Elisa e il piccolo Pietro

Non tanto per il lieto fine

La vita a rischio per una patologia rara. Il dolore, la gratitudine. Un anno trascorso in ospedale tra operazioni, bisogno ed amicizia. Storia di un neonato e dei suoi genitori. E di chi li ha incontrati... (da Tracce, gennaio 2015)
Mattia Ferraresi

Tutte le avventure iniziano con uno sguardo innamorato. Emmanuele guardava così, da innamorato, lo schermo dell’ecografo in cui s’agitava una piccola vita. Elisa, che quella vita la portava nella pancia, se lo ricorda bene. Non ha lavato via la paura, la rabbia, l’amarezza, il senso d’ingiustizia e tutto quel drammatico e inesprimibile magma che ribolle nei crateri della vita, ma in un istante ha rimesso il cuore in ordine. Il ginecologo aveva ordinato un’analisi più approfondita per verificare il problema che aveva visto nitidamente già alla dodicesima settimana di gravidanza.
In termini medici si chiama onfalocele gigante. Significa che alcuni organi interni si sono sviluppati fuori dall’addome, un’ernia ombelicale di massa pari al resto del corpicino, protetta soltanto da una fragile membrana. Patologia rara e gravissima, senza un chiaro iter medico da seguire: non sono molti i bambini in quella condizione ad arrivare alla nascita. Per la statistica è un decimale insignificante.
Elisa non lo nasconde: «Ero arrabbiata con tutti, con il mondo, con Dio». Aveva perso due bambini nelle primissime fasi della gravidanza, e quando finalmente una nuova vita si preparava ad arrivare ecco la notizia che soffoca l’attesa, amara come un tradimento. Ma quello sguardo del marito scompagina tutti i calcoli. Nello schermo non c’è soltanto un grumo di vita deforme, c’è un uomo con un nome, un volto, un cuore, un destino, un uomo che poteva non esserci e invece c’è, sorprendente come un regalo recapitato da un amante misterioso. Ma chi è l’amante che permette tutto questo? Chi è che dispone del grande mistero della vita e del dolore innocente? Questa domanda si è imposta nelle vite di Emmanuele ed Elisa e di tutti quelli che hanno incontrato sul loro cammino, una domanda bruciante che ora è un grido struggente e denso di fatica, ora un sussurro docile e colmo di gratitudine.
A gennaio dello scorso anno è nato Pietro Maria, con il suo onfalocele gigante e la sua sete di vivere. Emmanuele ed Elisa vivono a Bologna, ma dopo essersi consultati a lungo con alcuni amici hanno deciso di farlo nascere alla clinica Mangiagalli, a Milano, lontano dalle famiglie e dagli amici di sempre. Chiara, neonatologa che poi diventerà la madrina di Pietro Maria, rimane colpita dallo sguardo di questi ragazzi che si affidano agli amici a un punto tale da entrare in merito ai particolari, ai dettagli tecnici. All’incertezza sulla salute di Pietro Maria si aggiunge il timore della solitudine, ma Chiara ha un’intuizione: «Non sarai sola perché ci sarà tuo figlio con te».

Pietro e il papà Emmanuele

Il paradosso. E quel bambino così fragile, che i medici non sapevano dire se avrebbe vissuto qualche giorno oppure cent’anni, diventa l’inizio di una rivoluzione discreta. Perché tutti in ospedale - i medici, le infermiere, le famiglie degli altri bambini - devono fare i conti con quel neonato e con i genitori che affrontano la situazione con una strana letizia in fondo agli occhi. E qualcuno mormorava fra sé: «Ma lo sapevano anche prima, no?».
Non che le circostanze fossero facili. I mesi in ospedale con Pietro Maria dentro e fuori dalla terapia intensiva, Elisa costantemente in reparto, Emmanuele che fa il pendolare fra Milano e Bologna, i turni al capezzale del bambino, la cena la sera tardi. Eppure «non desideravamo scappare da lì, perché non è che la vita riparte quando esci dall’ospedale», dice Emmanuele.
Una volta, in un pranzo fugace fra un turno e l’altro, aveva detto: «Non posso dire che è un periodo brutto della nostra vita, anzi sono certo che siamo dove dobbiamo essere». La faccia era stanca, ma il cuore pieno della domanda intorno a Colui che «dà a tutti la vita e il respiro ad ogni cosa», secondo la potente formula di san Paolo. «Tentare di levarsi di dosso i problemi è inutile, la cosa interessante è guardarli in profondità». Un criterio che ha dettato anche la regola dei rapporti: «A quelli che vogliono venirci a trovare per darci una pacca sulla spalla, per confortarci, diciamo di stare a casa. Non solo perché non possono consolarci, ma perché non hanno capito a quale livello dell’esperienza ci sfida questa cosa, e per meno di questo non ne vale la pena».
Il paradosso è questo: più la situazione clinica di Pietro Maria si complicava, più la domanda di significato di Emmanuele ed Elisa si purificava, diventava limpida. In tutto il mondo c’erano amici che pregavano per Pietro Maria, ma la loro stessa vita aveva assunto la forma di una preghiera, quella che Giussani definisce una «domanda di adesione all’Essere, perciò a Cristo».

Amici sconosciuti. Questa diversità l’hanno intercettata quelli che hanno incrociato il loro sguardo. Se n’è accorta la coppia di musulmani che li vedeva pregare accanto al letto. Se ne sono accorti i genitori che confidavano senza giri di parole: «Se avessimo saputo prima che nostro figlio aveva questo problema non l’avremmo fatto». Eppure li cercavano, volevano stare con loro, fare un pezzo di strada con questi amici sconosciuti. Se n’è accorta Gloria, la neonatologa che ha battezzato Pietro Maria nella notte drammatica in cui lo hanno operato d’urgenza per una perforazione all’intestino.
Aveva nel cuore il tarlo della vocazione, Gloria. Si era completamente dedicata al lavoro, aveva fatto i passi giusti e raggiunto gli obiettivi professionali che si era prefissata. Ma le rimaneva un vuoto dentro. «Non mi bastava il lavoro, non mi bastava nulla», spiega. Ha incontrato Emmanuele ed Elisa per via di questa ferita aperta dentro al cuore, domanda che li ha resi subito amici quando lui l’ha presa in contropiede sulla porta dell’ospedale: «Vogliamo venire a cena a casa tua». «Va bene, però ordiniamo una pizza». Anche la più grande delle avventure può nascere davanti a una pizza d’asporto. «Mi sono chiesta: “Ma chi è questa gente che piange ridendo?” Ho trovato una compagnia nel deserto», racconta lei, che poi non si è più staccata da loro. Non solo. Attraverso Pietro Maria ha incontrato Antonio, il chirurgo che era di turno quando lo hanno operato la prima volta. A maggio si sposano e, dice lei, «forse non l’avrei davvero incontrato se non avessi fatto il percorso che ho fatto quest’anno».
Una specializzanda del movimento, che dall’inizio è stata una compagnia preziosa per Emmanuele ed Elisa, lo racconta in modo commovente: «A un certo punto era Gloria che mi “riportava” alla Scuola di comunità. Le dicevo: “Non andiamo stasera, abbiamo lavorato così tanto, ho i bambini a casa”, ma lei insisteva, perché intuiva che lì c’era la risposta alle sue domande. Così lei è diventata una presenza per me». Se scruti oggi lo sguardo di Gloria ci leggi un verso di Pavese: «Ti ride negli occhi la stranezza di un cielo che non è tuo». E verrebbe quasi da modificarlo, perché quel cielo è diventato anche un po’ suo. «La sorgente della vita», continua a ripetere la specializzanda, «questo è quello che tutti cercavamo e cerchiamo. La domanda sulla sorgente della vita, sull’origine del nostro bisogno ci ha tenuti insieme in questi mesi, l’orizzonte non era soltanto la guarigione di Pietro Maria, ma aiutarci l’un l’altro a guardare fino in fondo questa domanda».
Perché poi Pietro Maria è guarito. Contro ogni previsione, l’ernia si è un po’ alla volta ritirata naturalmente dentro l’addome, e i chirurghi hanno infine sistemato gli organi fuori posto. Ma c’è molto di più di un lieto fine. «Io sono cambiata», dice Gloria, «e questo è un miracolo che non sarebbe cancellato nemmeno se Pietro Maria non ce l’avesse fatta».

Il sangue e il sorriso. Il cuore desidera l’infinito, non un happy ending. La storia di Pietro Maria è in realtà la storia di un popolo che cammina, un passo dopo l’altro, verso questo infinito che s’intravede nella filigrana delle cose provvisorie. E che cambia, genera. Un popolo che abbraccia il sorriso di Pietro Maria e il sangue innocente del beato Rolando Rivi, ai quali Emmanuele ed Elisa, che ora aspettano un altro figlio, si sono affidati da quando inaspettatamente hanno ricevuto una sua reliquia. «È lui che ci è venuto a cercare», dice lei. Fino a coinvolgere tutti quelli che sono stati travolti, o anche soltanto lambiti, dalla presenza di Colui che dà a tutti la vita e il respiro a ogni cosa.