«Ma tu dove sei?»

Valentina è ginecologa. Dal fare ricerca in Inghilterra ai consultori, faccia a faccia con tanti temi di cui si discute oggi: pillola, fecondazione assistita, sesso. «Pensavo bastasse conoscere la dottrina. Invece...» (da Tracce, ottobre 2014)
Davide Perillo

La mano era la sua. Scriveva in fretta, per finire il prima possibile mentre faceva le domande di sempre a quella donna che aveva a malapena salutato. Era l’ultima paziente della giornata. Malattie? Disturbi? Precedenti in famiglia? «A un certo punto ho guardato quella mano che si muoveva a scatti sulla carta, un po’ isterica. Mi sono data fastidio da sola. Mi sono fermata e ho pensato: ma tu dove sei adesso, Vale? Ho alzato lo sguardo, ho visto questa signora. “Ma chi è questa donna? È una persona, è un grumo dell’Essere che io prima non conoscevo. E adesso è davanti a me...”». Un attimo. Roba da niente. Eppure è lì che si è spalancata di nuovo la vita.
È una storia semplice, quella della dottoressa Valentina Doria. Ma aiuta a capire tante cose. Le sfide che abbiamo davanti, impensabili solo fino a qualche anno fa. L’occasione che possono essere per chi decide di affrontarle. E anche cosa vuol dire papa Francesco, quando parla di una Chiesa che «accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri possano essere», come fa nell’Evangelii Gaudium. O quando chiede ai cristiani di «cercare forme o modi per comunicare con un linguaggio comprensibile la perenne novità del Cristianesimo», perché «occorre essere realisti» e «molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada», come ricordava nel messaggio all’ultimo Meeting di Rimini.
Valentina ha quarant’anni e un curriculum di livello (sei anni di PhD a Londra, a studiare le reti neuronali dei feti in progetti che l’hanno portata anche a Stoccolma per raccontare le sue ricerche davanti alla commissione del Nobel) che poi prende un’altra piega: «La ricerca è bella, ma mi mancava il contatto con una realtà più viva e volevo tornare alla clinica».
Nel suo caso, la clinica è l’Ospedale Niguarda, a Milano. Ci arriva nel 2010, ci passa tre anni «intensi e duri. La pressione a volte pesa: se uno ha un infarto a 70 anni e muore, dici “è il corso della vita”. Ma se una donna giovane ha delle complicazioni durante il parto, pensi che è colpa del medico».
Poi, da un mese all’altro, si ritrova senza lavoro. Ristrutturazione e tagli. Apre la partita Iva e si mette a cercare dove può. Ambulatori, consultori. Con un dubbio dentro, gonfiato dalle voci dei colleghi: «I consultori, rispetto agli ospedali, sono considerati di serie B. Mi dicevo: ma non è che sto sprecando tutti questi anni di studio? Però la realtà era quella: posti in ospedale non ce n’erano. E io volevo leggere la realtà». Aiutata da una scintilla accesa da un dialogo con un amico. «Mi disse: guarda, Vale, noi non costruiamo nella vita se portiamo a termine il nostro progetto, per cui fai medicina, poi la specialità per diventare ginecologa, poi il dottorato... Tutto giusto, per carità. Ma noi costruiamo soltanto se rispondiamo a qualcuno nel presente. Adesso, facendo quello che fai, cosa affermi? Che cosa ami?».

«Ci pensi lei...». Domanda secca, che scava mentre la settimana si riempie di impegni (al primo consultorio nella Bergamasca se ne aggiunge un secondo, poi un ambulatorio, poi altri) e le giornate di sfide. Potenti, da subito. «L’impatto più duro è stato con le adolescenti. Ricordo già il primo giorno una mamma che arriva con una ragazzina di 13-14 anni, quasi me la butta nell’ambulatorio e fa: “Dottoressa, ci pensi lei, spieghi tutto a mia figlia che io non voglio problemi. Ci siamo capiti, no? La pillola, mi raccomando...».
Ma ne arrivano di continuo, così. Accompagnate, o anche sole. E a Valentina succede una cosa, semplice e drammatica: va in crisi. «Lavoro da quindici anni, so cosa dice la Chiesa, ho letto mille volte l’Humanae vitae: pensavo di essere equipaggiata». E invece? «Mi sono accorta che queste ragazze parlavano un’altra lingua. Io rifiutavo di prescrivere la pillola, perché sono certa che non è giusta e spacca l’umano in due. Cercavo di spiegare cos’è l’amore, la responsabilità. Avevo una lista di frasi belle di don Giussani da citare, per colpirle. Niente. Era un dialogo tra sordi. Non c’era nessuna parola su cui ci si trovava d’accordo: amore, felicità, pienezza, responsabilità. Ogni valore che cercavo di far emergere era ridotto o frainteso. Non le raggiungevo. E non potevo vivere cercando di far capire all’altro un valore. Non mi bastava».
Le giornate si fanno aride. E non per i ritmi di lavoro, le 20-24 visite al giorno, pochi minuti a paziente e ore di spostamenti tra un ambulatorio e l’altro. «Ero io a disagio. Arrivavo, prendevo la lista degli appuntamenti e facevo i conti. “Questa è in menopausa: ok, non ci sono problemi. Oddìo, questa è giovane: chissà che vuole...”. Insomma, non avevo neanche iniziato e avevo già catalogato la giornata tra “rotture di scatole” e “cose da evitare”. Un delirio». Con un tarlo, dentro, a rodere. «Dopo un po’ mi sono trovata a pensare: forse non è così vero che Cristo risponde. E se non può rispondere a loro, perché dovrebbe rispondere a me? Era un punto di conversione totale. Mi ricordo una sera in cui l’ho detto alle amiche: “O mi lascio rivoltare come un calzino, o mi perdo”».
A rivoltarla, arrivò quella signora. Senza neanche dire una parola. «Era una giornata pesante, avevo già visitato moltissime pazienti. Entra lei. Io facevo domande a raffica per andarmene a casa il più presto possibile. E a un certo punto mi è venuta proprio forte questa domanda di esserci io. Ho alzato lo sguardo, l’ho vista. Non credo che lei abbia capito tutto il mio travaglio interiore. Ma è stata una cosa intensissima per me. Quello che è scattato è stato il desiderio di vivere la realtà così come si presenta. È lì che ho cominciato a capire che non volevo scappatoie. È stato un capovolgimento totale, anche nel mio rapporto con Cristo». In che senso? «Invece di partire da un’intenzione buona di vivere con Lui al centro della vita, improvvisamente tu dici: “Ma se non è qui nella realtà adesso, in tutta la lista dei pazienti, non in quelli che voglio io... Alla fine, Chi è? Niente. Lo riduco ai miei pensieri”. Ecco, ad accorgermi mi tremava la terra sotto i piedi».
E si moltiplicava il bisogno di capire. « Ho iniziato a domandare aiuto, concretamente: a colleghi ginecologi, cattolici e non. A famiglie, giovani, preti...». Uno di loro le capovolge di nuovo la prospettiva, allargandola: «Mi ha detto: “Valentina, anzitutto devi fare il tuo lavoro. Il primo lavoro di un medico cos’è? L’anamnesi: fare delle domande. Ecco, devi imparare a fare delle domande”. Per cui io ho iniziato un po’ alla volta a fare alle pazienti domande vere, reali, non pretestuose di cui so già la risposta».
Nel suo chiedere, si imbatte anche in un’altra scoperta. Il Teen Star, un metodo di educazione all’affettività creato da Pilar Vigil, dottoressa cilena, e molto diffuso in America Latina. «Si basa sulla teologia del corpo di Giovanni Paolo II», spiega Valentina: «Restituisce una dignità piena a tutta la corporeità. Mette al centro la persona. E, soprattutto, parte dall’esperienza. Perché ai ragazzi non puoi insegnare niente che non abbia rapporto con quello che vivono». Esempio? «Se dici a un adolescente “guarda che non siete solo il vostro corpo, ma c’è anche un aspetto spirituale: per cui per favore, non usatevi...”, oggi è molto probabile che entri di qui ed esca di là. Pilar, invece, fa fare un esercizio. Dice: “Guardatevi negli occhi per 40 secondi con quello che avete di fianco”. Questi ridono, non ce la fanno, è difficilissimo. Ma alla fine gli chiedi: “Cosa è successo?”. “No prof, è un casino...”. Perché? E spunta una ragazzina come quella che una volta mi ha risposto: “Perché dietro agli occhi c’è un’altra cosa”. Capito? Non ci appiccichi niente, e la volta dopo riparti da questo».

La risposta di Dio. L’esperienza. È lì, in quello che succede, che Valentina comincia a trovare le risposte e una strada. «Pensa ai metodi naturali. Tante volte ne parlavi e cadeva tutto nel vuoto. Io pensavo che mi mancasse una comprensione vera della dottrina, o una professionalità piena, per essere capace di dire la cosa giusta al momento giusto. E poi la Chiesa ne parla in un contesto di matrimonio: le mie pazienti non sono quasi mai sposate. Mi dicevo: non potranno mai capire. Ma dopo un po’ è arrivata Grace».
È il nome (di fantasia)?di una ragazza nigeriana, sui 25 anni. Fa la prostituta. Un pomeriggio piomba in ambulatorio e le dice: «Dottoressa, io per il mio lavoro faccio usare il preservativo». Un attimo di imbarazzo. «Ma con il mio uomo non voglio usarlo, perché si deve capire che è un’altra cosa». Altra pausa. «Però abbiamo già due figli e ora non possiamo averne. Mi insegna i metodi naturali?». Valentina sorride ancora a raccontarlo. «Me lo sono fatto ripetere tre volte, pensavo di non aver capito bene. E invece no, aveva le idee chiarissime. Quella ragazza è stata una risposta di Dio a me. Era Lui che mi diceva: “Tu pensi che l’uomo di oggi non possa capire? Bene, io te lo faccio vedere lì dove non te lo aspetti...”. Per me è stato fondamentale». Perché? «È il metodo dell’Incarnazione. Vedi in atto una cosa che hai desiderato con nostalgia da sempre: improvvisamente accade e capisci che è quello che desideravi tu... È come se l’io toccasse di colpo la realtà. Tac, tu tocchi qualcosa e quella cosa ti cambia, è come una vaccinazione. Da lì in poi, hai degli strumenti nuovi. È accaduto. Io non so come accadrà nelle altre donne, ma a me basta per dire “non è vero che non possono capire”. La cosa interessante, poi, sarà scoprire la strada, i passi da fare insieme». Intanto con Grace è diventata amica. E lo stesso con altre sue colleghe, nigeriane e rumene.

Domande giuste. Ma questa strada ha risolto i problemi? La pillola alle ragazzine, per esempio: come fai, cosa è cambiato? «Che io sono più certa a proporre un’alternativa. Prima lo dicevo sempre, parlavo sempre di altre strade. Ma non era una proposta reale. Era come dire: “Io faccio così, lei se non vuole vada da un’altra parte”. Ma mi sembrava una cosa intellettuale». E adesso? «Non sto riscrivendo l’Humanae vitae, ci mancherebbe. E non ho sviluppato nessuna casistica di applicazioni giuste. La vetta della montagna rimane alta e stupenda. Ma so che il cammino deve avere tutta la pazienza di aspettare. E non è che se abbasso la vetta è più contento l’uomo». Ma tu? Sei più serena? «Non sono mai a posto, sono in continuo subbuglio. Però mi accorgo che quelle ragazze le sto raggiungendo piano piano. E che anche io faccio dei passi reali. Tutte le volte che entra una donna giovane, che penso voglia la pillola, cerco di capire in che contesto vive, che storia ha, fino a quanto posso spingermi».
Anamnesi, appunto. Le domande giuste. Quelle che toccano il cuore della donna tunisina che entra in consultorio chiedendo di abortire «perché abbiamo già tre figli e non ce la facciamo». E adesso di figlia ne ha una quarta che si chiama Doria. «Mi ha detto: non posso chiamarla Valentina, è un nome cristiano. Però volevo chiamarla come lei, perché voglio che sia felice come lei. Non ha detto brava: ha detto felice...». O quelle che fanno venire a galla il cuore della coppia che ha bussato alla porta qualche settimana fa. «Due molto semplici, lui operaio, lei casalinga». Non riuscivano ad avere figli e da un’altra parte li avevano convinti a tentare con l’inseminazione artificiale. «Sono arrivati da noi che avevano già fatto tutto. E io: be’, ma perché siete qui? “Per capire”. Capire cosa? “Se è giusto o sbagliato”. Ma cosa? E vedevo che lui era sempre più a disagio. Fino a quando è sbottato: “Dottoressa, voglio capire che cosa è giusto, umano, che non mi faccia stare così male. Perché io sono arrabbiato nero. Sento che sono stato usurpato di uno spazio con mia moglie che è sacro ed è solo mio”». E tu? «Sono rimasta scioccata: lo ha capito da solo, nella sua esperienza. È uno spettacolo vedere un cuore che sta scoprendo qualcosa di se stesso. Non lo incalzavo dicendo: «Sì, appunto, vede? La Chiesa dice proprio che...» Era già lì, tutto. Stava accadendo. Dopo abbiamo letto insieme dei pezzi dell’Humanae vitae e della Donum vitae, perché ce le ho sempre in borsa. E questa cosa li ha illuminati sul loro cuore, li ha aiutati a giudicare».

«Sei contenta?». Illuminare il cuore. Accompagnare a riscoprire l’umano, dal terreno stesso dell’esperienza. Ecco cosa fa il cristianesimo. In qualsiasi condizione.
«La settimana scorsa mi vedo arrivare questa coppia di indiani, giovanissimi. Per capirci con gli stranieri abbiamo un librone che contiene le frasi fondamentali in 145 lingue. La loro non c’era. Lui fa il cuoco, lei sta a casa. Una ragazzina minuta, alta 1,45, pesava 33 chili ed era in gravidanza. Spaesatissima, perché vomitava tanto ed era preoccupata». Primo figlio? «Sì. Abbiamo prescritto gli esami, l’ho tranquillizzata come si poteva, parlando attraverso il marito che un po’ di italiano lo sa. Poi, a un certo punto, le ho chiesto: “Ma stai bene? Sei contenta?”. E lui: “Sì, è contenta”. Capita spesso: tu fai le domande alla donna e risponde l’uomo. Io insisto: no scusi, lo faccia dire a lei. Glielo ha mai chiesto?». E lui? «È rimasto sorpreso. Poi si è girato e glielo ha domandato: ma sei contenta? Non so descriverti le facce, ma era uno spettacolo. Come se si guardassero per la prima volta». Come se qualcuno li avesse guardati per la prima volta.