento nel nostro studio. Erasmo ti aspetta. Veramente ti aspettano tutti». Immagino. E non è solo per l’articolo. Chiunque varca i cancelli di Cometa è aspettato e accolto. L’ho visto e provato tutte le volte che sono venuta da sola o accompagnando qualcuno. Non te ne vai mai via come prima da questa cascina ristrutturata alle porte di Como dove oggi vivono cinque famiglie che hanno aperto la propria vita all’accoglienza di minori. Non è solo bella, nulla è a caso fin nei dettagli. «Ci vediamo dopo a casa mia per un caffé. Intanto io porto dentro la spesa», dice Mirella. Qui il tempo non si disperde. Si ha l’impressione che quasi si dilati, per la tensione di vivere che si respira.
Lo studio di ristrutturazione Figini&Pagani è al primo piano. È loro il progetto di ristrutturazione di Cometa. «Volevo solo dirti una cosa», mi dice Erasmo Figini: «Il punto di origine di tutto quello che vive qua è la comunione, la conversione di quattro persone nell’incontro con un testimone irriducibile: don Giussani. Da quel momento sono stati tutti dei “sì” vertiginosi. Domani Cometa potrebbe non esserci più».

Dopo 38 anni... Cosa significa: potrebbe non esserci più?! Sembra un’affermazione impensabile. Intuisco che questo è il punto di novità. Da comprendere in questa giornata. «È il Signore che fa, accompagna. Come è stato con tutti i bambini che abbiamo avuto e abbiamo in affido. Come è stato con Chicca. Una grazia averla con noi». Chicca era affetta da una malattia degenerativa. Erasmo e sua moglie Serena l’hanno presa in affido a maggio, a due mesi di vita, e l’hanno accompagnata fino alla morte, il 14 ottobre. «In tutti questi anni abbiamo sempre rifiutato situazioni di malattia e di dolore. Poi è arrivata lei. Abbiamo detto sì. Ha rinsaldato i rapporti dentro la nostra famiglia. Per i figli naturali e quelli in affido. Anche loro l’hanno accompagnata, certi di una cosa buona». Si affaccia alla finestra mentre in cortile passa Serena, tra le braccia un neonato. «È l’ultimo arrivato. Andrà in adozione. Oggi dopo 38 anni di matrimonio la guardo ancora per la sua bellezza, vedo quanto il Mistero ha compiuto. Non ha tolto niente, ha aggiunto. A dopo».
Mirella e Lorenzo abitano nella nuova ala di Cometa. «L’arredamento, un po’ provenzale, l’ha pensato Erasmo con mio marito, quando la sera tornava dall’ospedale. È medico». E prima? «Abitavamo qua vicino. Io sono arrivata per strane coincidenze. Lavoravo con Maria Grazia come assistente sociale. Quando mi sono sposata, nel 1998, mi ha detto: “Vai a vedere cosa fanno i miei fratelli”. Siamo rimasti colpiti. Era per noi». Si trasferiscono a Como. Arrivano i figli naturali e inizia l’accoglienza. «Questa è un’esperienza certa. Di comunione». Tornano quelle due parole. «Sei sorretto in quello che ti viene chiesto. Lo scopo non sono i figli. Il Signore fa. Altrimenti è impossibile. Quante volte è capitato di avere una pretesa su chi accogli. Hai bisogno di qualcuno che ti faccia alzare lo sguardo. Poi il Signore sempre ti regala dei miracoli». Come è stato con il papà di Mirella che all’inizio non era d’accordo con la loro scelta. Nel 2007 è in vacanza sulla Riviera romagnola, durante la settimana del Meeting. Mirella gli butta lì: «Vieni a vedere la mostra che abbiamo fatto su Cometa». Gli organizza una vista guidata “singola”. Ma alla fine si trova dentro un gruppo affollato. Dopo l’ultimo pannello la cerca. «Sono commosso. Questa è la tua vocazione». Adesso viene a trovarli o nei weekend si porta via qualche ragazzo. I figli naturali cosa dicono? «Se vedono che siamo certi sono contenti». Il suo cellulare vibra: «Puoi passare tu in farmacia, così io accompagno un bambino allo “Spazio famiglia”? La comunione è anche questo. Chiedi».

La sala per il centro diurno di aiuto allo studio

«Adoperami all’infinito». Il telefono squilla in continuazione nelle due stanze con vista sul lago dell’Associazione Cometa. Alle pareti i disegni dei bambini. È un punto nevralgico per educatori, psicologi, volontari, genitori naturali e affidatari... per tutti. «Vieni dentro», mi chiama Maria Grazia, responsabile di tutte le attività dell’Associazione. «Qui sei sempre in diretta, nelle situazioni di bene e di dolore. Dalla mattina alla sera. Puoi non farti travolgere solo se lo fai per servire un Altro. È il Signore che fa la mia agenda ogni giorno». Quando i servizi sociali l’avevano chiamata chiedendo una famiglia per Chicca, che sarebbe morta di lì a pochi mesi, Grazia all’inizio era stata reticente. Era una situazione troppo pesante da mettere sotto gli occhi di bambini con già tante ferite, dolori. Un medico le dice: «Mi sorprende che proprio lei dica questo. La morte fa parte della vita». «È stata una lezione. Vivere in questo luogo è una continua provocazione alla mia vocazione». Per te Memor Domini? «Sì. Vedere questi adulti così fieri della propria vita, impegnati in modo serio e semplice, non mi permette di essere tranquilla. Lo penso ogni mattina, quando guardo le mamme in piedi dalle sei che vestono i bambini. La vita è fatta di gesti semplici. Certo, il Signore non mi sconta niente. Il dolore dei genitori, dei ragazzini a volte è davvero grande. Ci sono giorni che scivolo nell’idea di poter risolvere tutto oppure di non aver fatto abbastanza».
Quando accade, Grazia si fa accompagnare a Como. Per un’ora passeggia per la città. Da sola. «Continuo a ripetere: “Gesù, pensaci tu. Adoperami all’infinito”. Perché Cometa è niente». Quello che mi aveva detto Erasmo al mattino. Un tassello in più per comprendere. «Domani, per vari motivi - economici, burocratici o altro -, potrebbe chiudere. Cometa è una possibilità, una forma. Ma l’esperienza rimane. Non la toglie nessuno perché ci è stata donata. È solo da custodire e vivere. A volte siamo spietati affinché nulla sia scontato». Durante un direttivo dell’Associazione, Erasmo era sbottato: «Posso almeno dire che sto male all’idea che questo bambino se ne va anche se so che è la cosa migliore per lui?». Gli era stato risposto: «Ok. Ma tu cosa desideri per lui?».

Tante domande. A pranzo mi ritrovo tra le braccia l’ultimo arrivato in affido. «Tutte le volte è un’avventura nuova», dice Serena. Poi, rivolgendosi alla ragazzina alla mia destra: «Abi, come è andata a scuola guida?». «Bene. Non è facile». Si chiacchiera di come è andata la mattina e dei programmi del pomeriggio fino a quando entra Grazia: «Il piccolo a brevissimo va in adozione. Pochi giorni». «Sicura?». «Sì». Quanti bambini sono passati in questi anni tra le sue braccia? «Ma il distacco è sempre duro. Prendono un pezzo di te». Antonella, la signora che ogni mattina aiuta nelle pulizie, mi racconta: «Non mi fermo un minuto. Ma io sono contenta di lavorare qui. Una sera ho invitato tutti i figli, anche i piccoli, a cena a casa mia a Cantù. A Serena ed Erasmo lo abbiamo detto all’ultimo. Ma non li abbiamo invitati! È stata una serata bellissima». Cometa è così: da incontro a incontro.
Sui tavoli antichi della grande mansarda i 107 ragazzi del centro diurno, dalle elementari alle superiori, fanno i compiti. Molti vengono anche a pranzo. Sono divisi in piccoli gruppi, con educatori e volontari che li seguono. Qualcuno “usufruisce” di un rapporto singolo. Dopo i compiti c’è il tempo per una partita di calcetto o solo per una chiacchierata. «Alcuni hanno situazioni familiari difficili», spiega Stefano, educatore: «Ma tutti li aiuti a crescere, non solo ad andare bene a scuola». Ridono, scherzano, qualcuno con una scusa si alza, fa un giro e, richiamato, si risiede. Due minuti e si rialza. Continua Stefano: «Il ragazzo non è definito dal suo comportamento. Ti manda a quel paese, ma non sei tu il problema. È una continua provocazione. Per questo molti educatori non reggono. Ogni giorno torno a casa con tante domande».
Accompagno Marina a prendere i bambini delle elementari e dell’asilo delle cinque famiglie dalle suore Canossiane a Como. Questa volta tra le braccia ho Sara, due anni, down. Era arrivata in affido. Poi la richiesta dei figli naturali: «Perché non la teniamo con noi per sempre?». Marina e Cente erano stati chiari: «Siete consapevoli che quando non ci saremo più ve ne dovrete occupare voi?». La riposta era stata certa: «Sì. Per noi Sara è nostra sorella». Mi dice Marina: «Adesso speriamo che arrivino i documenti così a Natale possiamo portarla con noi a Lourdes». Accompagnare un piccolo al distacco non è facile. «No, non lo è. Mi ricordo di una volta, per un bambino che era stato con noi più di quattro anni». Don Julián Carrón le aveva detto: «Puoi mettere la mano sul fuoco che questo bambino può essere felice solo con voi? Tu non sei Dio. Ricordati che il vertice della ragione è la possibilità». «Da allora per me quel giudizio è la luce che illumina tutta l’esistenza. Siamo sempre in cammino». Cosa significa questo con tuo marito? «A volte basta uno sguardo per intenderci. Cente ha una rapidità di giudizio che mi stupisce ogni volta. La sua presenza, anche se ci vediamo meno, mi fa sobbalzare. Me la custodisco dentro la giornata». Nei corridoi della scuola i bambini che dobbiamo portare a casa hanno una richiesta da fare, qualcosa da raccontare. Tutti un bacio per Sara. Non solo i suoi fratelli.
La cena a Cometa è con quattro famiglie. La quinta è a rotazione, perché non ci sono posti a sufficienza. Mi chiedono di raccontare del santuario di Cotignac. «Quando andiamo a Lourdes ci possiamo passare», dice Cente e guarda Marina. Qualcuno arriva più tardi perché agli allenamenti, o a scuola guida, o a far la baby sitter. Qualche piccolo salta in braccio o non vuol mangiare e allontana il piatto. Quello che accade in tutte le famiglie. Le voci si alzano e allora qualcuno dice: «Chi sa qualcosa degli scioperi nelle scuole?». «Da noi nulla». Interviene Erasmo: «Attenzione. Dobbiamo scegliere i piatti nuovi. Guardate. Blu o giallo?». Una mamma dal fondo: «L’importante è che reggano il lancio in lavastoviglie». Alla fine la recita di una decina del Rosario.

Le mamme in lavanderia

Gli angolini non bastano. Paolo, il Binda, mi accompagna nell’appartamento a disposizione delle famiglie che adottano. «Normalmente si fermano una o due settimane», racconta. Paolo è coordinatore dell’area lavoro. «Ho cominciato seguendo i primi progetti del centro diurno. Poi la decisione con Marilena di aprire la nostra famiglia all’accoglienza». Al Binda si fa fatica a tirar fuori le parole. «Siamo proprio tutti diversi. Anche i due Figini. Il giorno e la notte. L’unica cosa che salva è proprio la comunione fra noi. Che è fatta da Gesù. Ma devi desiderarlo, chiederlo. È la conversione. Questo ti salva dal borghesismo, dal rifugiarti nel tuo angolino. D’altra parte per avere il centuplo promesso gli angolini non bastano». E la fatica, Binda? «C’è. Ma il problema è la fatica?». Chiaro.
La mattina alle 6 e 40 nella piccola cappella recito l’Angelus con tutte le mamme. Mi dice Elisabetta: «La preghiera all’inizio della giornata è l’ipotesi con cui parti ad affrontare tutto. Poi magari te ne dimentichi. Ma queste facce subito te lo ricordano. Adesso vieni da me a fare colazione. La mia è la casa dei piccolini. Un po’ di confusione...».
Sul treno in tasca ritrovo il foglietto scritto al mattino. I numeri farebbero già notizia, ma non dicono nulla di quello che il Signore ha donato a tutti loro. E a chi li incontra.